Questa condizione non ha d'uopo di esprimersi: essa è la base del contratto; essa la fonte della obbligazione indossatasi dal Popolo; essa la ragione sufficiente delle promesse da lui fatte al Principe. Se chi riceve la Sovranità si spiegasse nell'atto dell'investitura di non volerne usare a quel fine, anzi di volerla impiegare al contrario, troverebbe uno disposto a ratificare il contratto? Or dunque, quando mai avvenisse, che un Principe prendesse a distruggere i diritti naturali di ognuno, a sostituire il capriccio alle leggi, e ad immergere nella miseria i poveri sudditi, il contratto resterebbe sciolto da sè. §.17. Oltre la detta condizione, alla quale niuno uomo può rinunziare, ciascun Popolo, come dicemmo, è padrone d'inserir nel contratto qualsivoglia altro patto, che crede opportuno al suo ben essere. Ed in pratica ogni Nazione, dopo lunga esperienza del paese, che abita, del commercio, che fa, delle inclinazioni, che manifestano gl'individui, fissa certi punti economici e politici, e giudica suo interesse che si osservino in perpetuo, e che sieno superiori a qualunque attentato. Le condizioni di questa specie non possono intendersi comprese tacitamente nel contratto, come quella: non essendo essenziali al medesimo fa d'uopo che si propongano e si accettino in termini espressi. [...] §.18. Contro questo argomento io non vedo nulla che possa intorbidarne la luce. Si dirà, un tal contratto non essere condizionato? Tutti sono di lor natura condizionati que' contratti, ne' quali si promette qualche cosa dall'una parte e dall'altra. Io vi dò affinchè facciate, è una espressione, ch'equivale a quest'altra: io vi dò se volete fare. Se io dal canto mio vi prometto ubbidienza, ciò è a condizione, che usiate del comando a mio vantaggio. Non potendo mettersi in dubbio esser condizionato il contratto, si vorrà sostenere, che ciò non ostante sia indissolubile? Ma bisogna riflettere, che un contratto di sua natura condizionato significa un contratto, che di sua natura non tiene, quando non si verifica la condizione; di sorte che l'accordare, che il contratto, del quale si parla, è condizionato, ed il pretendere, che sia indissolubile, è una manifesta contraddizione. §.19. Ritorniamo un momento sopra gli stabiliti principi. Che cosa è la Sovranità? L'espressione della mente, della volontà, e della forza comune; cioè le porzioni de' diritti di ogn'individuo poste in comune. Ma questi diritti non sono intimamente inerenti alla natura di ognuno? Ma l'unico fine, che gli obbliga di farli amministrare in comune, non è per ottenere i beni della Società, che senza di ciò ottener non si potrebbero? A quel fine sostituite il contrario: fate che tutta questa manopera non serva, se non ad infelicitarne gli autori, eludendone le speranze; e vedrete, che la manopera si disfà da sè stessa; che il popolo giustissimamente può ripigliarsi il suo, ciò che si amministrava in suo nome, ed unicamente per la felicità sua, ed investirne un altro con auspici migliori. §.20. Ma noi, che non iscrivendo per adulare i Principi, neppure intendiamo di esporre la Dignità loro alla popolare licenza, siccome abbiamo consultata la pura ragione nello stabilire il diritto, così non taceremo gli angusti limiti, ne' quali la stessa ragione lo ristringe. E prima di ogni altra cosa, vuol la ragione che si attenda la quantità del male proveniente al Popolo dal Principe; perocchè non ogni legger male, non ogni mancanza, non ogn’infrazione de' patti contenuti nel contratto è sufficiente a scioglierlo: quelle sole, che ne attaccano e ne distruggono la sostanza, hanno forza di annullarlo. §.21. Per secondo, non dee ciò decidersi con prove dubbie, con fatti equivoci, con operazioni passeggere; ma è d'uopo che sia evidente, notorio, innegabile; e ch'egli mostri una volontà ostinata. §.22. Per terzo, che il contratto siasi sciolto già da sè stesso, si dee legalmente dichiarare. Prima della quale dichiarazione a niuno è permesso di sottrarsi dall'ubbidienza del Principe. E il diritto di far tale dichiarazione non appartiene a verun privato, nè alla unione di alcuni, nè anco alla moltitudine. Questo è diritto di tutto il corpo, ed è quella porzione di Sovranità che, essendo di natura incomunicabile, rimane perpetuamente inerente nel corpo. Imperciocchè niuno oserà dire che un privato o alcuni uniti di sentimento costituiscano tutto il corpo. Neppure può accordarsi tale pretensione alla moltitudine, perchè questo nome non denota, se non molti individui; ma senza vincolo di unione. Bisogna che la moltitudine faccia vero corpo, cioè che consentano tutti i Magistrati, tutti gli Ordini de’ Cittadini, le persone illuminate, probe, e non soggette all'impeto del momento. Non è però necessario, che concorrano i voti di tutti gl'individui, talchè, mancandone uno solo, o pochi, abbia l'atto a riputarsi nullo: in cose di pratica non si ricerca, se non un tutto morale. Del resto, ogni colta Nazione nella Costituzione fondamentale, che dà a sè stessa, e che inserisce nel contratto che fa con la persona che vuole innalzare al Principato, e che questa giura di mantenere, sempre, forma un corpo o sia un Collegio, per cosi dire, immortale, che rappresenti permanentemente tutti gl'individui. Laonde basta che la dichiarazione si faccia da questo corpo, per esser legale. Il primo passo, che dà il Despotismo, è il togliere davanti agli occhi del Popolò il corpo rappresentante la Nazione: ne prende il pretesto da qualche abuso ch'esagera, e cuopre le vere sue mire con lo specioso orpello di assicurare in miglior guisa il bene generale degli amatissimi sudditi, organizzando un altro corpo decorato di vanissimi titoli in modo, che dipenda in tutto dal trono. Ma siccome la forza non può nulla sul diritto, capace d'introdurvi il minimo cangiamento, così il vero organo della Nazione sussiste sempre, sempre vive; e subito che può adunarsi, e deliberare, la dichiarazione, che fa, è dichiarazione della Nazione. §.23. Per quarto, non può venirsi a tale dichiarazione, se non da poi che siensi sperimentati inutili tutti i mezzi della persuasione. Se nelle private querele la prudenza osserva cert'ordine di mezzi e non procede all'estremo, se non astretta da vera necessità, quanto maggior cautela usar si dee nel dare un passo, che sarà l'annunzio di una terribile rivoluzione, e che può, avvegnachè giusto, precipitar la Nazione in mali peggiori di quelli, da' quali volea liberarsi? Può essere che il Principe erri di buona fede, e che immerga lo Stato nella miseria, credendo di renderlo più felice. Può essere che sia ingannato da qualche Cortigiano, il quale abbia acquistato ascendente sul di lui spirito. Allora col far giungere al trono la voce della verità, e con rimuovere l'instigatore, si ottiene sicuramente l’intento, come appunto una infinità di fatti antichi, e moderni lo prova. Se poi il disordine è nella volontà del Governante, depravata, ed indurita per qualche forte passione, non mancano mezzi valevoli a svolgerla. Il non resistere, il tacere, l'umiliarsi, e l'abbandonarsi alla clemenza, dove si avrebbe diritto di esiger giustizia, suol giovare con Principi di cuor buono: questi sono disposti a rientrare sul diritto sentiero, purchè si creda, che vi tornin da loro. Si ricorre pur con profitto a’ buoni uffici, ed ancora alle minacce di altri Principi. Quando poi sia tutto vano, e si vegga una volontà inflessibilmente ostinata nell'odio degli uomini, un genio invincibilmente malefico, un Tiberio, un Nerone, un Domiziano, sarà la stessa necessità, che detterà la dichiarazione dello scioglimento del contratto, dopo la quale, il Tiranno è legalmente decaduto dalla Sovranità, e questa rientra nella sua sorgente, ch'è il Popolo, il quale può conferirla a chi giudica meglio, e può altresì cangiare la forma del Governo come più espediente gli sembra. (Il diritto del popolo di uccidere il tiranno)
(Libr. I, cap XVI) §.24. Che farà il soggetto spogliato del Principato? Vorrà mantenervisi con la forza? Alla forza la Nazione ha diritto di opporre la forza; e però essa intraprende una guerra giusta. Ed in guerra giusta può lecitamente farsi al nemico l'estremo de' mali quando un mal minore alla propria sicurezza non basta. §.25. È celebre una massima conceputa in questi termini generali: Licet occidere regem tyrannum, la quale da molti è altamente commendata, ed altamente detestata da molti. A senso mio hanno torto, ed hanno ragione gli uni, e gli altri, poichè quella proposizione troppo vaga, ed indeterminata, se si dividerà in due, si troverà, che l'una è vera, e retta, e l'altra falsa, ed iniqua. §.26. È lecito a chiunque di uccidere un Principe, ch'egli per suo privato giudizio stima tiranno, tale cioè, che abbia violate le condizioni essenziali del contratto; ed egli stima quello essere il caso, in cui si rende necessario rimedio l'ucciderlo? In questi termini la proposizione è esecrabile, come quella, che contiene tante ingiustizie, quante parole. È nullo il giudizio di un privato nel decidere circa la infrazione del contratto, e nullo nel decidere del caso, in che sia necessario il rimedio della morte. Il perchè un temerario, che faccia questi due giudizj, oltre il delitto di maestà, che commette contro il Principato, il quale a suo dispetto è vigente nella persona, in cui risiede, è reo di maestà contro la Nazione, arrogandosi egli solo due supremi diritti che appartengono a questa. Scellerata per conseguenza è l'azione dell'uccidere, e la scelleratezza giunge al colmo qualora vi sia accompagnato il tradimento. §.27. Ho ristretta questa dottrina in termini molto rigorosi, e ciò non ostante la giudico falsa ed iniqua. Vi ha di quelli però, i quali la difendono in termini più ampli. Opinano costoro, che non debba attendersi la detta condizione, cioè che la morte sia rimedio assolutamente necessario, persuasi che un tiranno abbia perduto il diritto di vivere unicamente perchè tiranno, come un assassino perchè assassino. Sopra questi principj si appoggiava l'eroismo sanguinario de' Pagani, con gli scritti de' quali esso è passato in alcuni de' moderni fanatici. Ma, se è detestabile con tutte quelle restrizioni, lo è molto più, togliendone la principale, che forma la base di tutti i diritti della guerra. E noi siamo debitori al Concilio di Costanza, che dichiarò eretica tal dottrina, difesa a bello studio da Giovanni il Piccolo per giustificare il più odioso assassinamento. §.28. L'altra proposizione si esprime così: È lecito al Corpo della Nazione dichiarar decaduto un Principe diventato tiranno, cioè che non vuol desistere dall'aperta violazione delle condizioni essenziali del contratto, e di ucciderlo, qualora essa non abbia altro mezzo di provvedere alla propria salvezza? Noi reputiamo vera, e retta questa dottrina, e siamo convinti che i principj, che ne formano la prova, sieno di tanta evidenza, che le declamazioni ed i sofismi non servano ad altro, che a farla maggiormente risplendere. Prego il lettore, che vi torni sopra, e gli mediti bene: io passerò a dilucidare qualche difficoltà. Contro l'assolutismo e per la sovranità del popolo
(Libr. I, capo XVII) §.1. Per compir l'opera con la stessa buona fede con la quale la principiai, esporrò gli argomenti che far si possono in contrario, e, lungi dall'estenuargli, procurerò di collocargli nella più luminosa comparsa, acciocchè il Lettore, confrontando con essi le risposte, si ponga in grado di rettamente decidere. E per maggior chiarezza li divideremo in due classi, nella prima delle quali chiameremo ad esame le ragioni di quegli, che confessano, conferirsi dal Popolo la Sovranità, e ciò non ostante pretendono, ch'egli non possa levarla a chi l'ha gia conferita; e nella seconda favelleremo dell'opinione di quegli altri, i quali insegnano, che la Sovranità viene da Dio, non dagli uomini. §.2. Per ciò, ch'è degli argomenti del primo genere, io non trovo che altri abbia detto, nè che possa dirsi, più di quel che ne scrisse Obbes nel Libro de Cive al cap. 6. n. 20. Ivi egli comincia dal riflettere, che sebbene si concedesse, che ogni patto, siccome prende forza dalla volontà de' contraenti, così la perde per consenso de’ medesimi; e che però la Sovranità possa togliersi col consenso di tutti i sudditi; non di meno per diritto niun pericolo sovrasterebbe indi ai Sovrani. Imperciocchè (egli prosiegue) supponendosi che nel conferir ad un soggetto la Sovranità, ciascun Cittadino si fosse a ciascun Cittadino obbligato; se uno solo de' Cittadini non volesse che gli si levasse, non potrebbero tutti gli altri senza ingiuria far ciò che per patto obbligaronsi con quel Cittadino di non fare. Nè dee stimarsi, che mai accada, che tutti i Cittadini, senza eccettuarne pur uno, consentano contro la Sovranità. Onde, concedendosi, che la Sovranità si appoggi a questo patto solo, niun pericolo sovrasterebbe ai Sovrani di esserne spogliati per diritto. §.3. Questa prima sicurezza data da Obbes a’ Principi malvagi è un debolissimo filo dipendente da un sol Cittadino, che non consenta con tutti gli altri; nel quale caso vuol egli dare ad intendere, non poter tutti gli altrî fare ciò che con quell'uno eransi obbligati per patto di non fare. Se la sua massima potesse prender radice, a quali stravaganze non porterebbe? Applichiamola ad un esempio. Venti mila persone hanno eretto di comune consenso un gran magazzino, e vi hanno riposte le più preziose loro sostanze, obbligandosi ciascuno verso il Compagno di non ripigliarsi la sua porzione, se non col consenso di tutti, neppure eccettuandone uno. Dopo qualche tempo si dà la disgrazia, che vada a fuoco il magazzino. Diciannovemila novecento novantanove si accordano di salvar dalle fiamme le loro porzioni; uno solo dissente, e vuol che si persista nel primo patto. Dimandiamo se quelli corrono jure, an injuria a sottrar dall'incendio tutto ciò che possono? Chi dicesse con serietà, che in buona coscienza non possono farlo, meriterebbe per tutta risposta di esser legato qual pazzo, o rinchiuso qual fiera, che di umano sangue si pasca. §.4. Or la similitudine esprime al vivo il caso nostro. La Sovranità è il magazzino eretto da una gran Compagnia di uomini per depositarvi l'inestimabil tesoro de’ diritti naturali di ciascuno, col patto di non ripigliarsi alcuno la sua porzione, se non con un nuovo consenso di tutti. Il magazzino va a fuoco, soffiandovi impetuosamente un Principe divenuto tiranno: sono tutti d'accordo a porre in salvo il mal custodito deposito: vi si oppone uno solo: uno solo dice veto. Tanta è la forza di questa parola, secondo Obbes, che tutti gli altri, per esempio dieci, dodici, venti milioni di uomini, non farebbero jure ciò, che con quell'uno si erano obbligati di non fare. §.5. E se quell'uno solo, che osta, avesse interesse che il magazzino restasse incenerito, onde non venissero in chiaro i furti da lui fatti sui beni dei Compagni? Se quell'uno solo fosse collegato col tiranno? Se fosse l'occulto Consigliere dell'oppressione, il tacito Direttore delle macchine perniciose? In una parola, se il Principe fosse Nerone, e quell'uno dissenziente fosse Tigellino? Più: se quell'uno, che sta forte sul veto, se l'intendesse con qualche Potenza straniera, cui volesse vendere, e la sua Patria, e 'l suo Principe? L’Autore del codice della tirannia che direbbe? Ma io, col mostrare gli assurdi della sua massima, non ho risposto alla massima. Eccone adunque la confutazione. […] Conclusione: l'unico Progetto utile alle presenti Circostanze è quello di fari rifiorire la Religione Cristiana
(Libro VI, capo XIV) [...] §.7. Il ho satisfatto al mio cuore: ho ubbidito alla voce della mia coscienza: ho detto la verità, quale l’ho conosciuta nella solitudine, in che vivo a me stesso. Ho renduto a Dio quel, ch’è di Dio; al Popolo quel ch’è del Popolo; ed ai Principi quel ch’è de’ Principi. E se ho dichiarata guerra ai nemici di Dio, del Popolo, e de’ Principi, ho imitato quei generosi campioni, i quali segnavano il loro nome sulle frecce, che nell’ostile Campo lanciavano. Lungi dal temere, provo nel terminar di questa Opera il piacere, che accompagna una buona azione. §.8. E che deggio temere? Gli effetti della Intolleranza, e della Persecuzione, Ateistica, Massonica e Giansenista? O grandi Vescovi della Francia, degni successori degli antichi Martiri, e perché non avrò io coraggio di seguir le vostre orme? Sì, son pronto a seguirle, e sono anche tranquillo: non tocca di tremare se non a colpevoli. FINE
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