Una sola cosa rimane dell’antica gloria, la colossale figura in mosaico di Cristo nella cupola dell’abside all’estremità orientale. E’ ancora lì, con sereno atteggiamento e la mano levata nell’atto di benedire, com’è per cinquecento anni o più, guardando le passate generazioni di credenti. La serenità di quella figura maestosa, quasi viva, era ed è ancora straordinaria. Mi rigirai indietro con risentimento. “Come può benedirsi una tale distruzione?” Esclamai involontariamente. Poi mi fu suggerito da un amico che quella benedizione poteva fare giungere alle anime più lontano della Chiesa, più lontano delle mura crollate della città distrutta, un messaggio di pace e consolazione nell’ora del bisogno alle anime dei sofferenti nel corpo e nello spirito; e fui felice che quell’abside non era andato distrutto. Non fu solo il terremoto a pretendere le sue vittime. Anche il mare aggiunse i suoi terrori alla calamità. In un certo modo colpiva più lontano nella sua distruzione, perché mentre il terremoto cercò e uccise solo i vivi, le onde del maremoto si scagliarono sul cimitero inglese, radendone le mura al suolo, demolendo le tombe ed i monumenti di marmo dei morti. Nei quartieri del litorale di Messina il mare provocò, forse, più danni del terremoto. Un muro d’acqua, in alcuni luoghi alto dieci piedi, in altri trenta piedi, penetrò verso l’interno della terraferma con energia mostruosa, e devastò boschetti e giardini, strade e case. Le persone sui moli e sulle spiagge furono spazzati via e annegarono. Alberi di limoni e grossi cespugli di fichidindia furono sradicati e disseminati con gran caos. Le imbarcazioni sulla spiaggia furono alzate in alto e proiettate ad una distanza di 200 yarde, disseminate nei campi e nelle strade, oppure ammassate negli stretti archi delle porte attraverso cui le acque di deflusso scorrevano. Le case o furono spazzate via o rovinarono in ammassi di muratura. Se molte vittime furono trascinate verso il mare aperto, altre rimasero sotto le macerie. I lamenti dei sopravvissuti, per molti giorni non raggiunti dai soccorsi, erano pietosi e straziavano il cuore. Una donna, che aveva perso il suo unico figlio, aveva recuperato parte dei suoi indumenti dalle rovine della sua casetta. Li teneva in mano amorevolmente, o se li poggiava sulle spalle, ora ridendo ed ora piangendo. Quando il riso accompagna il pianto è stata raggiunta la più profonda sofferenza mentale. A pochi passi da lei un uomo sedeva sul cumulo di pietre e polvere che era stata la sua casa. Con dolore, guardando il cumulo di macerie diceva: “Se il mare non li ha portati via con se, loro sono qui, qui sotto i miei piedi”. Si riferiva alla moglie ed ai tre figli scomparsi. Si racconta un altro episodio. Un uomo, che era fuggito con gli altri membri della sua famiglia, era tornato indietro per cercare un bambino mancante. Il letto nel quale il bambino dormiva era lì, sebbene la parete posteriore della casa fosse crollata. Al posto del bimbo trovò un pesce vivo dove questi era stato coricato. La natura fu grottesca ed anche crudele. Il subitaneo e perlopiù generale effetto che il terremoto provocò in quelli che erano sfuggiti alla morte fu il disorientamento, quasi una paralisi mentale. Essi erano storditi. La loro facoltà di giudizio sulla catastrofe era sospesa. Non si udivano lamenti se non per sofferenze fisiche. Raramente furono viste lacrime. Gli uomini raccontavano come avevano perso moglie, madre, fratelli, sorelle, bambini, e tutti i loro averi, senza alcun apparente interesse. Raccontavano le loro sventure come se essi stessi fossero stati spettatori disinteressati delle perdite altrui. Alcuni parlavano addirittura con il sorriso sulle labbra. Chi non ha conosciuto il Siciliano ed il suo straordinario riguardo per i legami famigliari, poteva essere indotto ad attribuire quella compostezza ad insensibilità. Si sarebbe sbagliato. In quel momento, la mente della gente era stata misericordiosamente annebbiata. Essi non capivano. In questo la natura aveva mostrato una tardiva pietà.
Orrore, costernazione e nobile eroismo In occasione di una delle mie visite ai villaggi colpiti offrii un posto in macchina ad un ufficiale. Si era allontanato da Messina per cercare dei parenti scomparsi. Mi raccontò che si era miracolosamente salvato, mentre la sua casa crollava a terra, sotto la quale sua moglie era rimasta sepolta e uccisa, e sua figlia orribilmente mutilata. Non poteva ottenere notizie di suo figlio a scuola a Reggio; era sicuro che anche lui fosse morto. Ma nessun segno di dolore, né di sconvolgimento mentale erano presenti in lui mentre parlava. Oltre una strana apatia durante l’ora o più che egli trascorse con me (ha volenterosamente aiutato a liberare l’auto insabbiatasi sulla spiaggia dove era stata portata nella speranza di raggiungere Messina, essendo la strada principale impraticabile per i muri crollati), non notai alcun segno di quella disperazione che sarebbe seguita più tardi. Un altro uomo mi raccontò, con entusiasmo e soddisfazione, di come si era salvato dopo tre giorni trascorsi prigioniero sotto le macerie della casa dove gli altri della sua famiglia avevano trovato la morte. Non aveva avuto nulla da mangiare; non aveva alcuna cognizione del trascorrere del tempo. Infatti, quando fu soccorso pensò di essere rimasto sepolto soltanto poche ore. Aveva scavato le rovine con le dita sanguinanti fino ad arrivare così vicino alla superficie da rendere udibili e sue grida. Anch’egli non si dispiaceva né si lamentava. Apparentemente era stata per lui un’avventura non del tutto sgradevole. Vi furono molti esempi come questi di impassibilità. Ancora di più, negli occhi di chi visse quel terrificante periodo, una stupefatta espressione di orrore e costernazione presente come silenzioso testimone del loro terrore. Non è facile spiegare la quasi totale, anche se temporanea, assenza d’emozioni tipica in occasione di disgrazie per gente per propria natura passionale. Un siciliano abbastanza spesso è portato ad emozionarsi anche per un piccolo motivo. Un trascurabile contrattempo può sconvolgere il normale svolgersi della sua esistenza tranquilla. La non preoccupante malattia di un congiunto, la non motivata assenza di un amico, lo riempiranno di apprensione e provocheranno tristi interpretazioni; ma quando fu vittima di una delle più grandi calamità nella storia del mondo, fu pacato, calmo, e rassegnato. Tutto ciò è interessante dal punto di vista psicologico. Quella freddezza è da attribuire in gran parte all’inabilità del cervello umano a valutare correttamente gli eventi. La percezione fu appannata dalla terribile rapidità, come anche dalla straordinaria gravità della disgrazia. C’era anche la compagnia e condivisione con gli altri, che inducevano un sentimento di comunità nella sventura, che impediva al singolo individuo di fare prevalere il proprio dolore sopra di quello degli altri. Dato che la sofferenza è valutata paragonandola, così il dolore è contenuto alla presenza di un altro dolore. Così diviene inutile il richiamo alla commiserazione che un cuore straziato fa in circostanze ordinarie; l’autocontrollo segue di conseguenza e la rassegnazione è la sua manifestazione esteriore. Ma sebbene ciò può verificarsi così largamente, tuttavia l’osservatore non può non attribuire
una parte di quella sorprendente rassegnazione ad una motivazione superiore.
Si constatarono, infatti, molti casi di nobile eroismo sia passivo
che attivo. E nonostante la Sicilia, con la sua vicinanza all’oriente, non si sia sottratta all’influenza della filosofia orientale del “Che sarà sarà”, che è un invariabile sollievo dell’indigeno nei momenti d’avversità (“Come vuole Dio”, è spesso il résumé finale di una spiacevole faccenda), la fibra del vero uomo ed il coraggio dei martiri non mancarono in quei giorni d’amara prova. |