La Ducea inglese ai piedi dell'Etna (1799 - 1981)

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Briganti a Maniace

Brevi storie

di Mario Carastro
 


Sicilian Studies

Mario CarastroRecentemente, sul mercato on line dei libri antichi, sono riusci­to ad acquistare il volume “Sicilian Studies”(1) scritto dal 5° Duca di Bronte, “il gentiluomo contadino e letterato”(2) Alexander Nelson Hood, e pubblicato a Londra nel 1915.
Il libro è dedicato a Robert Hichens (1864-1950), scrittore inglese a lungo vissuto in Italia, cui Alexander Hood fu legato da affet­tuo­sa e intima amicizia, tanto da far nascere congetture poco eleganti e indelicate in personaggi che condividevano con loro la internazionale, colta e raffinata vita della belle epoque siciliana(3).

Come dice lo stesso Duca nella prefazione, lo scopo del libro è raccogliere storie e saggi, tredici più un prologo ed un epilogo, relativi alla vita in Sicilia, alcuni dei quali già pubblicati su riviste dell’epoca come Nineteenth Century, Fortnightly e Gentlewoman.

Gli argomenti del libro confermano il carattere eclettico del Duca e la sua passione per la classicità e per la mitologia ma la lettura rivela anche una capacità non comu­ne di sviluppare, partendo da occasioni disparate, come a volte alcune notizie di cronaca, approfondite analisi sociologiche e politiche.

E che dire della profonda conoscenza dell’animo dei siciliani e delle loro tradizioni che Alexander Nelson Hood aveva e che affiora dalla lettura di queste storie? Cono­scenza maturata in ben 42 anni di vita in Sicilia. A tal proposito mio nonno, Mario Carastro, che ben lo ha conosciuto, mi diceva che il Duca parlava correttamente anche il dialetto siciliano.


Due briganti dell’Etna

Un esempio eloquente delle notevoli doti di analisi e sintesi del Duca è appunto uno degli scritti del libro, “Two Brigands of Etna”, che prende spunto dalla notizia della morte di due briganti delle terre etnee: Placido Botta ed Angelo Scarpa. Malgrado le ricerche, invero molto sommarie, non sono riuscito a sapere nient’altro su questi due personaggi.

Il cognome Botta è moto diffuso in provincia di Catania; l’altro, Scarpa, esiste an­ch’esso ed è più diffuso in provincia di Palermo benchè rintracciabile anche in quella di Catania. Altrettanto poco si può dire allo stato delle conoscenze attuali sul paese alle falde dell’Etna da cui provenivano i due malfattori.

Certo non si tratta di Bronte e non solo perché Bronte non può definirsi nell’epoca in cui si svolgono i fatti “…più noto per la ferocia degli abitanti che per qualcosa d’altro”(1) ma anche perché non si ha nel nostro paese memoria trasmessa di tali fatti come invece è accaduto per analoghe storie in altri periodi.

Negli anni a decorrere dal 1915 in poi e soprattutto nei due dopoguerra, un paese alle falde dell’Etna che fece molto parlare per le gesta dei “suoi” briganti fu Adrano. Ma ancora una volta non si può mettere in relazione questo paese sic et simpliciter al motivo di fama che indica il Duca.

Lasciamo, pertanto e per ora, agli appassionati lettori, che vorranno aiutarci, il com­pito di ricercare e consultare le raccolte dei giornali dell’epoca e di approfondire l’argomento presso gli archivi dei Carabinieri e del Tribunale di Catania.

Quello del brigantaggio è un argomento che ritorna molte volte nella vita e negli scritti del Duca e dei suoi amici come nella storia della Ducea sino ai giorni dell’ultimo dopoguerra(6). Nel libro “La Ducea di Bronte”(4) alcune pagine di Alexander sono dedicate ai “…periodi di agitazione, dovuti alla presenza dei briganti, o, più eufonisticamente banditti o latitanti, come sono oggi denominati, per non urtare il moderno e glorioso stato di civiltà raggiunto”.

La scrittrice inglese Frances Elliot (1820 - 1898)(13) nel suo “Diary of an Idle woman in Sicily”(5) scrive a proposito dei sequestri di persona in Sicilia: “Il visconte Bridport nella sua proprietà di Maniace si salvò dalla cattura per un caso fortuito, solo perchè suo figlio era presente e sparò mettendo in fuga i delinquenti…”; il visconte Bridport era il padre di Alexander ed il figlio citato era appunto lo stesso Alexander.

Leggiamo, intanto, “Due briganti dell’Etna”(1) così come l’ho tradotto dall’inglese elegante, incisivo e denso di humour, che distingueva il Duca anche nei suoi scritti.

 

Sicilian Studies  by Ale­xan­der Nelson Hood Duke of Bronte.  Dello stesso auto­re pubbli­chia­mo The Duchy of Bron­te, il suo "memo­ran­dum per la famiglia". Vedi anche un ca­pi­tolo di "Sici­lian Stu­dies" in­ti­tolato "The Grat Disa­ster" (Il Gran­de Disa­stro) nella tradu­zio­ne di Olga Staglianò

Alexander Nelson-HoodAlexander Nelson Hood, V Duca di Bronte

Nelle due foto, una immagine di ALEXANDER NEL­SON HOOD, V Duca di Bronte, nato il 28 giugno 1854 e mor­to nel 1937 nella sua villa di Taormina ed un bu­sto che lo ritrae conservato nel Mu­seo Nelson. Realiz­zato dallo scultore di Taormina Enrico Licari, per il Du­ca era «non soddisfacente nella somiglianza, tranne che di profilo, forse».

Il V Duca fu il primo ad essere sepolto nel piccolo ci­mi­tero inglese della Ducea che nel suo periodo rag­giunse il massimo splendore diven­tando anche sa­lot­to lette­rario e buen retiro di poeti, scrittori ed ar­tisti, di livel­lo interna­zionale, fra i quali ricordiamo la scrittrice inglese Frances Elliot, Sharp e  Lawren­ce.

Per il suo impegno a favore della po­polazione mes­si­nese colpita nel 1908 dal terremo­to, Alexander Nel­son-Hood che era già Com­men­da­tore dell’Or­dine del­la Corona d’Ita­lia per meriti acquisiti nel campo dell’agri­coltura fu dal Re elevato al rango di Grande Ufficiale.

Placido Botta e Angelo Scarpa

«Finalmente! Fu l’esclamazione su molte labbra quando si diffuse nella contrada la notizia della morte di Placido Botta e Angelo Scarpa, i briganti. “Finalmente!” si disse con un sospiro di sollievo. La vendetta è tardata per molto tempo ma è arrivata.
Gli affari umani si muovono lentamente in Sicilia; gli affari governativi ancora più lentamente. Ma il castigo in qualche modo o forma alla fine arriva, e Botta e Scarpa sono andati incontro sulle falde dell’Etna al loro destino nel giro di due giorni.

Con riferimento al brigantaggio, la Sicilia e la Sardegna - due gioielli della corona d’Italia - hanno sempre avuto una non invidiabile repu­tazione. Non sono ancora riuscite a liberarsi da tale reputazione. Sebbene le gravi azioni portate a termine dal brigantaggio del passato si verificano solo raramente al presente, è comunque difficile affermare che questa forma di crimine sia stata sradicata; e non lo sarà fin quando la gente non mostrerà una decisa determinazione nell’aiutare le autorità nell’eliminarla.

Tuttavia, il viaggiatore normale non corre alcun rischio se ha avuto il buon senso di tenere segreti i propri spostamenti così da non offrire ai malinten­zionati l’opportunità di organizzare la sua cattura e la sua detenzione, dato che un sequestro, come è chiamato, non è un fatto estemporaneo, ma un’impresa che deve essere preparata in anticipo e con cura, perché molte persone vi prendono parte.

In genere come nasce una banda di briganti? Il ricorso ad un coltello o ad un colpo d’arma da fuoco per ira o per vendetta e l’aggressore lascia la sua vittima morta, scappando egli stesso poi in montagna per evitare le conse­guenze del delitto. Egli è presto raggiunto da altri che si trovano nelle stesse condizioni, e insieme cominciano a rapinare.
Altri delitti seguono, perchè i briganti hanno un prestigio da man­tenere, come le persone perbene, e se non sono temuti essi non ottengono ciò che serve loro per il proprio mantenimento. Essi diventano spesso disperati e coraggio­sissimi.

I briganti appaiono all’improvviso, simili ai funghi dopo la pioggia; nessuno sa esattamente dove e come. Oggi sono qui e domani li. Un giorno stanno insieme per compiere qualche malvagia azione; un altro, se non troppo duramente sotto pressione da parte della polizia, sono serenamente dediti a qualche normale occupazione.

Alcuni sono ben armati con fucili a ripetizione, e sono anche dota­ti di ottimi cavalli. E passano da un posto all’altro simili al vento. Pochi fra la gente di campagna li denuncerà se capita loro di esse­re stati visti in veloce spostamento. I contadini li temono, ma non hanno il coraggio di opporsi a loro; sono disponibili a sacrificare i loro beni per soddisfare gli sgraditi visitatori, sperando di salvare la vita.

Vi è anche una certa intima simpatia per il delinquente e avver­sione per l’idea di collaborare con le autorità; questa è la conse­guenza dello stato di semiciviltà in cui versa la campagna.

Ma la spina dor­sale del brigantaggio in Sicilia, e le grandi difficoltà che le forze di polizia hanno nel fronteggiarlo, si basa sulla deplore­vole mancanza di coraggio nel proteggersi apertamente e sulla congiura del silenzio, che i contadini siciliani mostrano nella maggior parte delle situazioni della loro vita.

Questo è il motivo per cui Botta e Scarpa sono stati così a lungo in libertà.
Malgrado la paura suscitata dai loro nomi, non vi era nulla nella vita dei due uomini per farli giungere ai pittoreschi fastigi di briganti da romanzo, o anche da opera comica.

Non erano altro se non brutti ceffi del mondo criminale, le cui azioni superano di gran lunga la brutalità del loro aspetto. Scarpa era un giovanotto di ventitrè anni, fratello di un famoso brigante che sta scontando una condanna a trenta anni di prigione. Botta era di qualche anno più vecchio.

Entrambi sono nati in un paese alle falde dell’Etna più noto per la ferocia degli abitanti che per qualcosa d’altro. Scarpa fuggì in cam­pagna; si unì ad una banda di fuorilegge per vendicarsi di chi aveva contribuito ad assicurare nelle mani della giustizia il fratello.

La sua natura sanguinaria lo portò presto a scontrarsi con i Cara­bi­nieri. Ciò accadde a seguito dell’assassinio a sangue freddo di un soprintendente, sul cui corpo scaricò sette pallottole alla pre­senza di contadini troppo terrorizzati per opporre resistenza.

Crimine seguì crimine in rapida successione, e la campagna fu in sta­to d’allarme di fronte alla ferocia dei due compagni, che diven­nero inseparabili, negli omicidi. Grande fu il terrore che semi­narono quan­do giunsero un giorno in un campo, dove alcuni uomini stavano lavorando, e sceltone uno di nome Carme­lo, nei riguardi del quale non avevano alcun rancore, lo issarono su uno spuntone roccioso, da dove tutti potevano vedere la tragedia, e lo crivellarono di colpi.

A fatto compiuto gli assassini gridarono a gran voce “Andate, dite al magi­strato che Scarpa e Botta hanno ucciso Carmelo”. L’azione era frutto di pura brutalità con lo scopo di spargere terrore nei dintorni.

La vittima successiva fu un Carabiniere, che, separato dai propri commilitoni men­tre tentava di ritrovare un sentiero smarrito in montagna, s’imbatté all’improvviso nei briganti, e fu immediata­mente ucciso con un colpo.

Ma la più sanguinaria fra tutte le azioni portate a termine da questi mostri umani fu l’assassinio di un contadino che avevano seque­strato. Era incorso nella loro rabbia perché si era opposto ad una estorsione e si sospet­tava che collaborasse per il loro arresto. Non potendo ottenere la somma di dodicimila lire richiesta per il riscatto – duemila lire furono offerte e prese – il contadino fu ucciso.
“Noi caveremo i tuoi occhi che ci hanno riconosciuto e taglie­remo la tua lingua che ha parlato di noi” gli dissero; e diedero corso alle loro minacce, smembrando infine il corpo del poveretto per poi gettarlo nel fiume.

Potrebbe sembrare strano che questi mascalzoni siano rimasti in latitanza per più di tre anni, ma alle difficoltà prima menzionate che le forze di polizia incon­trano si devono aggiungere quelle derivanti dalle estese zone di campagna disabitate e dalla pos­sibilità di facili nascondigli offerti dalle falde dell’Etna.

Esistono spaccature e grotte di grandi dimensioni nelle zone lavi­che ed un uomo può nascondersi e sparire alla vista. Un individuo dall’alto delle rocce ha modo di tenere sotto controllo la solita pattu­glia di 2 o 4 agenti avendo a disposizione, come quasi tutti i briganti, un fucile a ripetizione.

La prima e più evidente causa di questo stato di cose, comunque, è il vigente Codice Penale, che non prevede la pena capitale e che è nello stesso tempo debole nei provvedimenti di pena e spesso in modo biasimevole applicato. Ciò unito ad uno stupido senti­menta­lismo nei confronti dei malviventi che pervade alcune classi sociali ed al preconcetto di non tollerare ad ogni costo illegalità ha condannato quest’isola così bella ad una terribile dannazione.

I due briganti di cui scrivo sono andati incontro alla loro fine così.

Giunse al capo delle forze di polizia l’informativa confidenziale che essi si nascon­devano in una certa zona dell’Etna. L’ufficiale chia­mò i suoi uomini e si avviò alla loro ricerca. Il gruppo passò da­vanti ad una casa dove alcune donne lo deridevano e augura­vano ironica­mente buona caccia. La casa era quella di Scarpa e le donne erano la madre e le sue sorelle.

“Quelli che ridono oggi possono piangere domani” fu la calma rispo­sta data dall’uf­ficiale mentre lui stesso ed i suoi uomini si allontanavano.

Trovarono Botta da solo. Egli aprì il fuoco su loro. Il tiro non sortì effetto ed i gen­darmi risposero al fuoco. Botta ricevette una pallot­tola diritta nella testa e morì sul colpo. Un po’ distante un uomo fu visto uscire da una grotta. Era Scarpa. Egli riuscì a fug­gire ma solo per morire due giorni più tardi.

Il detto che il bene discende dalla rovina del male in quest’occa­sione è stato veri­ficato ancora una volta.

Si diceva che il brigante più giovane fosse innamorato di una donna di malaffare del suo paese natale, e, infatti, era stato in un incontro amoroso quando fu visto fuggire dai Carabinieri, che lo spinsero verso la morte.

Botta, che, non fidandosi del sesso, odiava le donne e che aveva sempre criticato la passione ardente del suo compagno, protestò impetuosamente per questa sua condotta, prevedendo rovina per entrambi; ed alla fine mise in atto la sua minaccia di separarsi nascondendosi in una grotta vicina.

Fu questa la ragione per cui Botta fu trovato solo e divenne faci­le preda delle forze di polizia.

La fine di Scarpa fu più tragica. Scappando in tutta fretta attra­ver­sando i fiumi delle colate laviche, con il cratere nero della montagna che sbuffava alcune migliaia di metri sopra di lui, si diresse verso uno dei suoi vecchi rifugi, dove avrebbe trovato cibo e nascondiglio – la capanna di un contadino ai piedi di uno dei tanti crateri spenti del vulcano.

Lo conosceva bene, ed il discendente di Dafne che faceva da guar­diano al gregge era stato sempre un tipo troppo docile per essere tutto tranne che un amico. Ma fece male i suoi calcoli.

Il contadino, già esasperato dalla ricorrente richiesta di cibo e dalle brutalità sul suo gregge, e probabil­mente agognando la taglia che tutti sapevano essere stata fissata sulla testa del brigante, decise la sua fine.

Dopo aver messo il suo scomodo ospite a spellare un coniglio per la sua cena – un’operazione che richiede qualche attenzione, come lui ben sapeva – il pecoraio, avanzando silenziosamente alle sue spalle, staccò la testa curva del brigante dal suo corpo con un forte, veloce colpo d’ascia.

Il corpo fu portato al cimitero, dove fu oggetto di visita da parte di migliaia di persone. Tra i curiosi c’erano in lacrime anche le donne della famiglia di Scarpa, che avevano deriso l’ufficiale ed il suo gruppo due giorni prima.
“Il pianto è sopraggiunto prima ancora di quanto avevo previsto” disse l’ufficiale ai commilitoni prima di lasciare il cimitero, seguito dagli sguardi tristi e dai singhiozzi della famiglia del brigante”.»

La elliot a Maniace

di Raffaella Valenti

A questo punto è bene chiarire i dubbi e le opinioni controver­se riguardo alla presenza di Frances Elliot in Sicilia e alla collocazione storico-temporale del suo viaggio, con partico­la­re riferimento alla sua visita alla famiglia Bridport a Maniace.

A tal proposito, sarebbe opportuno ricordare che pochi viag­gia­tori avevano oltrepassato lo Stretto di Messina nell’Otto­cen­to e sola­mente alcuni di loro avevano visitato l’entroterra siciliano; la pre­senza dei briganti e la mancanza di strade carrozzabili, infatti, erano ovvii motivi per scegliere di visitare la costa.

Tuttavia, la brillante scrittrice inglese, all’età di 58 anni decide di se­gui­re un itinerario insolito e dopo aver visitato Messina e Taor­mina parte per raggiungere l’amico Alexander Nelson Hood, a Maniace.

E’ un giovedì del mese di marzo 1878, le strade sono inneva­te e il tra­gitto da Giardini a Maniace, in carrozza, è lungo (10 ore su per l’Etna tra sentieri ricoperti di nera lava).

Sono state proprio le difficoltà del viaggio a far pensare ad una fin­zio­ne letteraria ma i documenti ritrovati, le lettere autografe, le testi­mo­nian­ze di giornalisti e le descrizioni reali e umane di Fran­ces Elliot all’interno del Diary of an idle woman in Sicily con­fermano che il viag­gio è reale.

Il Duca, Alexander Nelson Hood, il quale era solito annotare fatti ed eventi relativi alla Ducea così scrive: «Mrs Frances Elliot, the autho­ress of many books of travel, among other the ‘Idle Woman in Sicily’, and a friend of chil­dhood of my mother (…) was here in 1878.»

Anche il giornalista Paolo Lioy nel suo articolo “Nelle Isole” ne atte­sta la presenza: «Goethe vi arrivava in Aprile, ma era in inverno che Frances Elliot, la brillante scrittrice inglese, visitava a palmo a palmo la Trinacria, riportandone tanto entusiasmo.»

Ed ancora Lioy ricorda quanto il brigantaggio fosse diffuso e quan­to poche fossero le possibilità di trovare un alloggio sicu­ro: «Goethe in un’osteria di Castrogiovanni trovò scritto col car­bo­ne da un inglese: Viandante se vai a Catania guardati dal­l’entrare nell’albergo del Leòn d’Oro; meglio cadere in balia dei Ciclopi o sprofondare nei baratri tra Scilla e Cariddi”. ...

Frances Elliot benché viaggiasse in Sicilia pochi anni or so­no, ripor­tò di parecchi alberghi dell’Isola (dove ne ha trova­ti) non meno tristi ricor­di; veramente venne in momenti infau­sti quali il brigantaggio non era vinto; se non trovò l’Albergo del  Leòn d’Oro, trovò il brigante Leone.»

Nonostante le numerose difficoltà la scrittrice compie questo viaggio ed insieme alla cameriera Furiosa parte per raggiun­gere il suo caro ami­co Alec a Maniace.

E’ facile intuire che Mrs Elliot nutriva per il Duca più di un sin­cero affet­to. Nei giorni trascorsi a Maniace infatti non lo perde mai di vista e tra­mite lei lo conosciamo nell’intimità familiare e cono­sciamo le sue doti nel gestire la Ducea e nell’af­fron­tare i proble­mi di ogni giorno. L’impulsiva e vulnerabile viag­giatrice deve spesso frenare i suoi slanci emotivi quando fa dei commenti sul Duca secondo quanto si evince dalle sue annotazioni..

Intrepida e sensibile si lascia sedurre dalla bellezza primitiva e sel­vag­gia dei luoghi e non può non parlare dell’Etna. Nuove emo­zioni si risvegliano in lei quando contempla il pae­sag­gio domi­nato dal Vulcano perché come lei stessa sostiene “nowhere is it so stupendous” come a Maniace.

Rimane entusiasta del suo viaggio a tal punto che ci fa risco­pri­re l’in­canto del viaggiare. Vulcanica, temeraria e ribelle  tro­va in questo viaggio un limite da varcare ed una sfida da com­pie­re in un’epoca in cui alla donna era riconosciuto il so­lo ruolo di madre e moglie.

La sua voglia di libertà e di esoti­smo ben si sposa con il fascino del­la nostra terra. La sag­gezza e la compo­stezza – che si esige­vano dalla donna vit­toriana – probabil­men­te l’avrebbero distolta dall’intrapren­dere un viaggio che nell’imma­ginario collettivo era azzardato.

La nostra viaggiatrice non si sofferma solamente sulle bellez­ze del pae­saggio; non le interessa restituirci l’immagine di una nobildonna insensibile alle normali passioni che regolano la vita di ogni uomo e per questo non cela la sua paura per le alte vette, non nasconde di avere i capelli scompigliati dal vento e il viso arrossato e non reputa per nulla sconveniente parlare della povertà che legge negli occhi tristi dei con­tadini e soprattutto dei bambini.

I riferimenti costanti ad elementi forse banali e il riferimento costante a toponimi, al contrario, confermano ancor di più che il suo viaggio è reale.

Un breve accenno sulla vita e attività letteraria è neces­sario per conoscere meglio la stravagante e bizzarra idle woman.
Frances Dickinson Elliot Minto nasce nel Somerset nel 1820. Non era una donna particolarmente bella ma la sua posizione di ricca ereditiera costituì un’attrazione per molti uomini.
All’età di 18 anni, nel 1838, sposa lo squattrinato luogote­nente scoz­ze­se John Edward Geils. Dal matrimonio, desti­nato a fallire, nascono quattro figlie.
Nel 1845 si separa dal marito e ritorna in Inghilterra. Inizia lo scan­dalo­so processo per il divorzio; lo stesso giudice dichiara: “Non pos­so sen­tire altro. Sono disgustato…”.
Frances aveva accusato il marito di violenza nei suoi confron­ti e di adul­terio.
Le figlie furono affidate al marito e Frances inizia a viaggiare per l’Euro­pa. Conosce Wilkie Collins e Char­les Dickens e si dedica al giorna­li­smo. Scrive per la Bentley’s Miscellany, per il New Monthly Magazine.

Charles Dickens diventa presto un suo intimo amico; ne cono­sce le de­bolezze e lo spirito ribelle e cerca di essere discreto sulla sua vita sentimentale.

Nel 1863, infatti, Frances sposa il reverendo Gilbert Elliot il qua­le sem­brava essere a cono­scenza delle sue avventure sen­timentali e del divorzio ma nel certificato di matrimonio le si riconosce la condi­zione di “single”.

Dickens chiede agli amici di mantenere il riserbo sulla vicenda seb­be­ne avesse già intuito che il matrimonio era destinato a fallire e che alla scrittrice interessava solamente mantenere integra la sua di­gnità e situa­zione economica.

Anche in questo caso, tra ricat­ti e com­promessi Frances si libera del legame matrimo­niale e ritrova un nuovo fervore. Si trasferisce a Roma e tra­scorre parec­chio tempo a Siena presso la famiglia Chi­gi. Una delle figlie, Frances Clotilde, era andata in sposa al marche­se Sena­tore Bonaventura Chigi Zondadari.

La scrittrice scan­dalizzava anche il genero che si vergo­gna­va un  po’ del carattere bizzarro ed estroverso della suo­cera. La sua vita­lità, la sua esuberanza non l’abbandonarono negli anni. Era sempre occupata e gentile. Chi usciva con lei non sapeva dove si sarebbe ritrovato alla fine della serata.

Muore all’età di 78 anni a Siena, durante i festeggiamenti per le noz­ze della nipote Margherita. I giornali senesi la ricorda­rono come no­bil­donna dedita alla famiglia, all’assi­stenza dei miseri e all’esercizio delle Arti belle.

Raffaella Valenti
Settembre 2006


RAFFAELLA VALENTI è nata a Bronte nel 1978. Si è laureata in lingue e letterature straniere all’Uni­versità di Catania, con una tesi proprio sulla Elliot dal titolo “Una bizzarra viaggiatrice in Sicilia nel 1878” nella quale ripercorre il viaggio di Frances Elliot ed in particolare i giorni trascorsi presso la Ducea dei Nelson in compa­gnia del V Duca, Alexander Nelson Hood.
Dotata di spirito di iniziativa, creatività, e buona capa­cità di adeguarsi negli ambienti multiculturali, ha svolto anche attività di marketing turistico multimediale, accom­pagna­trice turistica e di hostess per convegni ed eventi fieristici.

Ultimamente si è occupata della trascrizione e traduzione di lettere autografe inviate al Duca da ben noti letterati e artisti a lui contem­poranei, collaborando, in occasione del Simpo­sio Letterario in memoria di William Sharp, con alcune traduzioni ed in qualità di relatore sul viaggio della Elliot a Maniace.


Nulla di nuovo sotto il sole!

La storia su Placido Botta e Angelo Scarpa, i “Due briganti dell’Etna”, è contenuta come detto nel libro “Sicilian Studies” pubblicato nel 1915 ed è quindi pensabile che il Duca, che appare così distaccato, abbia già avuto le sue esperienze personali con il brigantaggio ed abbia già ottenuto la necessaria protezione da parte delle autorità(2), in aggiunta a quella assicuratagli dal proprio corpo armato di campieri.

Le sue convinzioni politiche e sociali probabilmente coincidono con quelle d’altri conservatori dell’epoca e non meraviglia neanche notare come alcuni giudizi sono identici a quelli di parte degli italiani d’oggi e come si leggerebbero espressi nella stessa maniera su parte della stampa attuale.

In tal senso sono interessanti le osservazioni riguardanti lo scarso potere deterrente delle pene previste dal Codice Penale (la pena di morte era stata soppressa nel 1889), il garantismo esasperato, l’amministrazione della giustizia, una sorta d’accondiscendenza sentimentale e sociale nei riguardi di questo tipo di delinquenza.

Nulla di nuovo sotto il sole! Come siciliani non dovrebbe colpirci particolarmente, poi, giacché ben radicata nel nostro ancestrale e imperturbabile modo di essere, di perfezione e di sopportazione fatalista, neanche l’altra verità che, invece, scandalizza il Duca inglese: “gli affari umani si muovono lentamente in Sicilia; gli affari governativi ancora più lentamente”!

Sempre nulla di nuovo sotto il sole!

E che dire dell’omertà e dello scarso coraggio civico dei contadini dell’epoca: quanto poco sono diversi da analoghi odierni nostri atteggiamenti di fronte a problemi di criminalità ben più gravi di quelli posti da due brigantelli!

Il Duca non ci dice, quindi, nulla di nuovo e comprendiamo, così, più facilmente, non dovendo ricercare verità nascoste, il suo articolo di cronaca nera, l’inizio liberatorio con “Finalmente” e la morale finale del “Quelli che ridono oggi possono piangere domani”.

La prosa, incisiva, da set cinematografico, sembra quella dei rapporti dei Carabinieri citati da Salvatore Nicolosi nei suoi libri sul brigantaggio siciliano (6) (7) (8).

“I due briganti… sono andati incontro alla loro fine così. Giunse…l’informativa confidenziale che essi si nascondevano in una certa zona dell’Etna” scrive il Duca; mentre Nicolosi riporta : “La notte di giovedì 21 marzo i carabinieri del nucleo mobile di Bronte guidati dal maresciallo Sturiale circondarono in contrada Pezzo…In seguito ad indagini condotte…si era saputo che da qualche giorno due pericolosissimi banditi…avevano trovato rifugio colà…” (7) e “Il 22 settembre perveniva a noi vicebrigadiere Carbone Salvatore… notizia confidenziale che in contrada…trovatasi alcuni banditi…”(8). Anche le scene all’obitorio sono descritte con lo stesso stile di cronaca nera.


Briganti alla Ducea a fine ottocento

La Ducea ha convissuto durante tutta la sua storia, almeno fino all’ultimo dopoguerra, con il problema del brigantaggio sia per la sua estensione e la scarsa densità abitativa che per le possibilità di movimento e nascondiglio che offriva il suo immenso territorio.

Ma soprattutto perché simbolo di una ricchezza concentrata ed al disopra delle immaginazioni possibili nelle varie epoche, che non poteva lasciare indifferente qualcuno fra la povera gente più fragile, senza inibizioni e freni morali, che per bisogno cedeva più facilmente ai propri istinti primordiali di sopravvivenza, forte del proprio coraggio e del desiderio di ribellione, ma intimamente consapevole che non sarebbe durata a lungo.

E’ interessante a tal proposito notare nella storia del brigantaggio nella nostra terra che le latitanze, come quella di Botta e Scarpa, tranne qualche rarissima eccezione, non sono andate oltre i tre anni.

I briganti, fatta la loro scelta di vita, tirarono sempre diritti verso le estreme conseguenze della loro esistenza criminale, rapidamente nel giro di questi pochi anni: la morte o la cattura e la prigione; mai un pentimento in corso ...d’opera!

E nulla è rimasto loro ed alle loro famiglie; il “benessere” è finito con la fine della loro carriera. Rimangono solo le cronache giudiziarie ed i terribili ricordi e racconti di paura nelle famiglie di chi ebbe a che fare con loro.

Ma, chissà, forse è rimasto anche un certo alone di mistero e di leggenda: proprio quello che in ultima analisi mi sta spingendo a scrivere, dopo avere avuto occasione di ascoltare anche nella mia famiglia testimonianze quasi incredibili.

Se l’argomento susciterà, dopo la sua pubblicazione su bronteinsieme.it, un più diffuso desiderio di memoria collettiva, si potrà proseguire la ricerca magari con un “blog”.

Certo per i periodi di fine ottocento sarebbe interessante ricavare altre notizie da fonti preziosissime e originali come “Libro rosso dei ritagli” e i “Diari” del Duca ora specialmente che sappiamo dove trovare almeno il primo(2).

Intanto tornando al libro “La Ducea di Bronte”(4) Alexander Hood riferisce alle pagine 53 e 54 alcuni episodi di brigantaggio vissuti a Maniace ma conviene rimandare il racconto di tali fatti alle sue più eleganti e dotte parole.

Vedremo, così, gli agguati dei banditi, gli inseguimenti a cavallo, le sparatorie, il coraggio del campiere Meli, il premio del duca (“Mio padre regalò a Meli un orologio ed una catena, da lui meritati per il suo coraggio, come ricompensa per la sua intraprendenza”), la cascata dei Balzitti, le contrade Zerilli e Scorzone, le catture dei banditi e la loro consegna ai Carabinieri, i ringraziamenti delle autorità, i complimenti da Windsor della Regina Vittoria.

Michael Pratt a proposito della risonanza in Inghilterra della lotta al brigantaggio del Duca ed in particolare dell’azione del 10 Novembre 1881, per la quale il Meli fu premiato, riporta(12) il divertente trafiletto comparso su Punch ed intitolato “Dignità di poliziotti”:

“fate venire quì l’On. Alexander Hood. C’è molto lavoro per lui ed i suoi poliziotti. Sappiamo che nel medio evo il Gran Conestabile era un austero dignitario di corte; il Conestabile della Torre era un tremendo raffinato. Tale potrebbe essere anche il Conestabile del quartiere delle Brompton Boilers, il Conestabile di Cromwell Road e così via. Impiccate i briganti! I Greci catturino i Greci, e voi Alexander con il vostro staff venite qui ad aiutare i nostri pasticcioni Bobbies a catturare i ladri brutali in flagranza del loro reato”.

Alexander Nelson Hood, V duca di Bronte

Vanity Fair: The men of the day 26/10/1905 - Original Litography by Spy: Hon. Alexander Nelson Hood - The Princess's Private Secretary. (propr. Mario Carastro)

Amministratori ed impiegati della Ducea posano nel cortile davanti al­la Croce celtica dedicato a Nel­son. Da sinistra Giuseppe Ciraldo, Alfio Nicolosi, George Woods, Geor­ge Ni­blett, Lorenzo Hughes e Mario Cara­stro (foto tratta da "Nel­son's Duchy" di Michael Pratt.

L'amministratore della Ducea dal 1928 al 1938 Mr George Woods con le sue guardie (foto tratta da "Nelson's Duchy" di Michael Pratt

Un gruppo di giovani campieri del duca. Il primo a sinistra è il sig. Calogero Lo Castro che fu anche l'ultimo comandante del Corpo.

Il sig. Giuseppe Carastro con il comandante dei campieri della Ducea sig. Calogero Lo Castro durante una visita alla faggeta nel maggio del 1957


 

LA DUCEA INGLESE AI PIEDI DELL'ETNA
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