Urla, gemiti, imprecazioni, grida disperate di terrore e appelli
ai santi, accompagnati dal latrato dei cani, si levarono dal
profondo e giunsero da tutti i quartieri della cittadina. La notte
serena si trasformò all’improvviso in un indescrivibile caos. Come
per magia le finestre si illuminarono per le lampade che venivano
via via accese dalle persone che erano state svegliate. Il clamore
continuava scossa dopo scossa.
La gente sommariamente vestita si precipitava fuori delle case.
Il grido “San Pancrazio” si alzò, ed una fiumana di
persone terrorizzate, lanterne in mano, si precipitò verso la chiesa
del suo santo protettore sul fianco della collina fuori città.
Lì, riempiendo oltremodo la chiesa, si gettarono in ginocchio
davanti l’effigie del santo, il cui aiuto erano venuti ad invocare.
Sui loro volti ansiosi rischiarati dalla fievole luce di poche
candele accese in fretta sull’altare, erano impressi umiltà e
penitenza, lacrimevoli suppliche e paura disperata. Fuori, nel
cortile ad arco, la gente anche in ginocchio invocava protezione,
bisbigliando preghiere udibili accompagnate da singhiozzi.
L’oriente si arrossava sempre più con l’aurora. La terra ogni
tanto sussultava. Più tardi, la maggior parte della popolazione, con
in testa la banda del paese, si riversò in chiesa. Di comune accordo
si decise che il Santo doveva essere portato in città affinché con
la sua presenza assicurasse maggiore protezione. Intanto fu l’alba.
Tra il suono delle campane, urla della gente, e musica solenne,
la grande statua raffigurante San Pancrazio fu condotta a spalla da
volenterosi portatori fuori del santuario nel cortile antistante la
chiesa, e poi su per il ripido sentiero verso l’ingresso ad arco
della città.
La popolazione riempì le strade; gli esili balconi erano
pericolosamente stipati; la banda suonava energicamente; e l’enorme
processione, raccogliendo sempre più gente nel suo cammino, passò da
un’estremità all’altra della città. Fu un momento d’esaltazione che
durò per breve tempo.
Nello spazio ristretto tra due porte turrite, l’effigie del santo
fu abbassata dalle spalle dei portatori e riposta a terra. I molti
che avevano dato aiuto a portare la pesante reliquia, accaldati per
lo sforzo, si asciugavano la fronte.
La piccola piazza era gremita di gente. Era difficile muoversi,
tutti si diressero verso il santo, che riceveva l’omaggio dei fedeli
seduto sul suo trono dorato e vestito da splendidi paramenti,
portando in testa una mitra tempestata di gioielli e nella mano
sinistra un pastorale mentre la mano destra era alzata in alto
benedicente.
Ora che la musica e le grida d’entusiasmo si erano spenti, i
volti della gente divennero di nuovo tristi e preoccupati.
Il silenzio calò sulla folla. Il pericolo era stato così vicino e
preoccupante che il terrore ritornava facilmente.
Preti in “birretta” e “camicia”; vecchie con le
facce segnate dal tempo; vecchi sorretti dai loro bastoni; donne e
ragazze vestite con abiti colorati e con la testa coperta da
appariscenti fazzoletti; uomini, giovanotti e ragazzi con nelle mani
dei ceri, formavano quella straordinaria moltitudine. Tutti erano
assorti, solenni e pallidi. Mormoravano preghiere ed invocazioni
usando le mani in segno di supplica. Molti piangevano.
Era una strana ed impressionante folla, che aveva in comune un solo sentimento – quello di miserabile paura e preoccupazione. Le donne facevano il segno della croce. “Madonna mia” dicevano automaticamente, invocando a turno la Vergine e tutti i santi.
“Quando mai, quando mai”, si interrogava un vecchio piangente scuotendo il capo. Non aveva mai sentito un così terrificante terremoto, un così grande terrore, come questo. La disgrazia sembrò accomunare la gente. Era una fratellanza di dolore. Lo stare insieme era importante; la solitudine sarebbe stata insopportabile. Comunicavano il loro dolore con gesti espressivi, com’erano soliti, senza parole. Le parole erano inadatte a rendere la profondità della loro disperazione. |