«Quanti di noi, avanti negli anni, non hanno sentito una forte emozione nello sfogliare gli album di famiglia? E a quanti di noi non gli si è stretta la gola e luccicato gli occhi? In virtù di queste emozioni, non vorremmo forse scrivere la nostra "storia"? lo ho sentito questo desiderio.
È dagli inizi del 1987 che volevo scrivere questa autobiografia o, più semplicemente, scrivere i miei ricordi. Prendevo qualche appunto, lo strappavo, ci ripensavo, cancellavo, esitavo ancora.
Poi cominciai a conservarlo più deciso. Nei primi anni novanta però avevo scritto ancora poco in quanto lo facevo all'insaputa di tutti e dunque potevo dedicare poco tempo. Una ulteriore "spintarella" ad accelerare i tempi l'ho avuta anche quando ho ricevuto, bontà sua, l'autobiografia del caro amico Gino Professore Abbadessa, di Randazzo, naturalmente scritta con tutt'altra mirabile cultura, intelletto, stile e professionalità che non mi sogno nemmeno essere capace di imitare. Comunque ancora non mi decidevo ad uscire allo "scoperto". Alla fine, visto che concludevo poco, informai Lucia dei miei propositi e Lei stessa, oltre ad incoraggiarmi mi permetteva di dedicarmi con maggiore impegno e assiduità andando spesso lei sola al negozio. Premetto inoltre di non avere nessuna pretesa di farla conoscere agli altri, questa biografia. La scrivo anzitutto in memoria di Marisa, la scrivo per me, Lucia ed Elena e anche per i familiari tutti: i miei fratelli, i miei cognati e tutti i miei nipoti, se hanno voglia di leggerla, naturalmente. Io la scrivo e ringrazio tutti lo stesso. Desidero chiudere la premessa facendo presente a chi legge che io non ho studiato e il modo di come narro le cose, facendo anche qualche considerazione o commento, è fatto così, alla buona, senza pretesa intellettuale e con la sola dote della passione che ho avuto sempre per la lettura e un po' anche per la scrittura.»
I nonni, i genitori e l’adolescenza «Mio padre viene da una famiglia umile. Il padre, mio nonno Placido, era capo cantoniere sulle strade provinciali e la madre, Gangi Nunziata, casalinga. Ho ricordi vaghi, dei nonni paterni. So di mio nonno che le piaceva un buon bicchiere di vino e la pipa. Aveva avuto diversi figli e l'ultimo era stato mio padre, Gaetano, che fin da ragazzo faceva il muratore. La nonna Nunziata muore nel 36, il nonno nel 39. I figli erano tutti sposati. Mia mamma era figlia di piccoli coltivatori diretti, e oltre a tre piccoli appezzamenti di campagna fertile, avevano una bettola gestita da mia nonna Domenica Rizzo chiamata “Donna Micia”. Il nonno materno, Nino Carastro, era già morto prima che mia mamma si sposasse, lasciando la moglie, mia mamma, Antonina, e il figlio Angelo. Quest'ultimo da bambino aveva avuto la meningite, condizionando lo sviluppo mentale, anche se poi non mancava di perspicacia: osservava con molta attenzione e badava molto bene alle sue campagne. A quei tempi, primi decenni del nostro secolo, un artigiano come il falegname, il fabbro, il sarto, il calzolaio o il muratore era chiamato "mastro" (maestro); generoso appellativo anche per uno squattrinato operaio. Bronte era ad economia a basso reddito: Agricoltura e artigianato. I latifondisti dominavano da sempre (la rivolta del 1860 dei contadini ne è la prova), anche se il piccolo contadino curava pure il proprio pezzetto di terreno e dal quale traeva quel poco per il mantenimento della famiglia: Si faceva il pane in casa, razionato ma sufficiente alla sopravvivenza, l'olio, il maialino, il pollaio, l'asino o il mulo. Molti andavano a lavorare a "giornata" dai ricchi proprietari per avere qualche lira e molti aspettavano il ricavato del pistacchio che anche se era poco (prodotto che si fa ogni due anni) permetteva loro di sposare qualche figlio-a a cui anzitutto bisognava fare il corredo: biancheria, materassi, qualche casa e qualche mobile. Le esigenze erano poche, non c'era l'opulenza di oggi (televisione, frigorifero, auto, coca cola, discoteca, abiti firmati, vacanze al mare ecc...). Il patriarca veniva portato ad esempio e rispettato, anche se non lo meritava. In questo contesto sociale, pur nondimeno l'artigiano era un privilegiato, rispetto alla massa; era una categoria di tutto rispetto. Il professionismo, la cosiddetta Borghesia, era invece da guardare dal basso verso l'altro. Dottori, avvocati, ingegneri e anche gli impiegati erano il "vossia" (signoria) del proletariato e della gente più umile o se vogliamo del più povero. Si usava molto il "baratto": Tu, maestro, mi fai questo lavoro io ti pago in equivalenza con grano, olio ecc... Quando si trattava naturalmente di manutenzione spicciola, di poca entità. Il barbiere era una figura più raffinata, più "gentile", anche se si usava lo stesso metodo di pagamento, più qualche lira. Lui faceva barba e capelli (spesso anche alle donne) a tutta la famiglia per tutto l'anno e alla fine di questo veniva pagato in natura. Con la scusa del barbiere, voglio spendere qualche riga anche per risaltare un costume paesano dell'epoca. A Natale e capodanno il barbiere regalava a tutti i clienti un piccolo calendario tascabile profumato con figure di belle donne leggiadre e discinte da suscitare pensieri peccaminosi (la schifosa pornografia di oggi non si sognava nemmeno) i quali clienti ricambiavano immancabilmente l'omaggio con qualche soldo di mancia. Un'altra funzione del barbiere era fare da "cerimoniere" in battesimi e matrimoni. Ricordo che molti matrimoni, non so perché, spesso si celebravano di mattino presto, a volte prima dell'alba. La sposa partiva da casa a piedi con tutti gli invitati (i familiari più stretti) in ordinato corteo fino alla chiesa e ritorno. Finita la cerimonia, si andava a casa della sposa dove il padre davanti alla porta spandeva in aria alcune manciate di monetine accuratamente preparate verso una miriade di ragazzini arruffanti che in occasione andavano dietro il corteo. Quando le monetine erano poche gridavano: “A quandu a quandu vinni u battiari (battesimo o matrimonio) mancu a gallina si potti ddubari (saziare)”. In casa poi tutti gli invitati si sedevano lungo le pareti e qui compariva il barbiere che nei vassoi offriva ad ognuno paste, cioccolatini, biscotti e rosolio: Alla fine, come bomboniera di oggi si offriva un dolce di mandorla a forma di cuore coperto di zucchero bianchissimo e una filletta (dolce pan di spagna esclusivamente brontese, tutt'oggi in produzione casereccio). Questo era il barbiere e una delle usanze brontesi. Ritornando alle origini, mia madre si invaghì di mio padre appunto perché era "mastro". Donna sensibile alle raffinatezze, amante del bello, simpatia per la nobiltà e ammiratrice di Casa Savoia e cosciente di essere a mille anni luce dalla "nobiltà", sposa un muratore (meglio che uno "rozzo" contadino), un artigiano, (vanto di molte ragazze), un bel giovane quanto lei graziosa. In nove anni ebbero tre figli: Placido-Dino 1927, io 1930 e Tanino 1933, oltre un aborto. A quasi metà anni trenta mio padre va in Africa Orientale a fare il muratore alle dipendenze di una società edile per migliorare la sua economia. Era un gran lavoratore, si fece stimare e onorare dalla ditta per la sua bravura e onestà, tanto da farsi mandare in quattro anni spesso in licenza a casa come premio. Aveva un forte senso per la famiglia, malgrado il carattere severo. […]»
Il vino della Pallata «[…] Quando mio padre rientrò definitivamente, dopo altri due anni in Albania, continuò a fare il muratore e nello stesso tempo si improvvisava agricoltore curando i terreni insieme a zio Angelo (fino ad allora mia nonna li aveva dati a mezzadria). Era infaticabile, mio padre. Con alcuni risparmi comprò anche un appezzamento di pistacchieto in contrada Contura, a 1500 metri da Bronte proprio al limite della strada provinciale per Adrano, che apparteneva al cugino Salvatore Romeo che abitava a Roma. […] Con il rientro di nostro padre dall'estero, in famiglia ci sentiamo più "forti", più protetti, anche se ce li "suonava". Dino fa il ginnasio e poi il liceo con un anno anche come interno al Collegio Capizzi dando ottimi frutti, tanto che papà nutre ambizioni per lui. Io e Tanino alle elementari. Nelle 1940, l'attività vinicola di mia nonna mio padre la trasferisce nella grande bettola del dott. Nunzio De Luca, nostro medico di famiglia e vicinissimo di casa. Il locale si trova al centro del paese in una traversa a ridosso della via principale e a un centinaio di metri da dove abitiamo. Il dottore De Luca è in buoni rapporti con mio padre, nutre grande stima, e allora le cede in affitto il locale, chiuso da .molti anni, con annessi sette grandi botti per il vino (botti pregiate). Prima mia nonna lo comprava in barilotti che con il carretto glielo portavano da Pedara o da Randazzo (grandi vigneti oggi scomparsi) quasi ogni 15 giorni. Ora mio padre cambia totalmente sistema: compra direttamente il mosto. Al momento giusto della vendemmia, si reca personalmente a visionare l'uva analizzando con un piccolo strumento la qualità ancora sulla pianta in una contrada chiamata Pallata, alle pendici dell'Etna di proprietà dei ricconi Leonardi di Catania. Da muratore, papà a Bronte diventa un'esperto di tini, botti e vino da fare invidia a un enologo di professione (molti brontesi fino a qualche anno fa facevano la coda per chiedere consigli). Ogni anno si comprava tutta la produzione dei Laudani che di mio padre come al solito avevano stima e fiducia. Si trattava di oltre 50 mila litri di mosto che man mano si produceva nel palmeto veniva trasportato sempre a mezzo carretti. La vendemmia durava 15 giorni e uno dei due carrettieri di fiducia era Francesco Saitta detto "vannazza" e da noi chiamato affettuosamente Ciccino (di lui avrò occasione di parlarne più avanti). All'età di 14 anni andavo anch'io con loro. Si partiva alle tre di notte da Bronte (durante il viaggio di circa tre ore cercavo di recuperare un po' di sonno sul carretto ma senza mai riuscirci) e si rientrava verso mezzogiorno. Per accorciare si faceva una specie di mulattiera e dunque ci voleva bravura a condurre il carro (l'autotrasporto era ancora da venire). (Erano rozzi viaggi e rozzi sistemi, com'era rozza la vendemmia, ma avevano un loro fascino, una loro attrattiva. In 50 anni tutto è stato stravolto. Oggi siamo su un'altro pianeta. E non è finita qui...). Per un mese la bottega rimaneva chiusa a causa delle forti esalazioni del mosto in fermentazione. Era motivo di un mese di vacanza in campagna, alla Contura. Riaprendo la bettola l'incremento della vendita era straordinario.
Poi venne la guerra… La guerra noi la sentivamo a mezzo radio o giornali, ma l'estate 1943 cominciammo a "vederla" da vicino. Un pomeriggio un aereo sganciò due bombe alla periferia del paese, senza per fortuna causare vittime. La radio diceva che gli Americani stavano sbarcando in Sicilia e perciò si prevedevano altri bombardamenti, come a Catania da alcuni giorni avvenivano. Quasi tutti gli abitanti ci rifugiammo nelle campagne. Noi andammo in contrada "Corvo" dove avevamo un appezzamento di terreno e una rustica casetta. Di lì si vedeva tutto il paese. La notte ci furono altre bombe. Ci spostammo a valle dell'abitato, dormimmo non ricordo dove. Altre bombe. Una cadde al centro di una via su alcuni cittadini che stavano recitando il rosario. Vidi di persona morti e feriti. Ci spostammo alla Contura. |