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Agosto 1943, la guerra a Bronte

La Storia di Bronte, insieme, nel web

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Cenni storici sulla Città di Bronte

Bronte, Luglio 1943 - Luglio 2003

SESSANT'ANNI FA I BOMBARDAMENTI SU BRONTE

di Franco Cimbali

L’Etnastellung, per l’importanza strategica divenne teatro di scontri violentissimi che si protrassero più o meno dal 31 Luglio alla prima decade di Agosto con migliaia di caduti da ambo le parti e anche di civili. Quest’ultimi, soprattutto a causa dei bombar­da­menti aerei a tappeto.

In quel lasso di tempo subirono bombarda­menti aerei: Troina, Capizzi, Cerami e Randazzo.

Anche Bronte esattamente il 14 Luglio divenne obiettivo di incursione aerea, che però non turbò lo scorrere della vita quotidiana.

I negozi erano aperti nel paese ed i pochi contadini, nei campi, preparavano la mietitura. Acqua e luce non mancavano. Sole restrizioni nelle ore serali, l’oscuramento imposto dalla autorità per proteggere le città dagli attacchi aerei nemici, e il coprifuoco, che impediva la circolazione nelle strade alle persone in determinate ore del giorno ricordavano a tutti (i brontesi) che c’era in corso la guerra i cui echi, però, erano ancora lontani.

Ciononostante quella prima avvisagli costituì, per molta gente l’occasione per cambiare aria sfollando negli spazi aperti delle campagne. Anche perché, oltre le bombe, erano stati lanciati volantini che invitavano la popolazione a lasciare il paese.

Circa un mese dopo, più precisamente il 4, 6 e l’8 di Agosto (Mercoledì, Venerdì e Domenica), Bronte ebbe le sue prime vittime anche fra i civili.

In quei giorni, le bombe lacerarono il silenzio quotidiano, fermarono la vita e, dopo interminabili minuti di terrore, come a seguito di catastrofico terremoto, tutto non fu più come prima. Per alcuni significò la morte, per altri mutilazioni, rovine, privazioni e fame. In ogni casa perdita di affetti e di beni.

Il comando generale delle operazioni belliche, sotto le direttive del generale Eberhardt Rodt, per motivi di vicinanza alla linea dell’Etna, venne ubicato presso la Ducea inglese dei Nelson, allora nemici dichiarati dell’Asse. Qui, nel Castello, prime vittime, per fortuna né civili né militari, ma migliaia di litri di pregiato cognac ivi prodotto che si trovavano nelle cantine in attesa di invecchiare; e un pianoforte a coda trafugato e successivamente recuperato a Reggio di Calabria dal signor Pippo Carastro, latore della notizia sopra riportata.

Un nutrito presidio tedesco era accampato al Piano Cantera con alloggio-comando presso il Casale Serravalle, di proprietà Sanfilippo-Calì.

Nell’uliveto, che costituiva la coltivazione principale del fondo, c’erano i carri armati mimetizzati ed un deposito di munizioni che, in fase di ritirata, gli artificieri tedeschi fecero brillare provocando danni seri ad impianto e fabbricati (testimonianza del geometra Calì Biagio).

Carri armati e postazioni d’artiglieria erano posizionati sulle alture attorno Bronte, zona Stazione, Colla, San Marco e Monte Maletto. Il loro fuoco di sbarramento, impediva il benché minimo movimento di truppe alleate, le quali replicavano con bombardamenti aerei a tappeto dagli effetti devastanti su truppe e mezzi. Il terreno sottostante, completamente ricoperto di buche, sembrava arato (teste il rev. Padre Giuseppe Zingale).

Aeroplani, di giorno, mitragliavano tutto quanto si trovava a transitare sulle strade, con particolare accanimento su automezzi e/o colonne di soldati per interromperne i rifornimenti e fiaccare la resistenza di quest’ultimi.

Già dal cinque di Agosto gli Anglo-Americani si trovavano di stanza ad Adernò, distante una diecina di chilometri da Bronte, e da lì indirizzavano i cannoneggiamenti di artiglieria, sin dalle ore ventitre, sulle soprastanti postazioni nemiche; tiri, preceduti da proiettili traccianti che costituivano spettacolo terrifico per quanti si trovavano sfollati ad Ovest del paese (Placa e Cattaino).

Chi, per tempo non aveva abbandonato il paese, dal momento che qui non c’erano rifugi antiaerei, trovò scampo presso chiese, conventi (cripta dei cappuccini), ingrottati lavici ubicati nella parte alta del Corso Umberto (numero civico 422 e Via Messina 4) e nella via Madonna del Riparo (al numero 3) o presso il Collegio e la galleria della Ferrovia Circumetnea ubicata in zona Colla.

Le abitazioni, abbandonate dai proprietari e fortunosamente scampate ai bombar­damenti aerei o d’artiglieria, venivano, notte tempo, “visitate” da sbandati e sciacalli in cerca di bottino.

Sempre sul far della notte c’era chi rientrava in paese e ritrovava la propria abita­zione ancora integra ma spesso con porte e finestre squassate dallo spostamento d’aria provocato dallo scoppio di bombe; la facciata sforacchiata dal mitragliamento aereo e i vetri rotti. Velocemente si caricava addosso una scorta di farina o di cereali (frumento e fave) da portare via a proprio rischio dal momento che, durante il rientro, poteva imbattersi in isolati gruppi di soldati pure loro affamati, che gli confiscavano il tutto.

Lo scenario che si presentava agli occhi del nostro “ignoto brontese” era ripetitivo: ovunque crolli, mezzi distrutti e abbandonati, macerie ancora fumanti, cadaveri anneriti e maleolenti. Su tutto un pesante silenzio di morte, rotto dal crepitio delle armi.

Di giorno il paese è pressoché deserto, solo qualche soldato lungo lo stradone principale ricoperto da detriti. Le botteghe sprangate, chiuse le macellerie, manca luce e acqua.

Attorno al Collegio Capizzi, che per l’occasione è stato adottato a sede del Secondo Ospedale militare di Palermo c’è un brulichio di vita: medici, militari, feriti, civili, personale destinato ai vari servizi.

Sui tetti c’è disegnata la croce rossa, quindi per convenzione non può essere bom­bardato. In una saletta troneggia una radio a galena che quotidianamente, attorno alle tredici, viene accesa per sentire i bollettini di guerra trasmessi dal quartiere generale delle forze armate italiane.

Bollettini a cui nessuno da più credito. L’Ospedale-Collegio, a mio avviso forse per errore, subì danni all’ala Nord-Ovest; l’ala Nord-Est venne minata e fatta brillare dai tedeschi. Più devastante fu il bombardamento aereo nella sotto­stante zona Soccorso che colpì abitazioni mietendo vittime tra i civili. Nella stessa giornata venne anche bombardato il quartiere Colla, ubicato nelle vicinanze della stazione Circumetnea.

Ancora crolli, specie sul corso Umberto, causati da mine deposte dai tedeschi in cavità praticate nelle cantonate di palazzi ed aventi lo scopo di ritardare l’avanzata degli Alleati. Vennero abbattute le abitazioni di Ardizzone e Immormino; Saitta, Fernandez, Collegio Capizzi (angolo via Card. De Luca), Azzia; Margaglio, Grisley. Abitazioni poste tutte lungo lo stradone principale.

I brontesi, come del resto tutti gli italiani, possedevano la tessera del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista). Sigla, quest’ultima, che negli anni quaranta avrà un ben più risibile significato: Per Necessità Familiari che veniva, però, sussurrato a denti stretti con molta cautela anche perché era ancora alto il numero dei “delatori” che denunziavano segretamente alle Autorità.

E’ di questi anni l’episodio riportato da Nicola Lupo nel suo libro: “Fantasmi, storie paesane”. Egli, parlando di un proprio cugino, ci dice che quest’ultimo era diventato famoso per aver sputacchiato contro il ritratto di Mussolini portato in “processione” nel corso di una manifestazione politica da fedelissimi in camicia nera. Tale gesto, dice sempre il Lupo, “eloquente e coraggioso procurò a Nunzio un proces­so per direttissima e la sua condanna”.

Egli sarebbe stato ospite nella camera di sicurezza dei Regi Carabinieri insieme ad altri dissidenti tutti ben foraggiati, secondo l’uso del tempo, a pane e acqua e abbondante olio di ricino, naturalmente ogni qual volta c’era in corso una manifestazione.

 

 

Macerie di case di­strutte dalle bom­be degli al­leati e dalle mi­ne tede­sche in Piaz­za E. Cimbali (in primo piano la ca­sa dei Lupo San­ta­mat­ta, vici­no 'a cuvva ra Catina).

Sotto, un salone del Real Collegio Capizzi, allora Ospedale militare, danneggiato da un bombardamento alleato.

A destra e sotto, l’in­cro­cio del Corso Um­ber­to con via Card. De Luca con le mace­rie del pa­laz­zo Fernan­dez, e di una parte del R. Collegio Capizzi fatti salta­re dai tede­schi durante la riti­rata.

In queste due foto le macerie di case fatte saltare dai tedeschi in ritirata nell'incrocio tra il Corso Umberto e la Via Card. De Luca. Sullo sfondo della foto il Real Collegio Capizzi, tra i due carabinieri il maresciallo dei Vigili Urbani Faia (in borghese) ed un ufficiale inglese.

Sopra, sulla destra della casa al centro l'inizio della via Annunziata e, a sinistra, il negozio Claudia Luca.

Sotto, il palazzo Rizzo con il Circolo di Cultura E. Cimbali (allora trasfor­mato nella “Casa del Fascio, Do­po­lavoro del Littorio Enrico Cimbali") sventrato dalle bombe alleate.

 

Carta annonaria (1944)Nel Natale del 1941 anche i brontesi ebbero la ventura di trovare una “seconda tes­sera” appesa all’albero, anche questa dono del Regime. Infatti, esauritesi le scorte per mancanza di produzione e rifornimenti, il Governo deliberò il razionamento del pane e dei generi di prima necessità.

Arrivò così la “carta annonaria” (immagine a destra) per i generi alimentari, comunemente detta “tessera”. Era un cartoncino di color grigio con sopra riportato nome e numero di matricola del titolare; conteneva una serie di tagliandini che davano diritto ad una quantità “pro capite” che col passare del tempo diminuiva di peso.

Parallelamente si sviluppò il fenomeno del mercato nero, in Sicilia detto “’ntrallazzu” cioè un traffico illecito di prodotti il cui costo era dieci volte di più rispetto ai prezzi legali. Introvabili: latte, zucchero e medicinali. Mancava l’acqua che, se destinata ad uso potabile, doveva essere bollita, perché inquinata.

Le macerie accumulatesi e non rimosse costituivano pericolo per quanti le dovevano attraversare, specie se anziani. Quindi per consentire un minimo di transito ed evitarne la scalata, vennero fatti da “volenterosi civili” degli stretti cunicoli o passaggi ai piedi degli stessi cumuli.

L’episodio riportato, qui di seguito, a mio avviso, è molto significativo soprattutto se raffrontato con l’altro avvenuto presso la galleria Colla, avente come protagonisti, oltre ai tedeschi, la signora Faro.

Il fatto rappresenta le due facce della stessa medaglia, il lato umano e il brutale.

Protagonisti due soldati tedeschi e quattro civili brontesi: luogo il corso Umberto con di fronte la chiesa di San Giovanni e il negozietto del signor Bertino (numero civico 203 oggi).

Qui dentro i quattro, oltre il proprietario che rattoppava scarpe, a detta del signor Zino Bruno, allora diciassettenne, bighellonavano. Gli altri tre erano Ciraldo Agostino, Caponnetto Vittorio e Zerbini allora quarantenne.

Era il primo pomeriggio di un giorno di Agosto quando si presentarono due soldati tede­schi di ronda che armi alle mani, nella loro lingua gridarono “arbait, arbait”, con un imperativo che non ammetteva replica “arbait, arbait” (lavoro, lavoro).

I quattro “volontari” prontamente obbedirono e, preceduti e seguiti dai due “aria­ni”, così si disposero in fila: Bruno, Ciraldo, Caponnetto e Zerbini. Ad una diecina di metri dal negozio (numero civico 203) più precisamente al civico numero 171 c’è Vico Alaimo che potrebbe costituire una via di fuga.

Infatti, con un cenno di intesa con gli altri, il Bruno spicca un salto, scavalca i dieci gradini seguito velocemente da Ciraldo e Caponnetto che si dileguano nella sottostante via. Nemmeno il crepitio delle armi ferma la loro corsa.

Così i tre trovano rifugio nell’abitazione del Bruno, da lì poco distante e si chiudono dentro.

E il quarto? Forse ….

A tarda notte il Bruno, frugando nei ricordi, mi dice che uscì di casa preceduto da una lanterna e rifatto a ritroso il percorso trovò il corpo inanimato dell’amico giacente bocconi e crivellato di colpi.

Consimile episodio è narrato da Leonardo Sciascia nel suo libro avente titolo: “Gli zii di Sicilia”, pagina 16 e segg..

Con l’entrata a Bronte delle truppe inglesi, sicuramente dopo il dieci Agosto, riapparvero dopo 83 anni nuovi proclami ma per nostra fortuna non più a firma del generale Bixio; recavano il nome del generale Alexander H. R. L. G.. Prece­dentemente stampati, portavano la data generica di Luglio 1943, erano bilingue con sopra stampigliati i numeri 7 e 12. Col primo venne imposta d’autorità l’AMGOT; col secondo l’AMLIRE.

L’Amgot (governo militare alleato dei territori occupati) tra l’altro conteneva le sotto riportate disposizioni. Il generale Alexander avvisa che il potere giuridico-amministrativo dipendono da lui e ordina:

-  Coprifuoco al tramonto del sole
-  consegna delle armi
-  proibizione di assembramenti
-  nomina del Sindaco (Commissario del Comune sarà Vincenzo Saitta, ex onorevole)
-  arresto di tutti i fascisti da portare in campi di concentramento (campo 369, prigionieri di guerra, Priolo).

Col secondo si ordinava il corso forzoso della carta moneta d’occupazione: L’AMLIRE avente valore legale e al cambio corrente le seguenti parità: lire 100 per un Dollaro, lire 400 per una Sterlina.

Il 16 Agosto tutti i soldati dell’Asse erano stati cacciati via dalla Sicilia dopo trentotto giorni di guerra cruenta: aerea, navale e terrestre. Guerra contro il territorio, le persone e i beni degli altri o dello Stato, però con l’osservanza delle norme del Diritto Internazionale!

Alle ore 6,35 del 17 di Agosto, Hube informava il Comando Supremo Tedesco (OHW) che l’operazione “Lehrgang” (evacuazione) era completata. Egli, approfittando di contrasti tra i due generali Patton (USA) e Montgomery (Br) e grazie alle numerosissime batterie contraeree costiere posizionate nel Continente, notte tempo era riuscito a far traghettare le truppe tra il 13 e il 14 di Agosto e quasi tutto l’equipaggiamento pesante.

Egli ebbe ragione nel dire che il primo ad arrivare a Messina era stato lui e non l’americano Patton (che arriverà il 16/8) seguito dall’inglese Montgomery.

A Bronte il 29 Luglio 1944 verrà officiata una solenne messa cantata presso la chiesa Maria SS. Annunziata, alle ore 11 in ringraziamento. Anche sotto i Borboni e i Savoia, dopo vittorie o scampati pericoli, si celebrava in chiesa un inno di glorificazione e ringraziamento a Dio: il Te Deum.

Franco Cimbali

Luglio 2003


 

«Á la guerre comme à la guerre!»

Di Nicola Lupo

Nicola Lupo«Il mio amico avv. Gabriele Liuzzo mi ha segnalato un libro di Fe­derica Saini Fasanotti, La gioia di vivere (Crimini contro gli italia­ni 1940-1946, prefazione di San­dro Fontana – Edizione Ares 2006 € 18,00) e mi ha man­dato del VI capitolo Illegalità statuni­tensi & inglesi, il primo paragrafo intitolato Compor­tamento degli alleati durante la campagna di Sicilia.
In esso a pag. 195 fra l’altro si scrive:

“A Bronte, per esempio, i Carabinieri della locale stazio­ne, (il maresciallo era un certo Pintus, sardo, n.d.a.) ac­cusati di chis­sà quale mancanza, furono fatti schie­ra­re nell’aula della Pretura. Poi due componenti il tribu­na­le militare alleato, l’americano Longchaney e l’inglese Reynol­ds, li tempestarono di calci nel sedere. Per una mezz’ora gli im­piegati della pretura furono costretti ad assistere all’ignobile sce­na.(282”)

Quindi egli chiede eventuale mia conferma, che, però, io non pos­so dargli perché non conosco l’episodio, come non lo cono­sce neppure mio fratello Elio.
Però potrebbe conoscerlo e ricor­darlo la signora Maria Meli Az­zia, che ha data testimonianza di quei giorni in “Bronte 1943”.

Inoltre a pag. 194 si dice:

“Famoso è il caso dell’università di Catania i cui locali fu­rono adibiti a ritrovo delle truppe alleate, con l’Aula magna tramutata in sala da ballo, i giardini in caffè al­l’aper­to e poi bar, ristoranti, sale da gioco e postriboli per ufficiali e truppa. Il rettore (Orazio Condorelli, do­cen­te di Filosofia del diritto, n.d.a.) che osò prote­sta­re fu malmenato, costretto a spazzare le vie della città sotto sorveglianza armata e rinchiuso in un cam­po di internamento.”

Neppure questo secondo episodio mi è noto, tranne che nell’ulti­ma parte: infatti anche il prof. Orazio Condorelli era a Priolo in­sieme ai Brontesi di cui a “Il mio 1943”.

Del campo di Priolo si parla a lungo a pag. 196 con una lunga te­stimonianza di Gaetano Zingali (docente di diritto presso l’univer­sità di Catania, n.d.a.) che inizia così:

“Le più gravi sevizie venivano commesse contro gli ex fascisti. In parecchi casi (potrei fare nomi) i catturati venivano invitati a sca­varsi la fossa, udivano alle spal­le, mentre erano carponi, le scari­che di fucileria e, men­tre tremanti si palpavano il corpo, prende­vano fiato al sen­tire gli sghignazzamenti dei liberatori […].
E’ or­mai tempo di smentire anche la storiella che i Bri­tan­nici abbiano usato un trattamento umano agli inter­nati civili. Questi erano trattati peggio dei delin­quenti comuni. […]

La testimonianza continua parlando del campo di Padula (SA) dove, dei brontesi, andò solamente Attilio Longhitano, ex segre­tario del Fascio di Bronte, che si faceva chiamare “gerarca”.284
A proposito delle fosse mio padre mi disse che erano quelle bio­logiche, ma non è escluso che qualche soldato di guardia abbia fatto lo “scherzo” di sparare in aria mentre gli internati scavavano.

Al mio amico ho scritto:

Caro Gabriele, ho ricevuto il tuo plico che ho letto subito e con attenzione. Devo dire che è uno dei tan­ti libri che sono stati pubblicati in questi ultimi anni e che rap­presentano il revan­cismo degli sconfitti della seconda guerra mondiale senza pensare la famosa frase “à la guerre comme à la guerre!” nel senso che bisogna accettare le sue regole che sono condi­zio­nate dalla natura umana più o meno belluina.
Un esempio lo cito io ne Il mio 1943 a proposito di due ufficiali inglesi: uno che meritava di essere sparato e l’altro comprensivo che agevolò il rilascio di mio padre morente.
Detto questo vengo a rispondere a quanto mi hai detto tu al tele­fono e cioè che non era stato nominato il campo di concentra­mento di Priolo, dove furono internati i nostri parenti: invece a pag. 196 se ne parla per ben 18 righe oltre la pagina seguente che riporta una nota di Gaetano Zingali (docente all’Università di Catania) che parla anche del campo di Padula che fu l’ultimo a essere chiuso.
Il fatto di Bronte (pag. 195) non risulta né a me né a mio fratello Elio, che, però, si ricorda che il maresciallo allora era un certo Pintus, sardo, che dovette fare il doppio gioco, pena la sua stes­sa incolumità. Io riferirò a bronteinsieme perché cerchi qualche altra testimonianza che potrebbe essere di Maria Meli moglie di Mimmo Azzia.

Neppure il fatto riguardante il Rettore dell’Univer­sità di Catania, Orazio Condorelli, docente di Filosofia del diritto, (pag. 194) mi risulta, mentre so che era anche lui a Priolo. Dove le fosse furono fatte sì scavare, ma erano le biologiche, come mi riferì mio padre.»

Nicola Lupo

Giugno 2007

282) S. Attanasio, op. cit. pp. 34.35  Gli anni della rabbia. Sicilia 1943-1947 n.d.a.)
284) G. Zingali, L’invasione della Sicilia (1943) Avvenimenti militari e responsabilità politiche. Crisafulli Ed: Catania 1962, p. 373.




Agosto 1943: I ricordi di Luigi Minio

Nei mesi di luglio-agosto 1943, quelli dei bombardamenti degli alleati su Bronte e del passaggio per le vie cittadine delle truppe tedesche in ritirata verso Messina, Luigi Minio aveva 13 anni. Quei drammatici giorni hanno lasciato ricordi indelebili e Luigi Minio ce li ha trasmessi in un suo libro "La testa in bronzo, ricordi sbiaditi nel tempo".
 

Ancora la guerra, ma ora vicina

di Luigi Minio LUIGI MINIO, 2004

Finita la seconda media rientrai in famiglia, anche perché l’anda­mento della guerra volgeva sul drammatico.

Frattanto anche in casa mia aveva fatto ingresso la radio ed io, oltre che ascoltare i bollettini di guerra ufficiali, mi sintonizzavo sulle emit­tenti clandestine inglesi che trasmettevano ad onde corte; avevo però cura di farlo a basso volume, trattandosi di un ascolto proibito.

Seppi così con qualche giorno di anticipo sulla comunicazione ufficia­le, che l’undici giugno del’ 43 gli alleati avevano occupato l’isola di Pan­tel­leria; il dieci luglio seguente fu la volta della Sicilia, dove sbarcaro­no all’estremo Sud e da lì puntarono su Catania ed il resto dell’Isola.

A Bronte, il segno tangibile dell’avvenuto sbarco fu l’interdizione di transitare per la via principale, da lasciare costantemente libera al passaggio dei mezzi militari.

Giungevano frattanto voci di bombardamenti nei paesi vicini e di possibili incursioni an­che su Bronte; per precauzione una sera decidemmo di trasferirci in casa di mio fratello Nino che abitava in periferia, per passare la notte in una zona considerata meno a rischio.

In quel periodo la nonna Carolina era andata a vivere presso lo zio Luigi e mia sorella era andata in campagna, in sostituzione della mamma tornata già in paese.

La sera del martedì 13 luglio, seduti al fresco di un terrazzino dopo una giornata afosa, commentavamo quanto succedeva e gli adulti tentavano di fare pronostici sull’avanzata degli anglo-americani. Intorno era silenzio e il paese, in parte spopolato, sembrava dormire, appena lambito da un fioco raggio della luna che aveva già superato il primo quarto; malgrado l’imposizione dell’ oscuramento totale, qualche tenue luce di tanto in tanto fugacemente appariva, mentre in lontananza si sentivano a intervalli cupi rombi di aerei.

Un rombo si fece più intenso e minaccioso come se si avvicinasse; improvvisamente bagliori, di fronte a noi, squarciarono il buio, seguiti da due esplosioni che scossero la casa. Scattai dalla sedia, mi precipitai dentro preso dal panico e nel buio cercai riparo rintanandomi in un angolo; anche gli altri entrarono precipitosamente in casa e restammo tutti col fiato sospeso finché il rombo non si allontanò.

Affacciati nuovamente al terrazzino sentimmo voci in lontananza che si rincorrevano di balcone in balcone; si avanzavano ipotesi sui punti colpiti dalle bombe e sugli eventuali danni, poi le voci si andarono smorzando finché cessarono del tutto e andammo a letto, anche se il sonno non giunse facilmente.

Fattosi giorno, organizzammo il trasferimento in una nostra campagna in contrada Ciap­paro, tra Bronte ed Adrano all’ altezza del casello 51 del trenino locale, pur continuando a fare la spola col paese.

Nella tarda sera di domenica 25 luglio, la radio interruppe le trasmissioni e una voce, lentamente, scandendo le singole parole, annunziò:
Attenzione, attenzione! Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro e segretario di stato presentate da Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini e ha nominato capo del governo, primo ministro e segretario di stato Sua Eccellenza il Cavaliere, Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio.

Furono fra le ultime notizie ascoltate dalla radio; la definitiva interruzione dell’energia elettrica c’impedì di conoscere quanto accadeva nel resto del mondo.

Mio fratello Nino in quel periodo era sotto le armi e per benemerenze ... uma­nitarie nei riguardi del colonnello (riforniva di viveri lui e la sua famiglia), aveva ottenuto di prestare servizio ad Adrano, da dove la sera tornava a casa per dormire. Quando poi il fronte fu vicino, pensò bene di non fare più ritorno al reggimento; le donne riciclarono la divisa militare e mio padre nascose il fucile in un casolare vicino, deciso ad usarlo se tedeschi sbandati in ritirata avessero tentato una qualche bravata.

La permanenza in quella campagna si protrasse parecchie settimane sotto l’incubo costante dei bombardamenti. Ogni giorno formazioni di aerei - in numero di quattro o di dodici - ci sorvolavano nelle loro missioni di distruzione e di morte; a volte vedevamo sganciare le bombe e dalla loro traiettoria tentavamo di capire quali obiettivi avrebbero colpito.

Poco distante dalla campagna in cui eravamo, in contrada Fiteni, era piazzata una batteria contraerea che entrava regolarmente in azione; quando era nella nostra direzione ci riparavamo alla meglio per il pericolo delle schegge che cadevano intorno.

In uno di questi attacchi vedemmo un aereo staccarsi dalla formazione, perdere quota e precipitare lasciando dietro una scia di fumo seguita dai paracadute coi piloti.

Mio padre faceva il pendolare dovendo anche seguire quanto accadeva nella nostra azienda agricola, maggiormente esposta ai pericoli; si trovava sul rettilineo di una grossa arteria, la strada dei Nebrodi e delle Madonie, dove transitavano i convogli militari costantemente attaccati, proprio in quel tratto particolarmente esposto, dall’aviazione alleata; a curare l’andamento era rimasto il fratello minore con la sua famiglia, mia sorella e i dipendenti, oltre agli zii che gestivano la loro azienda, attigua a quella nostra. Da uno di questi viaggi mio padre ritornò taciturno, riportando mia sorella che appariva sconvolta.

Alle domande incalzanti di mia madre, raccontò laconicamente che la zona era costantemente bombardata, divampavano incendi, parte del raccolto era andato perduto e anche i pascoli bruciavano. Si fermò lì, mentre mia sorella continuava a singhiozzare, sebbene raggelata dallo sguardo severo di mio padre; scese un innaturale silenzio, si divagò parlando d’altro, poi mia sorella non resse e trasgredendo quanto concordato, proseguì il racconto.

RICOSTRUZIONE

Così, pochi anni dopo la fine del­la guerra, intitolava la prima pagina del quindicinale Il Ciclope del 3 Ago­sto 1947 in un articolo a fir­ma del direttore Giuseppe Bonina

«E’ difficile rimuovere macerie, più difficile sana­re corpi, più difficile guarire spiriti traviati

Bronte alla prova

Nella nostra cittadina, l'edilizia fà veramente miracoli. Dovunque il lavoro ferve: i privati rifanno le loro case di­strutte per gli eventi bellici; l'ammini­stra­zione co­mu­nale (era sindaco Giuseppe Inter­donato ndr), coa­diu­vata dal Genio Civile, riattiva strade, porta a com­pi­mento il primo tronco della fogna, con grande utilità del­l'igiene e della sa­lute pubblica, elabora nuovi pro­getti, per dare volto de­co­roso alla topo­grafia urbana.

Ma ciò non è sufficiente e le autorità costituite non pos­sono essere certamente tranquille nè soddi­sfat­te.

Solo se si procederà con ritmo più accelerato e tutte le am­ministrazioni che si avvicenderanno, tenderan­no ad uno sforzo comune ed ordinato, fra non molto Bronte po­trà diminuire le infinite brutture del suo corpo. La ricostruzione materiale quindi è per noi una esi­gen­za impellente e costituisce motivo di orgoglio e di con­for­to.

Ma una diversa ricostruzione più difficile ed invi­sibile, meno celere e più preoccupante, si affaccia agli oc­chi della men­te, quasi umiliata e prostrata, ed è quel­la dei corpi e delle anime.

In ogni parte, nelle vie, nelle case si parla a favore dei figli del popolo, degli umili, dei diseredati e si escogi­ta­no per loro numerose forme di assistenza (…)»

[Il Ciclope, numero unico, Domenica 3 Agosto 1947, direttore Giuseppe Bonina]

1944: La Sezione brontese del Partito d'Azione

Gli aerei alleati avevano bombardato un’autocolonna militare centrando alcuni blindati e nell’incendio seguito, il fuoco si era propagato alla campagna; allontanati si gli aerei, mio fratello, il cugino Nino ed altri cinque o sei giovani presenti s’avviarono per spegnere le fiamme.

Erano appena riusciti nell’intento quando un’altra formazione di aerei piombò sganciando bombe e mitragliando; si buttarono a terra aspettando che passasse l’uragano e quando si alzarono videro, fra lo stupore e il terrore, in mezzo a loro una grossa bomba inesplosa.

Si guardarono con le facce sbiancate, balbettarono qualche parola ma vedendo che Nino non si rialzava gli corsero accanto: notarono esterrefatti che giaceva privo di conoscenza, con una grossa ferita alla fronte e la faccia ricoperta di sangue.

Frattanto da un poggio, quelli rimasti in casa contavano le sagome che si delineavano lontane e seguivano con apprensione i movimenti, tentando di capire quanto accadeva. L’apprensione si fece maggiore quando due di loro si staccarono dal gruppo per tornare indietro; giunti vicino, parlarono genericamente di quanto accaduto, minimizzando la cosa e s’avviarono nuovamente verso il ferito portando una scala, per adagiarlo come su una rudimentale barella.

A casa, mia sorella tentò di lavare la fronte con del vino e notò rabbrividendo qualcosa di grigiastro in fondo alla ferita; lo fasciarono alla meglio e lo trasportarono fino allo stradale.

Qualche mezzo militare tedesco rallentava e gli occupanti con cenni indicavano che sarebbe seguita l’ambulanza; poi un camion italiano si fermò e i militari fecero presente il pericolo di mitragliamenti da parte degli aerei; il padre e il fratello Gino insistettero mostrandosi disposti ad affrontare anche quel rischio e salirono insieme a loro.

Nino fu trasportato a Francavilla nell’ ospedale militare e dopo i primi tentativi di soccorso ad Acireale; morì due giorni dopo senza aver ripreso cono­scenza. Gino e il padre fecero mestamente ritorno, attraverso le campagne, per evitare i mitragliamenti che si susseguivano sulle autocolonne lungo le strade; riportarono indietro le scarpe, tanto; le avrebbero rubate, avevano detto loro in ospedale. Aveva vent’ anni!

I giorni seguirono tra la costernazione e i racconti di sempre nuovi morti.

La situazione in paese diveniva sempre più drammatica, anche per la presenza della batteria contraerea piazzata a monte del paese, in contrada Colla. Nel tentativo di neutralizzarla, il mercoledì 4 agosto gli aerei alleati sganciarono un nutrito grappolo di bombe che fallirono l’obiettivo e si disseminarono a levante del paese, nella traiettoria da San Vito alla Stazione. I pochi abitanti rimasti, ai primi scoppi cercarono rifugio in improvvisati ripari, ma spesso con scarso vantaggio.

Passata l’incursione, i volenterosi rimasti illesi tentarono di soccorrere coloro che erano rimasti sotto le macerie. Fra i soccorritori si mostrò particolarmente attivo un giovane sacerdote, Luigi Longhitano; si prodigò per portare in salvo quanti poté e al termine dei primi soccorsi ai feriti, dalle rovine di una casa gridò forte:

- C’è qualcuno?

Proprio da sotto i suoi piedi si sentì una voce:
- Aiuto!
- Quanti siete?
- Otto!

Insieme ad altri si mise alacremente a scavare e trasse fuori per prima una bambina che insieme agli altri si era rintanata sotto il letto; poi venne fuori la nonna, ma gli altri non davano più segni di vita. Sotto il peso delle macerie il letto sotto il quale si erano rintanati aveva ceduto, lasciando solo un vuoto nel punto in cui era stato sorretto da vasche di legumi. Poco distante, altri volenterosi scavando fra le macerie di un’altra casa crollata, trassero fuori mio zio, Ciccio Toscano ferito e il corpo senza vita del figlio più grandetto, Turi.

All’avvicinarsi del fronte, ai bombardamenti aerei subentrò l’artiglieria; ci trovammo nel tiro incrociato degli opposti schieramenti, mentre piccoli aerei di ricognizione sorvolavano la zona.

La casa in cui eravamo non apparve più sicura e la famiglia decise di passare la notte in una grotta antistante, adibita solitamente all’allevamento dei conigli; mio padre giudicò indecoroso un simile atteggiamento di paura e decise di continuare a dormire nel suo letto; io volli imitarlo e tra l’incoscienza e il finto coraggio gli feci compagnia.
Ad una valutazione attenta, nemmeno quel rifugio fu reputato sicuro e il giorno seguente concordammo, con altre famiglie delle vicinanze, di trasferirei poco distante in un’ampia cavità sotto uno spesso strato di lava; vi si accedeva da una buca nel terreno, poi chiusa con un fascio d’erba in modo da passare completamente inosservata.

Vi rimanemmo in trentanove per alcuni giorni, incuranti delle sensazioni olfattive che col passare del tempo si rendevano più intense. Mio padre faceva la spola tra l’improvvisato rifugio e la casa per prelevare viveri ed io lo seguivo, con un fazzoletto bianco in cima ad un legno a segnalare che eravamo innocui civili.

In una di queste missioni trovammo alcuni soldati inglesi seduti avanti casa; risposero con cordialità al nostro saluto, li invitammo ad entrare e uno di loro mi diede alcune monetine. Al ritorno trovammo il sentiero interrotto da una grossa buca: un proiettile era caduto proprio sul percorso da noi fatto qualche ora prima.

Restammo nella grotta finché i tiri dell’ artiglieria non cessarono del tutto. Scampato il pericolo, mio padre e mio fratello si affrettarono a verificare i danni avvenuti in paese: la casa di mio fratello era fortunatamente integra, quella del fratello minore saccheggiata e con tavoli e suppellettili non suoi, probabilmente perché vi si erano insediati i militari che vi avevano trasportato roba di altre case; la nostra crollata nella parte centrale. C’eravamo trasferiti in quella casa, in Piazza del Rosario, con un balcone in Via Discesa Matrice, l’anno precedente; le stanze prospicienti le strade erano rimaste integre mentre l’interno si era sbriciolato.

La vita doveva riprendere e bisognava proteggere quanto era rimasto: mio padre tornò alla fattoria per la ripresa dell’azienda, mio fratello ed io ci occupammo delle case per proteggerle dallo sciacallaggio dilagante. Ogni sera tornavamo a dormire in paese, mio fratello nella sua casa, io in quella paterna, armato di una candela e di fiammiferi; certo, a dodici anni, dormire da solo in una casa sventrata, senza persone amiche vicine, col timore di eventuali ladri, non mi lasciava tranquillo; dovevo, però, impormi un contegno da uomo, senza far trapelare nulla della paura matta che provavo.

Era la costante in quel periodo - e non solo - un comportamento che fosse di gradimento agli altri, non potendomi più permettere d’essere me stesso. I familiari notavano, compiaciuti, il mio coraggio e non reputavano che vi fossero pericoli che non avrei potuto fronteggiare.

Vista la mia determinazione, pensavano che non mi sarei fatto prendere dal panico. Facendo un qualche rumore avrei messo in fuga i malintenzionati che non avrebbero potuto sapere se si fosse trattato di un bambino o di un adulto armato.

Luigi Minio

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