Nell’archivio storico annesso alla
biblioteca del Real
Collegio Capizzi sono custoditi alcune
interessanti raccolte
documentarie, intere annate di quotidiani e periodici di
fine ottocento/inizi novecento, finemente rilegati e in
perfetto stato di conservazione, ed un settore particolare
costituito da libri, testi e documenti di scrittori
brontesi. Di particolare rilievo quelli un tempo appartenuti al card.
Antonino-Saverio De Luca, nunzio apostolico a Vienna
durante l’epoca di Pio IX; quelli del “fondo Cimbali”,
ricchissimo di carte e manoscritti, tra gli altri anche di
Giuseppe Cimbali, e libri e documenti di
Benedetto
Radice. Accanto ai registri che seguono l’attività amministrativa e
scolastica dello storico Convitto, viene conservata anche
una preziosa raccolta di carte della Vicaria Foranea di
Bronte e di una Corte Spirituale operante in città nel corso
del secolo XVIII. Esistono poi raccolte minori di eruditi locali e una
carpetta segnata con la generica intestazione “Nicola
Spedalieri” contenente carte scritte dal filosofo brontese
durante gli anni dell’insegnamento a Monreale, nel
periodo che va dal 1765 al 1773, prima della
partenza per Roma nel 1774. Il giovane Nicola Spedalieri, in questo suo primo
impegno letterario e apologetico, elaborava un ciclo di
sermoni quaresimali, undici orazioni con i quali si misurava
con i temi che saranno peculiari della sua riflessione
matura. I manoscritti, consegnati al sacerdote concittadino Carmelo
Politi, non furono mai dati alle stampe. Quando il Politi da
Monreale si trasferì a Bronte, chiamato ad insegnare nel
novello istituto fondato da Ignazio Capizzi, gli scritti
dello Spedalieri finirono dimenticati in una carpetta e
coperti da un velo di silenzio. Nel 1996, dopo oltre due secoli dalla loro stesura, sono
stati oggetto di particolare attenzione di un studioso
brontese, allora giovane professore di Filosofia e Storia
nel locale Liceo, Vincenzo Pappalardo, che ne ha
curato la pubblicazione in un volume dal titolo
“Quaresimale”. Dal libro, edito dal Comune di Bronte nel secondo centenario
della morte del filosofo, abbiamo estratto alcune pagine che
di seguito vi proponiamo. Quaresimale
di Nicola Spedalieri, a cura di Vincenzo Pappalardo
«Nella carpetta segnata con la generica intestazione “Nicola Spedalieri” - scrive Pappalardo nella parte introduttiva - sono contenuti 184 fogli in quarto, fittamente stesi da una mano che conserva la stessa calligrafia minuta, riuniti in parziali legature e sistemati in un ordine che non impedisce qualche grave confusione. […] L’argomento dei manoscritti è di carattere omiletico e l’intera raccolta costituisce un Quaresimale composto di undici prediche da recitare in altrettante specifiche giornate del periodo penitenziale che precede la Pasqua. L’attribuzione di queste carte è agevole: le prediche numero due e numero tre portano in calce all’ultimo foglio l’esplicita e leggibile firma di Niccolò Spitaleri, lectio originale del nome e cognome che il futuro apologeta cattolico, trasferitosi a Roma ed entrato in contatto con ambienti arcadici, ingentilirà nel più classicheggiante ed eufonico Nicola Spedalieri. Tutte le altre prediche non appaiono firmate, ma è facile fugare ogni dubbio sull’autenticità facendo appello all’uniformità calligrafica, alla coerenza complessiva della raccolta, all’esistenza di numerosi spunti che trovano spazio in altre opere dello scrittore siciliano. Ci troviamo dunque con certezza in presenza di quel Quaresimale scritto in età giovanile dallo Spedalieri e documentato sia nelle Memorie sul seminario di Monreale
di Biagio Caruso(1), che nell’opera più celebre e approfondita di Domenico Scinà(2), quando si fa accenno, in modo fugace e incidentale alla composizione di una raccolta spedaleriana di prediche quaresimali, stese in un periodo imprecisato ma collocabile negli anni che vanno dal 1765, anno della probabile ordinazione, al 1773-4, epoca del definitivo trasferimento a Roma del giovane docente monrealese. Trascorsi i primi decenni dell’Ottocento sulle omelie quaresimali dello Spedalieri cala un velo di silenzio, che neppure l’effimero rifiorire di studi spedaleriani di fine secolo riuscirà a sollevare. Così, il Quaresimale, pur essendo con ogni probabilità il primo impegno letterario e apologetico dello Spedalieri, finì di fatto con lo smarrirsi e nessuno degli studiosi che in seguito si occuperanno del suo autore si darà la preoccupazione di approfondirne il destino. Dopo un secolo e mezzo di oscurità i manoscritti spedaleriani fanno la loro ricomparsa nella biblioteca del Collegio, lasciando una inequivocabile traccia nella numerazione a cifre romane posta sul foglio d’apertura di ciascun sermone dal professor
Francesco Longhitano Ferrau, che tenne la responsabilità del patrimonio librario ed archivistico del Collegio dal secondo dopoguerra ai primi anni ‘80 […]. In assenza di qualsiasi riferimento letterario, il Longhitano risulta comunque essere il primo lettore storicamente riconoscibile delle prediche spedaleriane; la sua fu tuttavia una lettura frettolosa e disordinata. Numerando infatti […] le diverse omelie contenute nella carpetta, il vecchio archivista vi riconobbe dodici testi […]. Una lettura più attenta consente, in realtà, di riconoscere solo undici lunghe orazioni […]; dato l’indubitabile carattere quaresimale dei sermoni, la collezione di carte in nostro possesso è dunque con certezza incompleta. Resta da capire se a noi sono giunte solo alcune delle omelie scritte dall’apologeta brontese del Settecento, o se lo stesso autore lasciò ad un certo punto interrotta la fatica. In mancanza di una qualsiasi testimonianza storica il dilemma rischia di rimanere insoluto; vi sono tuttavia elementi a favore dell’una e dell’altra ipotesi. L’ordine dei sermoni sembra infatti seguire un criterio giornaliero, avendo inizio con il mercoledì delle Ceneri e proseguendo quasi ininterrottamente per la prima settimana della Quaresima, fino al martedì della seconda settimana: è probabile dunque che l’autore abbia lavorato con sistematicità al suo progetto, fino a quando un calo di tensione e l’emergere di altri interessi non l’abbiano distolto e indirizzato verso altri impegni. Alcuni elementi formali confermano questa ipotesi: la pulizia e la correttezza degli scritti subiscono un andamento visibilmente decrescente e dal rigore delle prime e più vecchie omelie si passa ad un disordine gradatamente più accentuato nei testi più recenti, nei quali compaiono numerose correzioni e per i quali manca una riscrittura definitiva che diremmo in bella copia. A sostegno dell’ipotesi contraria stanno invece gli spazi che interrompono la continuità temporale del periodo quaresimale. Mancano infatti i sermoni del martedì e sabato della prima settimana, nonché quello della seconda domenica: se il nostro autore avesse seguito un piano sistematico, avrebbe dovuto stendere quelle omelie che oggi mancano.
Del resto l’ordine sparso in cui si trovano alcune carte della collezione sopravvissuta confermerebbe una certa incuria, alimentando respiro al sospetto che una parte delle carte potrebbe essersi smarrita. In definitiva, gli elementi in nostro possesso documentano un progressivo distacco dello Spedalieri dalla sua fatica omiletica, comprovato anche dall’abbandono delle carte nelle mani del chierico concittadino Carmelo Politi, mentre resta giustificato il dubbio che almeno una parte della raccolta sia andata col tempo smarrendosi. Gli undici testi in nostro possesso si definiscono dunque come omelie e si collocano in modo preciso nelle singole giornate del primo periodo quaresimale. Con più esattezza, seguendo le indicazioni di giorno che nella maggior parte dei casi sono esplicitamente poste in apice al foglio d’apertura, le prediche restituiteci dall’archivio del Collegio seguono ininterrottamente i giorni che vanno dalle Ceneri al lunedì della “prima settimana”; poi, dopo un vuoto corrispondente al primo martedì, siamo in possesso delle orazioni del mercoledì, giovedì, venerdì della prima settimana; quindi una lacuna di due giorni, e le prediche del lunedì e del martedì della “seconda domenica”. Non sempre i fogli iniziali di ciascuna orazione portano l’indicazione della giornata di recitazione: questo succede per i testi segnati con i numeri I, III, VII, IX.
E’ possibile tuttavia risalire agevolmente al giorno
pertinente facendo riferimento alla citazione posta nel thema inaugurale di ciascuna omelia, che risulta essere sempre tratta dal vangelo del giorno. I testi segnati con i numeri IV e V recano la medesima indicazione: “nel mercoledì della prima Domenica”. Non si tratta tuttavia di due varianti di una stessa orazione, e la citazione posta nel thema dell’omelia segnata con il numero IV, tratta dal passo di Matteo che narra l’episodio della Cananea, ci conduce in realtà al giorno successivo, il giovedì della prima settimana(4). […] Ben nove delle undici omelie muovono dal commento di passi tratti dal vangelo di Matteo, conferendo all’intera raccolta il carattere unitario di una riflessione ispirata a quel testo sacro; gli altri due sermoni vengono invece introdotti da proposizioni giovannee. Un forte rigore formale caratterizza l’orazione 1, che si è identificata come riflessione della giornata delle Ceneri: ordinata e schematica, priva di correzioni, in elegante calligrafia, è suddivisa in quattordici paragrafi ed è accompagnata da un foglio di chiusura nel quale sono riassunti in quattro punti i nodi fondamentali del sermone e vengono riportate citazioni latine di Agostino e della Lettera a Tito. Mano a mano che la raccolta procede l’attenzione formale si allenta e solo le omelie 2 e 3 contengono una distribuzione in paragrafi, con una divisione rispettivamente in ventiquattro e sedici capoversi; mentre il foglio sparso, erroneamente segnato dal vecchio archivista con l’indicazione X, appare come un abbozzo incompleto di epitome alla omelia 2, dello stesso genere riscontrato per lo scritto 1. Tutti gli altri testi appaiono meno curati sotto il profilo formale, privi degli strumenti di lettura su evidenziati e, a partire dal sermone 5, gravati da correzioni, tagli e aggiunte che lasciano adesso trasparire una maggiore frettolosità, una diminuita attenzione alla leggibilità del testo e, probabilmente, all’intera fatica; è probabile che l’aumento degli impegni didattici e le prime infuocate dispute teologiche abbiano spostato lentamente l’interesse dello Spedalieri verso altri obiettivi, facendo mancare al Quaresimale la cura prima ricevuta e condannandolo, forse, all’incompiutezza. Va rilevato come l’undicesima omelia resti nel suo interno interrotta dallo smarrimento di almeno un foglio. Tutti i testi in nostro possesso recano, nello spazio bianco lasciato a margine di ciascun foglio, numerose annotazioni di carattere bibliografico. Si tratta in genere di indicazioni dei luoghi scritturali o patristici delle citazioni poste nel testo, oppure di estese riprese dei passi accennati nel discorso.
Le citazioni di autori cristiani riguardano soprattutto l’epoca patristica, con brani di Tertulliano, Gerolamo e soprattutto Agostino; rare le apparizioni dei Dottori e dello stesso Tommaso. I manoscritti in nostro possesso presentano caratteristiche di grafia e punteggiatura proprie dell’epoca in cui furono scritti, con un’anarchia linguistica inevitabile nella Monreale del Settecento, lontana dai centri del volgare italiano dell’epoca e immersa nella stagione di reviviscenza classica voluta da monsignor Testa nell’ordinamento del suo seminario.(5) Dal punto di vista grafico risaltano le maiuscole che compaiono numerose nel testo; avverbi come perché, poiché, conciossiaché ed altri appaiono privi dell’accento acuto; manca in generale un’uniformità ortografica e per molti termini sono documentate lezioni diverse. La punteggiatura risulta disordinata, mentre l’uso dei due punti e del punto e virgola sembra spesso confondersi, senza evidenziare un ruolo ortografico delineato.
Un secolo e mezzo di oscurità
Dagli sporadici accenni dei primi decenni
dell’Ottocento alle tracce che informano sulla
presenza delle carte spedaleriane nel collegio di
Bronte trascorrono cento trenta anni.
Una lunga
ombra di silenzio avvolge il destino del
Quaresimale, ancora più sconcertante quando si
considera lo strano disinteresse di quegli studiosi
che con metodicità si interessarono al suo autore.
Sul percorso compiuto dalla raccolta di sermoni dopo
la partenza per Roma dello Spedalieri abbiamo
qualche informazione certa(6): essa entrò in possesso
del sacerdote brontese Carmelo Politi, il quale da
Monreale si trasferì presto a Bronte come insegnante
del novello istituto là fondato da un intraprendente
ecclesiastico del luogo, Ignazio Capizzi(7); l’ipotesi
più plausibile è che, morendo, il Politi abbia
lasciato le sue carte in Collegio, e che tra di esse
vi fosse quel Quaresimale che noi, appunto in
quella biblioteca, ritroviamo.
Naturalmente non è
possibile scartare l’ipotesi di un giro più lungo,
che vedrebbe le prediche passare di mano e seguire
strade misteriose, sinché esse sarebbero giunte in
Collegio, magari attraverso qualcuna delle cospicue
donazioni librarie e documentarie che in questo
secolo hanno visto beneficiaria la biblioteca
dell’istituto.(8)
Comunque sia andata, è indubitabile che le nostre
carte fecero presto il loro ingresso a Bronte,
rimanendo circoscritte nell’ambito ristretto dei
luoghi e dei personaggi della cultura locale.
Stupiscono perciò le omissioni degli studiosi
brontesi che si sono in vario modo interessati di
storia locale.(9)
Particolarmente sospetto appare poi il silenzio di
Giuseppe Cimbali, il confuso e velleitario
erudito brontese che, nello scorcio del secolo
scorso, si fece banditore di un chiassoso progetto
di riscoperta dell’illustre concittadino.(10)
Nella sua
attività di ricerca, il Cimbali, appartenente ad una
famiglia di fresco notabilato locale, ebbe agio di
visitare la biblioteca del Collegio e di scoprirvi
un fondo archivistico all’interno del quale erano
custodite lettere dello Spedalieri a familiari e
conoscenti(11); nessun cenno viene fatto delle carte
quaresimali, che noi oggi ritroviamo nello stesso
archivio, l’esistenza delle quali non poteva essere
ignota allo stesso Cimbali, che in una occasione si
trova a citare il brano di Biagio Caruso nel quale
si accenna alla raccolta omiletica(12).
Né del resto è
altrove documentato l’interesse a rintracciare e
recuperare questa interessante e inedita collezione
di carte; circostanza tanto più strana se si pensa
alla ostinazione di un personaggio altre volte colto
a visitare biblioteche pubbliche e private di tutta
Italia(13).
Si potrebbe allora pensare ad una volontaria
omissione da parte di uno studioso come il Cimbali,
il quale, impegnato ad accreditare uno Spedalieri
campione del pensiero liberale, modernamente laico,
per questo addirittura in odio presso gli ambienti
filoclericali della sua epoca, avrebbe letto con
imbarazzo scritti di carattere pastorale nei quali
prende corpo l’immagine di un pensatore senza
margini di ambiguità, impegnato nella difesa dommatica e tradizionale della religione con
l’utilizzo di argomenti non di rado retrivi; un
pensatore volto, soprattutto, al radicamento della
centralità dell’istituto ecclesiastico, la cui
mediazione si ritiene necessaria ai fini della
salvezza ma anche del corretto vivere civile e del
mantenimento dell’ordine nello Stato.
Del resto, già la lettura de I Diritti dell’Uomo
compiuta dal Cimbali, enfatizzando quegli
aspetti del pensiero spedaleriano che riportano gli
ideali della modernità rivoluzionaria nel tronco
essenziale della dottrina evangelica, è costretta a
porre una parentesi su quegli aspetti complementari
che conferiscono alla Chiesa cattolica il ruolo
portante nell’asse dei nuovi equilibri politici
affacciatisi all’indomani degli sconvolgimenti
francesi.
I caratteri
La diffusione di collezioni di omelie risale
sino ai tempi di Carlo Magno, epoca nella quale è
già possibile imbattersi in raccolte di prediche
quali quella di Rabano Mauro “ad legendum vel ad
praedicandum” concepita(14).
Sarà però la fatica
francescana e domenicana a consolidare la
predicazione in genere letterario dallo schema e
dalle regole definite; fioriscono così le Artes
praedicandi, autentici manuali per la
composizione di prediche nei quali vengono
codificati i canoni fondamentali del Sermo
Modemus, la cui elaborazione gira attorno al
thema, il versetto biblico posto all’inizio del
testo, e i cui riferimenti scritturali vengono
riuniti nelle concordantiae, strumenti
fondamentali per la prima volta raccolti a Parigi
dal domenicano Hugues de Saint-Cher tra il 1230 e il
1235(15).
Il periodo controriformista incide anche sul
carattere della predicazione, che ora perde il suo
carattere di eccezionalità, spesso di esercizio
retorico tra appartenenti ad ordini diversi,
entrando tra i compiti ordinari del parroco che in
tal modo spiega il vangelo; accanto ad esso però
sorgono delle figure ecclesiastiche specializzate,
che iniziano a sciamare per le varie chiese europee
curando quelle “missioni” che costituiscono una
delle componenti più specifiche della religiosità
cattolica moderna.
Il gesuita Paolo Segneri rappresenta uno dei modelli
più celebri e riconosciuti di tale temperie
spirituale e culturale.
I temi dell’attività
predicatoria di questa epoca variano seguendo la
dislocazione geografica delle turbolenze religiose,
culturali e morali del Seicento e del Settecento.
Le
zone poste ai confini con le aree di diffusione
protestante conoscono così una predicazione
catechetica, volta a rafforzare la coscienza
cattolica di popolazioni esposte al contatto con
ambienti riformati; le omelie gesuite della
“Provincia neapolitana” preferivano invece “ ...
argomenti morali e cercavano di indurre gli
ascoltatori a confessarsi, con argomenti come la
mostruosità del peccato, la morte imminente, le pene
dell’inferno”(16).
Il Quaresimale composto dal giovane
Spedalieri negli anni dell’insegnamento monrealese,
in un ambiente fortemente intriso di cultura
gesuitica(17), riprende il carattere penitenziale della
tradizione ignaziana meridionale, immettendosi
scolasticamente all’interno di un filone nel quale,
se emergono i temi fondamentali della coscienza del
tempo - le ingiustizie della società e della
economia, lo scetticismo religioso, il razionalismo
illuminista - mai tuttavia si riscontra la capacità
di penetrare il senso dei profondi mutamenti che
interessano il Settecento.
Il Quaresimale di Nicola Spedalieri non
rivela così l’acutezza dell’interprete consapevole
del suo tempo; esso mantiene piuttosto un carattere
retorico, esercitazione scolastica in un genere
abitualmente frequentato dalla letteratura gesuitica
ed ultimamente nobilitato, proprio nel meridione
d’Italia, dall’attività intensa ed affascinante di
Alfonso de’ Liguori.
Ad accentuare l’ispirazione
retorica dello scritto vi sono poi le peculiarità
della formazione ricevuta dallo Spedalieri nel
seminario di Monreale, in un ambiente riscaldato da
dispute infuocate, nel quale la ricerca
intellettuale si esalta in occasione di agoni
dialettici puntualmente organizzati, e nel quale lo
stesso Spedalieri ebbe modo di mettersi in mostra in
una accesa controversia che oppose lui, monrealese e filogesuita, al benedettino palermitano Evangelista
di Blasi; qui lo scrittore brontese maturò quel
carattere polemico, controversistico, confutatorio
che impresse in molte opere della sua attività
romana.
Scorrendo le pagine del Quaresimale è allora
possibile riscontrare numerose evidenziazioni del
carattere retorico che informa lo scritto; proprio
qui anzi è possibile individuare le più chiare
irruzioni dello Spedalieri nel testo quando,
abbandonando la forma apologetica e parenetica del
discorrere, l’autore si ferma a compiacersi della
sua abilità dialettica, comunicativa: “ ... se io
non vi proverò ad evidenza la necessità di questo
distacco dalla terra e da tutto ciò che più ci
alletta, abbiatemi per un ciarlone, per un
ignorante; privatemi dell’onore di poter parlarvi di
nuovo in questo luogo; se poi giungerò a
convincervene, non tocca a voi pigliare le più
giuste risoluzioni?”(18).
E non di rado l’accenno alla
propria persona diviene enfatico: “Voi Uditori ...
non vi mettete in altra pena, che d’ascoltarmi:
parlerò io per voi ... e se non bastano ancora gli
argomenti son pronto ancora a difenderla col
sangue”(19). O ancora: “ ... pensando al Giudizio
palpito, fremo, sudo freddo ... ah quale sarà la mia
sentenza ... e non debbo spaventarmi, e non mi si
debbono arricciare i capelli ...”(20).
Il tono retorico dello scritto si rivela nel
compiacimento letterario delle immagini, delle
descrizioni, nel costante scivolamento verso
l’icastico, l’iconico.
Il gusto è multiforme, e il
futuro Melanzio Alcioneo dei circoli romani
dell’Arcadia sceglie ora sfumature tenui, leggere,
rappresentando i poveri angariati dai ricchi: “ ...
non ci molestate, non c’insidiate quel poco, che ci
guadagnamo co’ nostri sudori”; sempre i poveri: “
... implorano la vostra pietà, aspettano il vostro
soccorso; e forse nol meritano? Con quanta reverenza
vi stanno davanti, con quanta sottomissione vi
parlano ... E quando la morte rapisce loro un di
questi Benefattori, infelici come alzan le grida,
come si strappano i capegli, come si graffiano il
volto, come lo seguono sin al sepolcro!”(21).
Le metafore paesaggistiche rendono ancora di più il
gusto melenso del Settecento letterario: l’ostinato
lontano da Dio è, per esempio, “ ... come un
ruscello che distaccato dal materno fonte, si va a
perder tra’ sassi; è come un ramo che svelto dal
tronco s’inaridisce; è come un figliuolo diseredato
e cacciato via dal Padre, che va incontro alla
miseria”(22).
Accanto a queste atmosfere delicate,
arcadiche, convivono però toni forti, addirittura
macabri, nei quali l’artificio del predicatore cerca
la facile suggestione.
A volte l’ombrosità delle
tinte cerca di muovere compassione verso i deboli e
i poveri: “Mirate que’ cenci ... quelle ruvide e
nere carni, quell’ossa spolpate ... quelle mani
incallite al travaglio, que’ volti squallidi e
minuti ... Voi avvolti tra l’ostro e il bisso, e
quest’ignudi!”(23); altre volte la durezza del richiamo
carica la forza della scena, come quando si descrive
la vita del soldato: “ ... i gemiti, le grida de’
moribondi sono pe’ soldati incentivi di nuove
straggi”(24).
E’ però nel dipingere le pene
dell’inferno, e nella rappresentazione non meno
fosca del giorno del Giudizio, che nello Spedalieri
alita lo spirito più macabro.
Ecco come, nel corso
della settima omelia, viene immaginata la
resurrezione dei corpi: “ ... tutte le ossa correre
ciascuna al suo capo, eccole coverte a poco a poco
di pelle, rammmarginate le piaghe, scossa la muffa
...”(25).
Qui emerge però l’aspetto complementare e
assolutamente fondamentale della fisionomia
letteraria dello scritto spedaleriano: l’uso degli
strumenti retorici ha in sé la determinazione di
catturare il timore e perciò la fede
dell’ascoltatore.
Spulciando qua e là nelle pagine
del Quaresimale ci si imbatte più volte nella
consapevolezza dell’autore circa l’efficacia
penitenziale delle immagini più crude: “Basta agli
Uomini che si parlasse loro d’Inferno per ascoltarvi
colla più bella pace del Mondo ...”(26).
Il carattere
letterario dello scritto non contraddice insomma la
volontà parenetica, religiosa, moralistica della
predicazione. Sarebbe dunque sbagliato liquidare
queste inedite orazioni sacre spedaleriane come
fossero un esercizio puramente retorico,
dimenticando le peculiarità di formazione e di
professione dell’insegnante in uno dei più
prestigiosi luoghi della cultura siciliana del
Settecento, e le stesse caratteristiche del
seminario monrealese, che la riforma voluta dal
nicosiano Francesco Testa aveva indirizzato verso un
neoumanesimo retorico e classicheggiante.
I due
piani, letterario e religioso-parenetico, compongono
così un difficile equilibrio che viene alla
superficie nelle non rare apparizioni della passione
e della partecipazione dell’autore(27).
In definitiva,
questa esercitazione retorica del giovane
Spedalieri, pur rimanendo tale, rappresenta nella
cultura umanistica della Monreale dell’epoca
l’approccio privilegiato con la sensibilità e con la
religiosità, anche popolare, del tempo. […]
Conclusioni
Tra le ambiguità che si sono sottolineate nella
logica della discussione dei temi quaresimali si è
finora, volutamente, sottaciuta quella che
nascerebbe dal primato del cuore sull’intelletto: “
... non già che la corruzione del cuore proceda
dalla cecità dell’Intelletto; ma la cecità
dell’Intelletto procede dalla corruzione del cuore”(109).
Qui Spedalieri riprende il tema della
impossibilità di una conversione puramente
intellettuale; perciò condanna la pretesa degli
scettici del tempo: “Povera religione che per essere
esaminata si dee prostrare al Tribunale ... di certi Uominicciuoli ridicoli per l’ignoranza, dispregevoli
per corruzione de’ costumi ... ; costoro per aver
letto qualche Romanzo o Comedia, passandosela la
notte in seno alle meretrici, il giorno co’ bricconi
osano passare per Uomini dotti”(110). Lo stesso clero ha smarrito l’irreprensibilità dei
costumi, il predicatore non lo nasconde, tuttavia “
... le labra de’ sacerdoti sono le depositarie della
scienza divina”(111). La Rivelazione, che Dio media al popolo attraverso
la Chiesa, sottrae il clero dal rischio di una
visione annebbiata della verità. Il popolo però,
corrotto nel cuore e perciò cieco nella ragione,
come può accostarsi al cammino penitenziale di un
ciclo quaresimale quando le verità del credo
cristiano vengono sostenute con gli argomenti
dell’intelletto?
Bisogna insomma comprendere come conciliare
l’istanza apologetica con lo strumento predicatorio,
la difesa del credo cristiano con l’intento
penitenziale, la ragione con la parenesi. Nella soluzione di questa apparente ambiguità la
concezione spedaleriana recupererà una sua unità e
una dignità insieme intellettuale e religiosa.
Abbiamo già evidenziato come la stesura del
Quaresimale presupponga la consapevolezza di
alcuni concetti suareziani: l’intelletto ha la
capacità di conoscere l’oggetto della Rivelazione;
solo la grazia può trasformare questa conoscenza in
conversione di fede. Spedalieri sviluppa un ragionamento di questo tipo:
con la colpa originale l’uomo ha perso la
possibilità di vedere la verità, per ciò Dio ha
supplito con la Rivelazione; questo però non
pregiudica la razionalità dell’universo e dunque la
possibilità che un corretto uso della ragione possa
giustificare, con un cammino per così dire a
ritroso, la verità rivelata. Così facendo l’abate brontese distingue due usi
della ragione: quello illuministico, che ha la
pretesa di spingere la ragione verso la ricerca
pura, dimenticando come il peccato abbia offuscato
la corretta visione dell’intelletto umano; quello
religioso, che ammette la conformità della ragione a
Dio, ma considerando gli effetti del peccato,
delimita lo spazio dell’intelletto incaricandolo
della deduzione di argomenti che giustifichino la
razionalità delle verità della rivelazione. La filosofia è insomma apologetica, non teoretica.
La difesa delle verità cristiane, che la tradizione
settecentesca interpreta come riflessione sui
fondamenti della teologia, viene assunta dal giovane
Spedalieri come l’unica via aperta alla riflessione
filosofica dell’uomo. Questo non spiega ancora il ruolo della ragione
apologetica nella specificità di ispirazione e di
intenti di un ciclo di sermoni quaresimali, che
hanno la ragion d’essere nell’obiettivo di aprire
alla penitenza e alla conversione. Come Suarez, anche Spedalieri è convinto che
l’intelletto umano resti impotente di fronte a quel
salto che è l’abbraccio della fede(112); pur nelle
incertezze di una debole teoretica, lo scrittore
siciliano evidenzia il ruolo preponderante della
grazia, la cui azione appare al nostro meno
invisibile che al teologo gesuita, identificandosi
in gran parte (eccezionale si rivela il dovere di
riprensione dell’amico) con le mediazioni
sacramentali e pastorali della Chiesa. Tra queste,
lo Spedalieri del Quaresimale e del Fréret
sottolinea la radice addirittura evangelica del
ministero della predicazione, ai cui effetti Cristo
esplicitamente sottomise il raggiungimento della
salvezza(113). L’esercizio quaresimale del giovane
docente monrealese acquisisce allora una nuova dimensione:
oltre alla innegabile fisionomia retorica e scolastica,
oltre alla fondamentale ispirazione apologetica, l’attività
oratoria del predicatore diventa strumento privilegiato di
grazia, canale appositamente scavato da Dio nella sua
preoccupazione di raggiungere l’intimità del singolo. La
predicazione trasfigura con la forza di un contatto, che
però Spedalieri non vede mai come irresistibile, restando
sottomesso, pur con qualche ambiguità, ad un atto di
volizione, di accettazione individuale della fede. Così la
predica che parla all’intelletto non può non diventare
apologia, fondazione della verità della fede nella
razionalità dell’ordine voluto da Dio; ma questo non
contraddice l’obiettivo parenetico e neppure quello retorico
della pratica oratoria, laddove lo strumento letterario
serve ad uno scopo educativo e questo apre la via di accesso
all’inserzione del divino nell’uomo. In questa
prospettiva, il Quaresimale
spedaleriano, con tutti i limiti di un argomentare
giovanile incerto ed eclettico, assume una unitarietà
complessiva nella quale trovano sistemazione, secondo una
adesione a temi scolastici abbastanza personale, ispirazioni
diverse di carattere retorico, parenetico, apologetico,
religioso. L’organizzazione progressiva di questi spunti
disparati costituirà, a nostro parere, il senso della fatica
intellettuale del periodo romano, quando lo scrittore
siciliano irrobustirà il nerbo di una vocazione apologetica,
conferendo vigore morale e politico ad un’opera che
conoscerà nell’Italia di fine Settecento un rilievo
effimero, ma indiscutibile. [...] |