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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

Le carte, i luoghi, la memoria

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I Gallinelli

Ricordo-omaggio a Maletto

In primis devo dire che intanto avrei dovuto intitolare Le Gallinelle perché intendo parlare di due donne, ma, come ormai è noto, nel dialetto brontese esistono simili anomalie e, quindi, andiamo avanti: queste due donne, malettesi, di età imprecisata, ma tale, in quel periodo, da farle considerare vecchie, furono le padrone di casa della nostra famiglia. Ma perché venivano indicate con questa “ingiuria”?

Il nostro essere è il nostro passato.
E solamente col passato è possibile giudicare le persone.
Oscar Wilde 

Esattamente non lo so, ma penso che sia dipeso dal fatto che, fin da ragazze, stavano sempre in mezzo alla strada a “razzolare” come questi pennuti che allora, di giorno, venivano lasciati all’aperto in cerca di cibo. (Giorgio Luca precisa che “I Gallinella” è un soprannome di famiglie ancora presenti a Maletto.)

Nel periodo 1923/1926 mio padre, maestro elementare, dopo avere insegnato prima al Capizzi di Bronte, poi a Scordia, fu mandato a Maletto, dove restò parecchi anni, prima di passare a Randazzo e poi definitivamente a Bronte.

La nostra prima casa, in coabitazione, fu appunto quella delle suddette due sorelle, Giuseppa e Grazia Di Martino, che si trovava nella parte alta della via Roma n. 30 che iniziava davanti al vecchio Municipio (palazzo Spatafora sec. XVI) e accanto “o scricciu” che era l’unica fontana del paese. La casa esiste ancora, ma è indicata col n. 38, ed è quasi uguale ad allora.

“Queste notizie, riferisce Giorgio Luca, mi sono state fornite dalla nipote delle suddette sorelle, Putrino Agata, nata nel 1909, di memoria lucidis­sima, che si ricorda molto bene del maestro Lupo e della sua famiglia, quando abitavano dalle zie.” Ed io, per tutta la famiglia Lupo, ringrazio la simpatica Signora Agata e Le faccio tanti complimenti per il Suo primo centenario e i migliori auguri per il secondo.

Maletto ha una caratteristica particolare: a differenza di tutti i paesi i quali sorgono ai margini di una strada la quale li collega ad altri centri abitati (ricordo che da ragazzo, quando si andava a Catania con l’automobile di rimessa, si attraversavano Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia, Paternò e Misterbianco, e se era festa o l’ora di punta, quando i contadini andavano in piazza per cercare l’in­gaggio per il giorno dopo o per incontrare gli amici, era un problema passare in mezzo a quella folla la quale stava in mezzo alla strada e non sui marciapiedi, che spesso erano stretti o non esistevano affatto) era costruito su una breve derivazione della strada provinciale Adrano – Randazzo, (ora statale 284 ) alla cui imboccatura c’era e c’è ancora il Cimitero.

Esso che contava 3735 ab. (Censimento 1921) in quel periodo era un paesino poverissimo, scarso di acqua che sgorgava lentamente da un unico tubo proveniente dalla collina, e davanti al quale era sempre assembrata una folla di donne, di giorno, e di uomini, la sera e la notte, i quali, ignari della precedenza, se la contendevano con la prepotenza che spesso finiva in baruffe furibonde durante le quali volavano non solo parolacce, ma anche i pesanti barili che attendevano di essere riempiti.

Non c’era illuminazione pubblica e la sera ci si accompagnava con i vecchi lumi a petrolio, usati comunemente dai carrettieri. Le strade non erano pavimentate, tranne alcune centinaia di metri della via principale intitolata a Umberto I, la quale iniziava dal molino Bonaccorsi, che era all’angolo della via Fiorini che porta alla Chiesa Madre, piegava a destra, dove nell’angolo c’era (e c’è ancora) una grande croce di ferro, (a Santa Cruci) e finiva, in piano, proprio al Municipio.

La poca pavimentazione era caratteristica perché era formata da basole rettangolari di circa cm. 70 x 30, messe a distanza l’una dal­l’altra per evitarne le scivolosità.

Non c’era una piazza, l’antica “agorà”, dove avvenivano gli incontri sia politici che commerciali e sociali: l’unico luogo di aggregazione, come detto sopra, era davanti “o scricciu” e non per socializzare.

L’economia era parzialmente agricola e prevalentemente pastorale e i suoi addetti non riuscivano a legare il pranzo con la cena; tanto che esisteva il malevolo detto che i Malettesi mangiassero “zubbi”, cosa che li faceva andare in bestia e provocava spesso litigi e inimicizie. Il significato di questo vocabolo, che risultava offensivo per le reazioni prodotte, non mi fu perfettamente noto se non di recente, anche per merito del prof. Longhitano, botanico dell’Università di Catania, come risulta dal Vocabolario brontese.

Le due macellerie esistenti non avevano neppure carne di vitella, per mancanza di clienti, i quali consumavano prevalentemente carne ovina, suina o pollame, oltre la selvaggina.

In quel periodo la scuola (si fa per dire!) era ubicata in una casa privata, perché non esisteva edificio scolastico, nella traversa di Corso Umberto che si imboccava attraverso un sottopas­saggio, chiamato “sutta u campanaru” (fornice del ‘500) ora via S. Michele, e me la ricordo in modo particolare perché nel 1924 vedevo mio padre dirigere il Coro del Nabucco “Va’ pensiero!”, cantato dalla scolaresca mista di ragazzi e ragazze, e il cui significato mi fu chiaro molti anni dopo: infatti quell’anno fu ucciso dai fascisti il deputato Giacomo Matteotti, e mio padre, socialista, protestava in quel modo.

Ancora adesso, quando sento quella musica e quel canto, provo una commozione intensa perché mi ricorda mio padre e le peripezie che subì in seguito (vedi Il mio1943).

Ma quell’aula, per fortuna, mi ricorda anche un gesto gentile: una ragazzina la quale abitava proprio davanti alla scuola, quando arrivavo io (di cinque o sei anni) chiedeva di andare fuori e tornava con un uovo che mi offriva e che mio padre mi faceva succhiare, seduta stante, col metodo dei due forellini di spillo, uno sopra e l’altro sotto dal lato più lungo.

Maletto dipendeva in gran parte da Bronte, perché questo era “mandamento” e pertanto aveva uffici, come quello del registro, la Pretura e, quindi il carcere, oltre le scuole superiori accentrate nel Collegio Capizzi, e magazzini più forniti.

L’unico mezzo pubblico di trasporto era il trenino della Circumetnea, ma la maggioranza andava a piedi, percorrendo i sei Km. ai bordi della strada bianca, molte volte scalzi con le scarpe a tracolla, per risparmiarle, e calzandole all’ingresso del paese.

Anche la scuola dipendeva dalla direzione di Bronte, retta in quel periodo dal Direttore Talamo, rappre­sen­tato in loco da mio padre, unico maschio tra tante maestre, quasi tutte forestiere. Ricordo che per la Pasquetta gli alunni delle due scuole si incontravano sullo spiazzo che c’era a metà strada, presso la Rocca Calanna, in corrispondenza della “trazzera” per Maniace, dove si faceva festa, consumando le tradizionali “culluri” e cantando e giocando.

Altre passeggiate si facevano verso “Funtana Murata” dove c’era (e c’è ancora) un abbeveratoio per gli armenti e che serviva anche alle donne del paese per lavare i panni, quando era bel tempo.

La coabitazione dalle “gallinelli” durò almeno un anno e, malgrado la necessaria promiscuità, fu una ospitalità squisita, perché le due sorelle erano premurose e talmente discrete che sembravano esse le ospiti e non le ospitanti. E poi avevano cura di noi ragazzini quando nostra madre era impegnata in altre faccende.

Ricordo che una volta mia madre con gli altri fratelli era andata a Bronte ed io ero rimasto solo con le si­gnore in attesa che mio padre si sbrigasse con la scuola e insieme potessimo andare anche noi.

1933: Il maestro Antonino Gaetano Lupo con una sua classe. «Egli, - scrive il figlio Nicola - come quasi tutti i Lupo di Bronte, era socialista».


  

Il Castello ed il paese di Maletto in due foto dei primi anni del 1900 (gentil­mente concesse da Giorgio Luca).

 

Maletto oggi e, sotto, la sua posizione che, a differenza di Bronte, lo ha sempre riparato della eruzioni dell'Etna.

Quel giorno, però, c’era un tempo da lupi, pioveva a dirotto e la strada in discesa si era trasformata in un torrente, perciò mio padre cercò in tutti i modi di convincermi a restare con le nostre ospiti in attesa del suo ritorno con la mamma e i miei fratelli. Io fui irremovibile e, senza ascoltare le signore che mi pro­mettevano tante cose e continuando a piangere, costrinsi mio padre a portarmi con sé, ma per tutta la strada dalla casa alla stazione egli, per non farmi bagnare e per fare presto, dovette portarmi tenendomi sollevato per un braccio perché con l’altra mano portava una valigia. In treno ci calmammo sia io che papà, ma per me fu uno choc indimenticabile.

A fine anno 1925 nacque a Bronte mio fratello Elio, quarto figlio maschio, e anche lui fu portato a Maletto, dove nel frattempo mio padre aveva trovato una nuova sistemazione sia abitativa che scola­stica. La casa era ubicata nella prima traversa a sinistra (allora via La Piana, ora Via Marconi) di via Roma, dietro “o scricciu”, e vi si accedeva da una lunga e ripida scala esterna che portava ad una grande terrazza dalla quale si vedeva il Castello.

“Questa casa, riferisce sempre Giorgio Luca, era dell’Avv. Gaetano Petrina, noto personaggio politico locale andato ad abitare ad Acireale nel 1919/20. La parte prospiciente sulla via Marconi esiste ancora com’era negli anni ’20, come pure la scala esterna di pietra. Quella prospiciente sulla Via Spatafora, invece, è stata trasformata.”

Sulla terrazza si aprivano due porte le quali immettevano in due grandi stanze comunicanti, mentre il resto della casa si sviluppava dietro ad esse con altre tre stanze, cucina e servizio, che sporgevano, a piano rialzato, su Via Spatafora parallela a quella di entrata, con un grande balcone – finestra.

Questo grande appartamento, che consentiva alla nostra, ormai numerosa, famiglia autonomia e como­dità, fu adattata in gran parte a nostra abitazione, trasformando il balcone-finestra in porta di accesso che diventava più comodo perché si evitava la scala, mentre una delle stanze dell’ingresso principale fu adibita ad aula scolastica: così mio padre faceva, come si dice, “casa e bottega”, anche perché egli, oltre alla classe della mattina, aveva la classe serale per i lavoratori i quali volevano recuperare l’istruzione che non avevano ricevuto a tempo debito.

A proposito di questa classe, frequentata da giovani contadini e pastori, mio padre dovette risolvere due problemi: quello della disciplina e quello dell’igiene personale, la quale era deficitaria sia per la carenza di acqua che di tempo; per il primo stabilì che, entrando in classe, ognuno doveva mettere l’inseparabile bastone in un angolo, per evitare che in un possibile diverbio qualcuno potesse ricorrervi; per il secondo, una sera che pioveva, mio padre si fece portare da mia madre asciugamano e sapone e obbligò i suoi alunni a lavarsi. a turno, sotto l’acqua della grondaia.

Molti anni dopo, io e mio fratello Nino, andammo, dalla nostra villetta della Cisterna, verso la Musa per una gita, con lo scopo di far cola­zione a base di ricotta presso lo stazzo di qualche pastore; evidentemente ci eravamo spostati nel territorio di Maletto, dove vedemmo uno stazzo abbastanza invitante: data voce affinché i cani ci permettessero di entrare, ci trovammo in un capanno parti­colarmente ordinato e pulito, anche se il pavimento era in terra battuta.

Il pastore, il quale stava facendo la ricotta, ci accolse molto garbatamente e ci fece accomodare su due “furrizzi” accanto a una “buffetta” e ci servì la ricotta calda e pane di segale, che era la specialità del paese. Ai nostri ringraziamenti per l’ospitalità e ai nostri complimenti per l’ordine e la pulizia della sua capanna, egli rispose che essi gli erano stati inse­gnati da un certo Maestro Lupo che aveva insegnato nel suo paese; a quelle parole noi, commossi, rispondemmo che eravamo figli di quel maestro: allora le cerimonie del pastore furono raddoppiate e ci lasciammo con la promessa che saremmo tornati a trovarlo, ma poi il nostro desiderio e la nostra promessa non poterono essere realizzati e mantenuti.

La nostra nuova casa, con l’apertura della porta-balcone sulla via Spatafora ci mise a contatto con tanti vicini fra cui la famiglia del Parroco (il Vicario Sac. Antonino Portale, morto nel 1923), la quale abitava proprio davanti a noi; un’altra famiglia di contadini la cui figlia, Maria, faceva le ostie per la Chiesa, e noi ragazzini andavamo a vederla lavorare e mangiavamo i ritagli delle ostie. In seguito, però, la ragazza ebbe una disavventura e cambiò mestiere e divenne “Maria ‘a fillittara” (Vedi i miei Fantasmi).

Ma la famiglia con la quale diventammo intimi fu quella di Nina “‘a criana” che aveva una giovane e bella figlia di nome Maria; il sopran­nome le era stato dato perché era originaria di Ucria, sui Nebrodi, in provincia di Messina, ma il loro cognome era Saitta.

Queste due donne erano sole perché la mamma era vedova e l’unico figlio maschio, Nino, era andato a Trieste, dove fece carriera nella Milizia fascista, ma poi trovò la morte per mano dei Titini iugoslavi e finì molto probabilmente nelle foibe carsiche. Esse, che abitavano proprio accanto alla nostra casa, si affezionarono a noi, tanto che chiamavamo la signora “mamma Nina” e stavamo quasi sempre insieme, perché erano disponibili, servizievoli e affettuose.

Mamma Nina era piccolina e tutta pepe, in continuo movimento e instancabile; la figlia, bella ragazza in fiore, era allegra e sorridente, special­men­te dopo avere trovato in noi una seconda famiglia che la completava.

Nell’inverno del 1926, in cui nevicò tanto e fece tanto freddo che l’acqua ghiacciava subito in modo da formare una specie di stalattite, mio fratello Elio, il nuovo arrivato, fu molto malato perché era nato gracilino, ma lo salvò il giovane Dottore Nunzio Schilirò (Ufficiale Sanitario e medico di tutti per oltre 40 anni, Podestà 1930/32) il quale veniva anche più volte al giorno e lo pesava spesso con la bilancia a molla che usavamo in cucina.

Le sue cure furono così amorevoli e proficue che gli restammo grati tutti per tutta la vita. Egli poi sposò una Lombardo di Bronte, (lau­reata in Lettere, Sindaco di Maletto 1952/56, uno dei primi Sindaci donna, se non il primo della Sicilia ) nipote di Padre Vincenzo Schilirò, e uno dei suoi figli, Emilio, mi è stato molto utile per la scrittura del mio Vincenzo Schilirò – educatore e letterato, pubblicato in questo sito.

Il Loggiato in una foto dei primi anni del 1900 (da Michele Luca)Maria “‘a criana”, cresciuta, sposò il giovane fabbro Turi “u malpassotu”, perché di Belpasso, e andò ad abitare in un appartamento ubicato sulle logge che si trovavano sul Corso davanti al vecchio Municipio. (L’antico loggiato del sec. XVII è stato demolito, perché pericolante, a metà degli anni ’60 e sostituito con orribili pilastri di cemento).

Il marito, mentre cercava di disinnescare una bomba, residuato dei tiri di artiglieria compiuti dall’eser­cito, negli anni 1937/’38, nelle campagne circostanti Maletto, per ricavarne il ferro, saltò in aria dilania­to dall’inatteso scoppio, assieme al ragazzo che lavorava nella forgia. E Maria restò sola e sconsolata per diversi anni, ma in seguito conobbe un giovane brontese, tenente dei Carabinieri, che sposò, previo consenso dei miei genitori, e con il quale si rifece una nuova vita ma fuori del suo paese natale.

In paese, specie in quei tempi, i maggiorenti erano: il sindaco (1920/26), poi Podestà (1926/32), Salvatore Moraci, meccanico, il parroco, (Sac. Parrinello, Vicario) e dal 1928 il nuovo Parroco Antonino Schilirò (Antos), il maresciallo dei Carabinieri, il medico e il farmacista e anche il maestro, oltre qualche ricco terriero. Mio padre, quindi, faceva parte di questo gruppo e, perciò ebbe modo di fare amicizia anche con alcune famiglie oltre quelle citate.

Una di queste fu quella del farmacista Salvatore Zappalà; (don Turillu u spiziali): questi, accanito fuma­tore, essendo forestiero di Giarre , sposò una Bonaccorsi ed ebbe tanti figli, tre dei quali furono nostri compagni di scuola a Bronte, dove frequentarono il Collegio Capizzi.

Ciccio, compa­gno di mio fratello Nino, Natalino, compagno mio, e Vincenzino; il primo diventò farma­cista ed ereditò la farmacia, il vizio del fumo e non si sposò; Natalino si laureò in Legge e fu segretario comunale a Bronte, dove sposò una Reitano-Venia; Vincenzino diventò Medico e rimase a Bronte spo­sando una Interdonato; le femmine erano anche tre e io ricordo Mena la quale era quella che ci faceva maggiormente le feste quando andavamo a trovarli anche dopo la nostra partenza da Maletto; la seconda era Rosina e la terza Maria che aiutò in farmacia sia con il papà che con Ciccio e anche dopo, fino a circa 15 anni fa; di lei mi ricordo con grande rincrescimento un episodio: nel 1962: durante una mia breve visita a Bronte, mi aveva chiesto di andare a trovarla per chiedermi un certo parere: io promisi di andare quando mi sarei trovato alla Cisterna, ma non riuscii a mantenere la promessa ed ancora me ne dolgo.

C’era pure una quarta figlia, Teresa, nata nel 1929, che io non ho mai conosciuto.

Un ricordo particolare merita la signora Carmela, una Giunone, superattiva tanto che dopo una intensa giornata di lavoro, non andava a letto se non annaffiava le sue numerose e belle piante che abbellivano la sua terrazza sul retro, dove c’era una uscita di servizio che dava su Via Matri­ce, di casa Bonaccorsi, e sui balconi della Via Umberto; e l’acqua gliela portava dallo “scricciu” nei barili un uomo di fatica.

La nostra amicizia dura ancora: Natalino, che vive vicino Catania, lo sentii nel 1996 quando andai per la presentazione dei miei Fantasmi al Collegio Capizzi, dove, invece, venne a trovarmi Vincenzino, e fu un incontro breve, ma affettuoso a conferma della nostra consuetudine fin dall’infanzia.

L’amicizia fra le nostre famiglie cominciò con la collaborazione di mio padre alla tenuta della contabi­lità sia della farmacia che dell’esattoria comunale che gestiva il Farmacista. Infatti egli, per la sua bon­tà, si compenetrava talmente nella povertà diffusa dei compaesani che aveva ridotto le due aziende qua­si allo stato fallimentare, perciò mio padre lo convinse che, bontà a parte, bisognava rientrare dei crediti in modo da sanare la situazione finanziaria della famiglia; e nell’arco di qualche anno vi riuscì sen­za creare malumori tra la popolazione. Quell’amicizia, in seguito, fu rinsaldata dalla Cresima del primo­genito Ciccio da parte dei miei genitori con la relativa adozione del termine di compare e comare, usato anche da noi ragazzi.

Malgrado la munifica bontà del Farmacista ed Esattore Zappalà, però, nel 1943, anch’egli, dal povero Maletto, fu denunziato e mandato al campo di concentramento di Priolo (SR).

Poiché la comare Zappalà era, come detto sopra, una Bonaccorsi, divenimmo anche amici loro: il padre, Natale, gestiva il molino, il figlio France­sco aveva studiato e, diventato medico-dentista, si era stabi­lito a Casalpusterlengo (MI), ma tornava a Maletto in estate e provvedeva a met­tere a posto i denti di parenti ed amici; gli altri due maschi, Salvatore e Vincenzo era andati in altri paesi ed io non li ho cono­sciuti; delle tre donne Nunziata fu un personaggio politico locale, Rosa sposò Mario Carastro, brontese e amico della nostra famiglia, e la piccola, Annetta, bellissima con un occhialino a “pinz-nez” che le conferiva un’aria di particolare signorilità, sposò Liuzzo Antonino da Maletto e si trasferì a Roma.

Altra famiglia amica nostra fu quella dei Famà, i quali abitavano quasi accanto alla farmacia, che era unica, e il cui figlio “Minicu” fu alunno di mio padre e poi nostro compagno al Ginnasio Liceo del Collegio Capizzi; egli, il solo dei sette figli, (Francesco Paolo, Domenico, Antonio, Giuseppe, Nunziata, Maria e Nina) era riuscito a diventare Maestro, ma la domenica di Pasqua del 1941 morì in Albania, colpito alla fronte da un proiettile nemico.

Il dolore fu grande non solo per la famiglia, ma anche fra gli amici che lo avevamo apprezzato per la bon­tà e la simpatia.
Egli fu insignito, alla memoria, di medaglia di bronzo al v.m. e una delle tre sorelle, Maria, ottenne in seguito la concessione di una Tabaccheria che io ricordo ubicata accanto “o scricciu”.

A proposito del caro Minicu mi piace ricordare un episodio buffo: egli, quando studiava a Bronte, veniva a trovarci spesso e i miei qualche volta lo trattenevano a pranzo o a cena; una volta venne di pomeriggio per invitare qualcuno di noi giovani a fare una passeggiata; in attesa che ci preparassimo, mia madre, per la familiarità che esisteva con il nostro giovane compagno fin dall’infanzia, gli chiese: “Minicu, per favore mi terrestri questa matassa di cotone per farne un gomitolo?”

La disponibilità del nostro amico fu immediata e, messosi in piedi con gli avambracci protesi in modo da reggere la matassa, si adattò alla bisogna finché la stessa fu trasformata in un grosso gomitolo. Appena prima che l’operazione finisse, mia madre, con un sorriso a mo’ di ringraziamento, gli disse: “Minicu, u vo’ vìriri a l’ommu minchiuni? Quandu e fimmini ci teni u cuttuni!”. A questa frase inaspettata al posto del “grazie”, noi scoppiammo in una forte risata che, però, contagiò Minicu che lì per lì era rimasto interdetto e confuso.

Il padre, mastru Tellu, diminutivo di Pancrazio, era un falegname simpaticissimo e mi accoglieva sempre con una battuta che si riferiva alla mia loquacità; egli prima aveva la bottega nella stanza alla strada, poi, cresciuti i figli, si trasferì in un locale poco distante oltre la farmacia, dove io andavo a trovarlo perché mi piaceva seguire i lavori di falegnameria che era anche l’arte di mio nonno. Egli fu anche Consigliere Comunale in quegli anni.

Altri amici erano i Battaglia il cui figlio Don Semi, diminutivo di Samuele, era impiegato al Comune ed Assessore Comunale. Egli cercò di fidanzarsi con mia zia Ciccia, sorella di mio padre, ma il suo tentativo non sortì la conclusione desiderata forse per le esigenze di mia zia. Ma a questo proposito voglio raccontare un curioso episodio: una estate don Semi invitò la zia ad una gita al Flascio, località verso Ma­niace, dove avevano una proprietà; la comitiva era numerosa, ma mia zia volle un “cavaliere” di famiglia e portò me di sei o sette anni; il giorno ci divertimmo tanto che io la sera crollai dal sonno e mia zia mi mise in un grande letto in cui avrei dormito con due ospiti.

I grandi continuarono a divertirsi fuori fino a notte fonda e non sentirono le mie grida quando volli richiamare l’attenzione di mia zia per un impellente improvviso bisogno; alla fine, dopo aver gridato e pianto invano, “più del bisogno potè il sonno” e ripiombai nel sonno. La mattina seguente i miei due compagni di letto mi dissero, ridendo, che avevo fatto loro “la barba”, mentre mia zia, mortificata, mi faceva il bagno.

All’entrata del paese, dove la strada era quasi sempre dissestata per la frana, c’era la casa di Parrinello Vincenzo, altro Assessore Comunale, falegname, il cui figlio, Natale, si trasferì a Bronte dove, dopo un tirocinio presso la bottega di mio nonno, aprì una sua bottega nel palazzo Bruno, in Piazza Matrice. Sposò una bella giovane che faceva la modista, e in prosieguo di tempo si trasformò da bravo artigiano in commerciante di quei brutti mobili industriali che avevano le parti scolpite fatte con lo stampo a fuoco. Il figlio di Natale fu mio alunno, ma morì ragazzo, come qualche altro, che ricordo con tristezza.

Altra famiglia amica dei miei fu quella di Francesco Azzarello, che abitavano di fronte alla farmacia Zappalà, e con loro ci fu una certa familiarità quando nacque mia sorella Maria (1928), fidanzata “in pectore” delle mamme, del piccolo Luigi. Anche il marito era Assessore Comunale in quegli anni. I Palermo, originari di Bronte, furono amici-nemici: infatti il fratello grande, Mariano, che era ufficiale postale, era amico di mio padre e della mia famiglia, mentre il fratello Antonino, medico direttore del consorzio antitubercolare, il quale aveva sposato una nipote del nostro Padre Ciraldo che abitava in Piazza Piave, di fronte alla casa di mio nonno, era fascista della prima ora e, se non vado errato, il primo Federale di Catania, fu il primo persecutore di mio padre. A questo proposito vedi “Il mio 1943”.

A Maletto c’era una piccola colonia brontese: un secondo mulino ubicato nella parte bassa del paese, verso la stazione della Circumetnea; esso era gestito da Peppino Mazzaglia e da un Mangialardo (…?) coadiuvati da un giovane Nunzio Lupo, soprannominato “làndia”. Naturalmente questi tre erano amici e solidali, perché fuori sede, e, quindi, di tanto in tanto, a fine lavoro, si incontravano, perlopiù nei locali annessi al molino che fungevano da abitazione, per chiacchierare e giocare a carte, ma qualche volta anche per fare bisboccia insieme a mio padre, fra soli uomini. Una volta fui presente anche io e mi divertii molto vedendo tutti quegli uomini preparare una buona cena: “tagghiarini e cìciri” e “sosizza rustuta” il tutto gustato da un robusto appetito e innaffiato dal buon vino locale della zona adiacente a quella di Randazzo.

A proposito di bisbocce ricordo una memorabile vendemmia nel vigneto in contrada “babbottti” della famiglia Zappalà, sulla strada per Randaz­zo. Eravamo parecchi invitati, uomini e donne, che, insieme ai contadini, raccoglievamo l’uva che veniva poi trasportata al vicino palmento dove avveniva la caratteristica pigiatura a piedi nudi.

Finita la raccolta dell’uva e la pigiatura, le donne prepararono una squisita e abbondante cola­zione: salsiccia speciale di Maletto, cotta sulle tegole arroventate dal fuoco dei sarmenti, pane di segale fresco di giornata, e vino della casa a volontà. Ma quello che mi rimase più impresso fu il caffè preparato alla turca per tutta la numerosa comitiva in un pentolone. Eravamo tutti allegri, specie noi ragazzini che eravamo numerosi ed entusiasti della bella giornata trascorsa fuori e insieme.

L’epilogo di quella giornata fu il tiro al piattello dei cacciatori della eterogenea compagnia; ma poiché mancavano i piattelli, fu presa la paglietta rigida di mio padre, che fu letteralmente crivellata dai pallini delle cartucce e resa inservibile. Perciò, dopo quella gita, mio padre non usò più la paglietta forse perché non era più tanto di moda o forse perché non aveva abbastanza soldi per ricomprarsene un’altra.

Vincenzo Saitta, omonimo e parente del nostro Onorevole, perché oriundo dagli “scallipuszi” di Bronte, fu nostro simpatico amico al tempo della nostra gioventù; egli era un ricco terriero e fu Commissario Prefettizio nel 1945/’46 e primo Sindaco del dopoguerra, eletto dal 1946 al 1952, ma anche Presidente del Circolo cittadino, dove io e mio fratello Nino andavamo a trovarlo quando tornavamo a Maletto.

Non posso non ricordare un personaggio malettese di quell’epoca che si chiamava “u su Savvaturi u bandiaturi” del quale ho scritto nei Fantasmi al capitolo “Voci di Bronte: “U bandiaturi”.

Alcuni anni fa, nel redigere il mio libro “Vincenzo Schilirò educatore e letterato” (vedi) e nel ricercare altre notizie sull’omonimo Antonino (Antos), che fu biografo del primo, trovai un prezioso e generoso aiuto in Michele Giorgio Luca, appassionato storico di Maletto, che è diventato l’ultimo, cronologicamente, mio amico malettese, al quale sono ricorso anche adesso per qualche precisazione e integrazione, come la seguente.

Un certo Luca Francesco Paolo, ex carrettiere ed ex “stratunaru” cioè cantoniere stradale, e marito di Russo Giuseppa, la quale, da vedova ereditò non solo l’attività ma anche l’ingiuria “a stratunara”, era un oste che aveva la mescita sulla via principale e un giorno fu derubato non si sa da chi: fu sospettato il caro Ciccupauru Famà che mio padre fece difendere dal nostro On. Avv. Vincenzo Saitta il quale lo fece assolvere per insufficienza di prove. Ma a quei tempi era sentita come condanna anche quella assoluzione: mentre adesso, purché non si vada in galera e non si perda il malloppo, si può essere orgogliosi anche di una condanna.

L’attuale Sindaco De Luca, che non ho il piacere di conoscere, mi è diventato simpatico quando ha scritto all’ineffabile Capo del nostro Governo quella coraggiosa lettera (ma ha avuto risposta?) ed io ho scritto a Bronte Insieme plaudendo alla sua schietta protesta contro gli aiuti agli scialacquatori “falliti”.

Il campanilismo vecchio fra Brontesi e Malettesi pensavo fosse finito in questa epoca un poco più civile (?), ma invece ho letto su questo sito che due baldi giovani malettesi hanno realizzato un non proprio spiritoso raid con la loro auto nei pressi del Circolo di cultura “Enrico Cimbali” del mio paese, spero senza conseguenze. Ma l’amico Giorgio Luca mi assicura che “l’accanito campanilismo dei passati decenni, oggi è del tutto scomparso e i giovani dei due paesi si frequentano assiduamente, sia per motivi scolastici, culturali o di svago, senza alcun problema.”

Ed io gli credo, malgrado l’incidente riportato, perché così accadeva anche ai tempi miei.

Addio Maletto, mia seconda patria!

Arrivederci amici di Maletto! Ci incontreremo più tardi fra i boschi e le lave della nostra “muntagna” nell’aria tersa dei nostri cieli che hanno visto Polifemo e i suoi fratelli Bronte, Sterope e Piracmon i quali, di volta in volta, hanno terrorizzato le nostre genti e beneficato le nostre terre.

Nicola Lupo

Bari, 2 Febbraio 2009
Mio 90° compleanno! 


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