I Fatti del 1860

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ANTEFATTI - DECRETI DI GARIBALDI - SITUAZIONE LOCALE - I FATTI DAL 2 AL 9 AGOSTO - DIBATTITI E RICOSTRUZIONI


Cenni storici sulla Città di Bronte

Il carattere umano e generoso di Antonino Cimbali, la sua fermezza e la sua rettitudine servirono in appena pochi anni
a pacificare i brontesi, a sollevare le esauste finanze comunali, a far intraprendere importanti opere pubbliche e ad ingrandire anche il territorio di Bronte per la positiva conclusione dell'annosa vertenza con la Ducea.


I Fatti di Bronte narrati da Antonino Cimbali

«Per ben tre giorni, Bronte fu triste spettacolo di sacco e di fuoco e delle più terribili scene di sangue»

I Fatti del 1860

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(…) I tempi erano già maturi ed il 1860 apparve foriero di grandi avvenimenti. Dappertutto si osservava un’incessante agitazione spontanea, quasi inconscia, generale. Un ambiente di libertà si respirava per ogni dove; gli animi di tutti erano pronti all’insur­re­zione, fiduciosi nella riscossa.

Tanta era stata la forza prepa­ratrice dei veri martiri della libertà che, col maggiore eroismo e con nobile tenacità di propositi volevano la patria, l’Italia nostra, una, libera ed indipendente.

Un siffatto risveglio in favore della libertà cittadina non tardò molto a rendersi note­vole anche in Bronte. Pure, vistane l’opportunità, i vecchi rancori comincia­rono a ridestarsi, ed io, che sino a quel­l’epoca, dai miei nemici mi trovavo fatto segno alle loro improntitu­dini, che mi dipingevano come il più sfegatato liberale ed indomito rivoltoso contro il Governo borbonico, ora cominciavo ad essere dichia­rato sospetto di lealtà liberale, e non si lasciava di sussur­rare, sul mio conto, di borbonismo perché ricevitore del Registro.

Di ciò mi ebbi il più vivo rincrescimento, la più sentita indignazione, e giudicai opportuno, frenando i miei vecchi principi di libertà, mostrar­mi indifferente al nuovo ordine di cose, che già si trovava nella sua piena evoluzione.

Arrivato Garibaldi in Sicilia, l’insurrezione dappertutto dava le sue manifestazioni; ed in Bronte, preso accordo con Catania ed altri paesi vicini, si costituì un Comitato per dirigere il movimento. Era il mese di maggio ed io, con la famiglia, mi trovavo alla Piana, fondo di mia predilezione ed al cui miglioramento erano tutti concentrati i miei pensieri.

Era la seconda villeggiatura che ivi facevo, nel casino con tanti stenti e sacrifici compiuto e ben provvisto di quanto era abbiso­gnevole alla mia modesta parsi­monia del vivere, quando, un giorno, venuti degli emissari da Catania e da Adernò, si riuniva il Comitato nella casa del duca Nelson, in Bronte, e si ebbe il gentile pensiero d’invitarmi ad intervenire siccome capo della sicurezza pubblica del 1848.

Fui presente e, a mio malincuore, dovetti dichiarare la malvagità del mio paese, la difficile posizione, che dai miei nemici mi si era creata, costringermi a mantenermi indifferente al movimento ed in un certo riserbo.

 

Il brano è tratto dal libro «Ricordi e lettere ai figli» scritto da Anto­nino Cim­bali e pubblicato postumo a cura del figlio nel 1902 (To­rino, Fratelli Bocca Editori, 1802). Il libro è stato ripub­blicato dalla Banca Mu­tua Popolare di Bronte nel 1987.

Antonino Cimbali  (Bronte 1822 – 1897) fu il padre di quattro illustri figli che raggiunsero alti livelli culturali in campi diversi: Enrico (1855–1887), Giuseppe (1858-1924), Francesco (1860-1930 e Eduardo (1862-1934).
Fu sindaco di Bronte per ben quattro volte (negli an­ni 1862, 1869, 1888 e 1890), capitano giustiziere, rice­vitore del Re­gistro, professore di Scienze natu­rali al Real Collegio Capi­zzi (nel 1874); cercò di fa­re il medico (con poca fortuna, "mi trovai medico - scri­ve­va - senza volerlo e senza saperlo") e si inte­res­sò anche della vita pubblica indossando i panni del grande mediatore.
Fu anche per questo che dopo i tragici fatti di san­gue il "Mag­giore Generale Comandante Sig. G. Ni­no Bixio "con de­creti dell'8 e 11 Agosto 1860, lo nominò mem­bro del Con­siglio Comunale di Bronte e il Gover­no della Provincia di Catania, il 28 Settem­bre 1860, lo nomina delegato per la Sicurezza Pub­blica dello stesso Comune.

«Ne' Ricordi - scriveva il figlio Giuseppe nel 1902 - egli mo­stra quello che, (vero self-made man) fu per sè e quello che tentò e fece per vincere il proprio ferreo destino, per rompe­re l'inesorabile catena di difficoltà che lo avevano circon­da­to fin dalla nasci­ta e per emergere dal guscio in cui minac­ciava di soffocare.»

In queste pagine, tratte da Ricordi e lettere ai figli (ediz. 1987, Cap. IV e V, pagg. 73-83) Antonino Cim­bali descrive ciò che diretta­mente vide e visse a trentotto anni nei giorni tragici dell'agosto 1860. [aL]

Non lasciai, però, d’incoraggiare a fare quello che io non potevo, raccomandando vivamente di tener fermo col popolo una volta disciolto a vita di libertà, ed aver sempre d’occhio i partiti, che, da un momento all’altro, potevano irrompere per privati fini e che, invece di concorrere compatti al sacro scopo della libertà, pote­vano suscitare scandali e rovine di guerra civile, che si tentarono più volte e sotto tutte le forme nel 1848 e che, a grande stento, io ero riuscito a comprimere.

Fatte queste dichiarazioni, mi accomiatai e mi restituii in famiglia, alla villeggiatura.(1)

Quell’imparaticcio di Comitato, per quanto smaniante del potere e corrivo al nuovo ordine di cose, non seppe capirne né l’importanza, né il peso.

Alzata la bandiera tricolore al grido di Viva l’Italia! Viva la libertà! il popolo si credette sciolto da qualsiasi obbligo sociale e civile; immantinenti fu tutto in armi, come se il nemico fosse stato alle porte e, ignaro di sua via, si ebbe a sperimen­tare il più vergognoso sconvolgimento, un pandemonio, un putiferio, un pigìo di casa del diavolo.

Il primo atto di civiltà che fece il popolo, così ridotto a piena libertà, si fu quello di sfondare le porte del carcere e mettere in libertà tutti i carcerati, di qualsiasi delitto fattisi rei. Siffatta grazia popolare impensierì sul serio i buoni del paese, la borghesia e tutti coloro che avevano roba da perdere, e non pochi di quelli si fecero solleciti a venirmi a trovare alla Piana, invocando il mio aiuto per scongiurare i pericoli soprastanti.

Mio malgrado, cedendo alle forze dei tempi ed alle supreme circostanze, mi restituii in paese e trovai assai peggio di quello che mi era stato riferito.

Feci di tutto per restituire un po’ di calma; rimproverai di debolezza inqualificabile e di tradimento il Comitato, gli feci presente la grave responsabilità assunta rispetto al paese; ma, non avendo alcuna veste pubblica, dovetti confinarmi in casa mia, ripensando, fra me e me, accorato: - Se questa è l’alba, quale sarà la sera?

Né punto m’ingannai. La catastrofe non si fece molto aspettare, e Bronte, nei primi d’agosto del 1860, fu reso triste spettacolo di distruzione, d’incendio, di strage e della più feroce ed esecranda guerra civile. Era la belva umana, che gavazzava nei saturnali della ferocia.

Siffatti tristi avvenimenti si compievano quando il Comitato promotore del nuovo ordine di cose, incapace di frenare le disciolte passioni, era scappato via, abbandonando vigliaccamente la consegna e l’assunto impegno, e facendo sì che venissero trascinati al potere uomini, per quanto onesti e rispettabili, altrettanto inetti all’esigenza ed all’importanza dei tempi. Così nessuno, in Bronte, ebbe in mani degne la tutela dell’ordine pubblico, e la immane catastrofe fu compiuta!

Fattone avvertito il Governo della provincia, questo si fece sollecito a spedire a Bronte una squadra della guardia cittadina, accozzaglia di gente disposta più al male che al bene. Fu questa squadra che, facendo mala lega co’ galeotti ed i facinorosi in sommossa, non solo non volle impedire il massacro di alquanti cittadini della classe civile, che il popolo furente aveva in suo potere condannati a morte, ma anche lo consigliò, lo sollecitò, convenendo che esso, nel compiere tale massacro, aveva giusta ragione.

Così, quei disgraziati furono tutti portati via dal Collegio, dove si trovavano detenuti e, appena usciti fuori dall’abitato, furono, a furia di popolo, come cani, trucidati.

Fallita questa prima spedizione di forza, se ne faceva una seconda sotto il comando del generale Poulet. Questa produsse una certa calma; ma sapeva molto di precarietà, quando, sulle vive istanze di Nelson, duca di Bronte, che trovava sul serio compromes­sa la sua proprietà e la vita dei suoi impiegati, arrivava il generale Nino Bixio, il quale, con la rapidità del fulmine, con giudizio sommario sul tamburo, polvere e piombo, seppe spaventare la ferocia dei malfattori e sollevare un poco l’animo degli onesti cittadini, avvilito e profondamente accasciato. Alla sua presenza e sotto i suoi ordini, fece eseguire la fucilazione di quanti faziosi potè arrestare e del loro capo, certo Nicolò Lombardo(2), avvocato, che, sia per ingenita nequizia, sia per la più sfrenata ambizione di potere, aveva a quel miserando stato ridotto il paese.(3)

Per ben tre giorni, Bronte fu triste spettacolo di sacco e di fuoco e delle più terribili scene di sangue; e si è voluto da taluni, per questi funesti avvenimenti, battezzarlo col nome esecrando di paese da cannibali.

Ma bisogna fargli giustizia. Bronte, quantunque con una massa popolare nella maggior parte ignorante, si è distinto sempre per grandezza d’animo, pei suoi calmi e pacifici intendimenti.

Ma, nel 1860, sopraffatto dalla forza brutale e prepotente dei galeotti, nella loro maggioranza d’altri paesi, fece senza sapere quello che si faceva; ed i galeotti stessi, visto che mal si prestava alle loro iniquissime determinazioni, furono solleciti a far aprire e sfondare tutte le cantine; fattolo, così, ubbriaco ed inconscio delle proprie azioni, se ne valsero per le loro più inique e nefande intenzioni.

Ne sia prova che gli omicida brontesi, meno pochi, furono tutti giovanetti appartenenti ad agiate ed onestissime famiglie, che giammai avevano dato di loro simili prove ed oggi nelle prigioni espiano, la pena di delitti, che possono dirsi non propri e che neanche ricordano di avere commessi.

Fu il popolo stesso, che riavutosi da quella inconsulta ubbriachezza, disdegno­so e con orrore, ebbe a guardare quei dolorosissimi fatti compiuti, e, anche se non fossero arrivati a tempo i generali Poulet e Bixio, la reazione degli onesti si sarebbe verificata per punire le atrocità commesse dai malfattori e riparare l’onta fatta al paese.

Fu, anzi, puro caso se il Lombardo, ritenuto autore di tanta sciagura, non venne, a furia del popolo rinsavito, sacrificato in espiazione della sua ese­cranda colpa di lesa umanità e di lesa patria, sì atrocemente oltraggiata nella sua dignità, nel suo benessere, nella sua ordinaria tranquillità.

In un siffatto periodo di rilevante sventura, io mi trovai sempre compreso del più sentito rincrescimento.

Veder quel popolo - sempre docile, in altri tempi simili, da me sperimentato, e capace sempre di grandi sacrifici, purchè chiamato a tempo al suo dovere e nei modi conve­nienti -in quello stato di terribile pervertimento, ah, l’animo mio n’era straziato ed alzava gridi di dolore!

Dovetti, intanto, mantenermi sempre saldo nel mio riserbo, pure non lasciai di sommi­nistrare i miei buoni consigli, ma invano perché il pervertimento trovavasi nel suo pieno sviluppo.

Era il secondo giorno di quei tristissimi spettacoli quando, verso le 4 pomeri­diane, una gran folla di popolo furente tutta ingombrò la strada di mia casa(4) ed altre attigue; continue fucilate si facevano sentire e ben tre giovani, di ceto civile, fatti freddi cadaveri, giacevano in quei pressi vittime del furore popolare.
Il mio stato in siffatte circostanze si era fatto davvero terribile, facendomi tutto sup­porre che, da un momento all’altro, doveva essere assalita la mia casa ed io essere il capro espriatorio forse per infame suggestione dei miei inesorabili nemici.

Non vi era più tempo da perdere; e, fattomi quel maggior coraggio che alla gravità della posizione si conveniva, mi affacciai al balcone e con la massima fiducia e fran­chezza a quello sterminato affollamento di popolo inferocito dichiarai: - Quella ressa pertinace, quel brulichìo interminabile attorno alla mia casa essere segno non equivoco che si ricercava della mia persona; prevenendo l’intenzione di quel popolo, che avevo sempre amato e beneficato, essermi fatto sollecito, fiducioso a presen­tarmigli perché disponesse di me e della mia famiglia a miglior suo piacimento; ove esso l’avesse voluto, riuscirmi davvero soddisfacente morire purché la mia morte fosse stata olocausto sufficiente per salvare il paese, il cui benessere era stato sempre, per me, principale aspirazione.

 

Il feudo donato dal Borbone a Oratio Nelson

L'immenso feudo dato in regalo dal Borbone a Nelson nel dicembre 1798, nella sua originaria estensione (in giallo ciò che rimase al piccolo Comune, uno spicchio di Etna ed un mare di sciara; in grigio il territorio di Maletto).

Praticamente, tolti i due feudi di Foresta Vecchia e del Cattai­no (del marchese delle Favare) e quello della Placa (del duca di Carcaci) tutto il restante territorio fertile o arabile (quasi 15.000 ettari su 25.000), compresi gli abitanti di Bronte (i vas­salli dell'epoca), era stato donato a Nelson ed ai suoi discen­denti (diretti ed indiretti).

Seguendo quanto aveva già fatto il Papa Innocenzo VII che nel 1491 donò l'Abbazia di Maniace con tutti i suoi abitanti in dota­zione all’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, il Borbo­ne, infatti, aveva anche lui graziosamente regalato «… in per­petuo la terra e la stessa città di Bronte, … con tutte le sue tenute e i distretti, insieme ai feudi, alle marche, alle fortifica­zioni, ai cittadini vassalli, ai redditi dei vassalli, ai censi, ai servizi, alle servitù, alle gabelle …».

Da questi due "regali" ebbe origine una gran lite che Bronte sostenne per la sua libertà e contro le angherie e le prepo­tenze feudali, dagli inizi del 1500 contro l’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo e dalla fine del 1700 contro i Nelson.

Le legittime aspirazioni della comunità brontese, priva di so­stegni e protezioni, risultavano sempre perdenti ed inappa­gate.

Incredibilmente, nelle condizioni di estremo vassallaggio della popo­lazione, questa grande lite si protrasse di fronte ai tribunali, senza interruzione, per ben cinque secoli, dis­san­guando il Co­mu­ne ed impoverendo sempre più la popolazione, costretta ad emigrare e con i suoi migliori cittadini, giudici e capitani che soffrirono anche carcere ed esilio o, addirittura, furono con­dannati a morte. (nL))

Le mie poche ma calde parole sortirono il migliore desiderabile effetto. Si i levò immantinenti una concorde ed unanime voce di mia rassicurazione, conclu­dendo che stessi tranquillo in mia casa con la mia famiglia, che il popolo di Bronte sapeva far giustizia e che la consegna per la tutela della mia casa e della mia famiglia era sacra per tutti.

Per darmene la più solenne prova moltissimi dei miei più affezionati si misero a sedere attorno alla mia casa per fame la sentinella. In segno di gratitudine, aprii la mia cantina e la misi a loro disposizione.

Si avvicinava la sera ed io abbattuto ed affranto da quell’incessante terribile turbinio della più feroce barbarie e compreso di orrore per quelle nequizie che, in via progres­siva, sempre aumentavano, credei opportuno manifestare a taluni di quei rivoltosi che erano in mia casa (a destra una foto della casa del Cimbali, l'ingresso della cantina è la porta a destra, Ndr) il mio vivo desiderio di uscire dal paese, da quell’infernale pande­monio e recarmi a Catania.

Si accettò di buon genio la mia domanda, ed io con alcuni dei miei parenti, inoltratasi l’oscurità della notte, non solo fui messo fuori eludendo la vigilanza di coloro che avevano la consegna di un rigoroso cordone attorno al paese, per impedire l’uscita de’ sorci (così erano chiamati quelli che erano ricercati per fame strage) ma anche per mia maggiore soddisfazione e sicurezza da non pochi fui accompagnato fino ad Adernò, da dove subito partii per Catania col fermo proposito di restarvi e per sempre.

Sistemata la posizione di Bronte, il generale Bixio in furia ed in fretta, per quanto meglio gli fu possibile, partiva per Milazzo, dove con la massima urgenza ed impazientemente lo aspettava il generale Garibaldi per la continuazione delle loro gloriose e patriottiche imprese.

Intanto, con apposito decreto, fattomi partecipare in Catania a mezzo di quel gover­natore, mi chiamava alla reggenza dell’azienda comunale in dissesto e manomessa, facendo adesione al voto pubblico in mio favore in quelle circostanze manifestato. Per fermo, il nome di colui che, per i servizi resi al paese, gode una grande popolarità, viene sempre in mente nelle circostanze difficili e delicate malgrado egli siasi ritirato dalla vita pubblica.

Chiamato dal governatore, fui pregato anche ad assumere le funzioni di delegato di pubblica sicurezza siccome continuazione dell’incarico da me ben disimpegnato nel 1848 di capitano giustiziere. Mi negai recisamente, facendogli conoscere l’ingratitudine e la perfidia di taluni del mio paese, che l’aver salvato Bronte nelle tristi vicende del 1848 era stato la mia rovina, che perciò non avrebbe potuto dubitarsi della ragionevolezza del mio rifiuto.

I fatti di Bronte dal giornalismo erano stati dipinti con colori così tetri da far venire la pelle d’oca a tutti coloro, che erano chiamati ad esercitare una funzione pubblica qualunque.

Nel mentre il governatore curava col maggiore impegno a provvedere alle tristi esigenze di Bronte, taluni del paese, e tra questi dei miei nemici in resipiscenza, invocando il mio ajuto, mi chiamavano in Bronte per ridare un sistema al paese e a loro la pace tanto desiderata dopo sì dolorosissimi trambusti sofferti.

Il governatore, non trovando chi volesse assumersi quell’incarico, perché orroroso oltremodo si era reso il nome del paese di Bronte, mi sollecitò una seconda volta perché io accettassi; ed io, commosso dalla sventura del paese che avevo sempre amato, e più dall’invito che la catastrofe aveva consigliato ai miei stessi nemici e ritenendo che il perdonare i nemici e salvare la patria sia la migliore gloria del vero cittadino, finalmente accettai, e fornito del decreto di nomina, mi recai a Bronte per provarmi all’adempimento dell’incarico ricevutomi.

Appena arrivato, fu mio primo pensiero presentarmi al posto di guardia per persuadermi dello stato delle cose, ed annunziarmi agli agenti di pubblica sicurezza loro superiore e dare gli ordini opportuni al bisogno. Ivi trovai gran copia di persone arrestate ed altre se ne aspettavano perché la guardia si trovava in giro i per scovarle, essendo ritenute ree.

Ben compresi la posizione essere climaterica e, da un momento all’altro, poteva venire una reazione con più tristi conseguenze di prima; dappoiché, sfrenate le passioni di vendetta e di secondo fine, non c’era più domicilio sicuro, qualun­que persona si poteva dichiarare imputabile ed arrestare, essendo sufficiente una sommaria denunzia. Vidi inoltre che i poteri erano concentrati nella Guardia nazionale e che i com­ponenti la stessa avevano ciascuno dei torti da vendicare.

In quella condizione credei opportuno esordire con un atto di grazia onde affezionarmi il popolo ed avermi, indi, più agio a colpire i veri rei e così rimettere definitivamente l’ordine e la calma.

Diedi la libertà a tutti coloro che, arrestati, si trovavano alla rinfusa, annun­ziando alla Guardia nazionale che più oltre non si permettesse violare il domicilio e la sicurezza dei cittadini; che, se persone dovevano arrestarsi, l’ordine di arresto doveva partire da me, che io, nei bisogni, avrei invocato l’ajuto della guardia stessa.

Questo primo atto produsse i suoi migliori effetti, e di già tutti cominciavano a ripren­dere le consuete abitudini. Ma, quantunque ci trovassimo nella stagione della semina, molti agricoltori -alcuni perché consci della propria reità, altri perché temevano d’es­sere arrestati nonostante che fossero innocenti - rimanevano solitari senza curarsi di ripigliare le proprie agrarie incombenze, ciò che era di supremo interesse, essendo Bronte un paese eminentemente agricolo.

Mi fu quindi mestieri percorrere, a quando a quando, delle campagne fingendo di divertirmi alla caccia per avere il destro di avvicinare campagnuoli, assi­curarli della loro libertà ed incoraggiarli al lavoro. Era però beninteso, che se taluno, veramente reo, doveva essere arrestato, ciò doveva aver luogo nella via legale e col mio assentimento. Invece, tutti coloro, che non s’erano resi colpevoli, potevano attendere liberamente ai loro affari sotto la mia garanzia.

Rassicurati così gli animi, in certo modo si vide rinascere un po’ di vita e di traffico; ma ciò non bastava. L’umanità offesa e tanto crudelmente oltraggiata doveva aversi una riparazione, anco per far comprendere che la giustizia manomessa riacquistava la sua potenza e che sapeva, nella sua previdenza e sapienza, colpire i rei.

Sollecitai allora dal Governo l’invio, a Bronte, di un giudice istruttore per la compila­zione dei processi corrispondenti ai fatti avvenuti.

Un certo Vasta ne venne destinato; ma costui, preso da grave spavento a causa delle notizie apprese in Adernò, ricusò di procedere oltre e ivi fermossi, e, certamente da lì, col male della paura, sarebbe tornato a Catania se io non ne fossi stato a tempo infor­mato e, con la maggiore sollecitudine, non mi fossi ivi recato e non l’avessi, rassicu­randolo, meco condotto a Bronte (nella foto a destra una lettera del Delegato Antonio Cimbali al giudice istruttore del Circondario di Catania Ignazio Vasta, NdR).

Immantinenti si diè principio all’opera, e, mano a mano che, istruendo, quel solerte giudice rilasciava i mandati d’arresto, gli agenti della forza pubblica, di cui mi trovavo provvisto in copia, ne curavano prontamente l’esecuzione. Così camminando i processi furono tutti istruiti ed i rei poscia tradotti innanzi alla Corte d’assise di Catania, ebbero quella condanna che loro si competeva. Così venne conso­lidata la calma e l’ordine restituito.

Restituiti, così, l’ordine e la tranquillità nel paese e, nel miglior modo possibile, stabili e duraturi, giudicai compiuta la mia missione e, quindi, rassegnai l’incarico ricevuto di delegato di pubblica sicurezza. Durare più oltre in quella carica non era del mio genio, né della mia dignità; inoltre era mio convincimento pratico, dedotto dalla storia e dalla mia esperienza illuminata che il cittadino, in tempi difficili ed eccezionali, chiamato al soccorso della patria in pericolo, una volta che vi sia riuscito, debba bentosto ritirarsi per lasciare sempre vivo il desiderio, nel popolo, e della persona e dell’opera sua. Io conosceva a che duro prezzo si acquista una rinomanza e come sia prudenza, per gli uomini felicemente arrivati a questo punto, che, non si espongano ai capricci ed alle vicende di un sol colpo di fortuna.

Tale è l’uman cuore! Ciò, che dura ed esiste, l’infastidisce e l’opprime, e ciò che ha cessato di essere, acquista, in un attimo, una possente attrattiva. (…)»

Antonino Cimbali
26 febbraio 1884


NOTE

1)  Scrive B. Radice: «Il comitato teneva le sue segrete adunanze nella casa ducale e ne faceva parte il dottore Antonino Cimbali, che nel ’48 aveva ben meritato del paese, reprimendo con energia e prudenza, qual capitano giustiziere, i torbidi, nati a causa dei partiti, ducale e comunista; pomo eterno delle discordie cittadine, gittato a Bronte da un papa e da un re. Eran venuti a Bronte per muoverlo Giuseppe Arculia, il cav. Ciancio d'Adernò, il barone Tommaso Romeo da Randazzo e altri da Catania. (…) Nocque questa astensione del Cimbali. Egli, di molto credito nel popolo e conoscitore dell’indole della moltitudine, avrebbe potuto frenarne gl’impeti e scongiurare il pericolo che prevedeva. Verso mezzogiorno i dimostranti seguiti da popolo percorsero la via principale colla bandiera spiegata gridando: Viva l’Italia! Viva Garibaldi!». (B. Radice, vd. Nino Bixio a Bronte, nostra edizione digitale, pag. 24 ).

2)  Assieme al Lombardo di anni 48, vennero fucilati il Samperi di anni 27, lo Spitaleri di anni 40, il Longhitano di anni 4° ed il Ciraldo di anni 50.

3)  Alla luce di altre testimonianze e delle successive ricerche storiche, l’opinione del Cimbali sul Lombardo appare quanto meno ingenerosa. Cfr. B. Radice, Memorie storiche di Bronte cit., p. 438 sgg (vd. Nino Bixio a Bronte, ns. ed. digitale pag. 30 e segg.). Sul tema, vd., inoltre, più recentemente, B. Saitta, Per una storia di Bronte, in A. Corsaro, Il Real Collegio Capizzi. Catania 1994, p. 11 sgg.

4)  Si tratta della casa sita in via Annunziata ai nn. 37-39.

 

 

Il capitano Antonino Cimbali

di Vincenzo Pappalardo

Antonino Cimbali (Capitano Giustiziere e sindaco di Bronte, 1862)Nei giorni terribili della rivol­ta, Anto­nino Cimbali era a Bronte; prima a vil­leggiare in una proprietà di contrada Piana, successi­va­mente, quando il moto esplode, nella residenza di paese, a pochi metri dal mo­nastero di Blandano.

Della vicenda il Cimbali avrà perciò la prospettiva privi­legiata del testi­mone; ma anche del protagonista am­biguamente defilato. Il punto di vista che egli metterà per iscritto in un volume di lettere e ricordi ai figli, rappresenta la pro­spettiva delle vit­time “civili”, con l’insofferenza e il pregiu­dizio antipopolare e la sottovalutazione della questione economica e sociale.

(…) Il Cimbali preferì vivere quelle giornate defilato, scap­pan­do anzi a Catania la notte del 4 agosto, quando la folla era arrivata sotto il balcone di casa e solo il carisma eser­citato su alcuni rivoltosi aveva consentito che passasse oltre; e, anzi, la notte gli si aprisse la strada per Catania. Nel racconto che fa ai figli, il vecchio Antonino rac­conta con reticenza quell’atteggiamento, indicando la presenza di molti nemici e l’opportunità di mante­nere la prudenza.

Uno dei co­dardi bollati da Bixio o, molto più semplicemente, un uomo da poco sposato e con figli piccoli, fattosi anche lui prendere dalla paura e, nel bailamme incontrollabile della ma­rea mon­tante, incapace di trovare strumenti e interlo­cutori per inter­venire.

Resta però che, nel momento di maggiore pericolo e sull’orlo dell’abisso imminente, la città non seppe tro­vare lo spazio per il suo cittadino più autorevole e capace, l’unico, forse, in grado di giocare delle carte che avrebbero potuto scongiu­ra­re il preci­pizio. Ma quella era la Bronte dei due partiti e delle loro per­verse classi dirigenti, dietro le cui maschere “... fer­mentavano le vendette private, i particolari fini”. (…)

Ci sono due chiavi che consentono di capire subito i criteri che mossero l’azione di Antonino in quei gior­ni: un’assoluta insensibilità sociale, che non gli fece mai sentire né la sof­ferenza e la sete di giustizia po­polare né la violenza e la pre­potenza dell’agire du­cale e borghese; e, ancora, una vigoro­sa co­scien­za civile, che lo condusse a combattere qua­lun­que violazione al corretto ordine pubblico, da qualunque par­te venisse, e a concepire una solu­zione all’an­nosa disputa tra Comune e Ducea che avesse il fine di ristabilire le con­dizioni di pace, ta­gliando alla radice altre possibili sommos­se che po­tes­sero di nuovo incendiare il paese; e che per­ciò contentò gli interessi di parte di tutti, lontani dalla preoccu­pazione eminentemente civile del suo promo­tore.

Poi, la distribuzione delle 1003 salme di terreno avu­te indie­tro alla Ducea privilegiò la solita borghesia; e i contadini, cui erano toccate le terre più isolate ed aride, presto fallirono e presero la strada per le Americhe. Ma questo sarà un esito per il quale la sen­sibilità del Cimbali non avrebbe sentito alcuna responsabilità.

“Per ben tre giorni, Bronte fu triste spettacolo di sac­co e di fuoco e delle più terribili scene di san­gue; e si è voluto da ta­luni, per questi funesti av­venimenti, battezzarlo col nome ese­crando di pae­se da cannibali. Ma bisogna fargli giusti­zia”.

Il temperamento concreto di Antonino Cimbali corre subito al nocciolo della questione; e la breve narra­zione di quei fatti, densa di episodi personali e di espressioni che giustifichino ai figli il dubbio “riserbo” di quei giorni, diventa la difesa della purezza dell’ani­mo brontese, distolto dal suo percorso di civiltà e bontà a causa dell’irruzione di alcune circostanze as­solutamente eccezionali.

Il popolo di Bronte è docile e capace di grandi sacri­fici; e quantunque la massa sia ignorante, pure si è sempre distin­to per “grandezza d’animo, pel suoi calmi e pacifici intendi­menti”. Che cosa ha deviato, allora, quella gente dal binario della loro ordinaria bontà e mansuetudine?

Con la sicurezza lucida di chi conosce bene la sua realtà, e con l’energia delle sue robuste convinzioni conservatrici, Cim­bali indica sostanzialmente tre ra­gioni: innanzi tutto, la ventata di libertà portata dal­l’entusiasmo garibaldino ha, per così dire, liberato anche il popolo, gli ha tolto quei freni ch sono ne­ces­sari a tenere ordinata la massa e, senza i qua­li, il popolo ignorante e privo di responsabilità rom­pe gli argini e devasta l’ordinato vivere civile; perciò Antonino vanta di avere da subito avvertito le auto­rità de pericolo, “... raccoman­dan­do viva­mente di tener fermo col popolo una volta disciolto a vita di libertà”; e ironizza sull’assalto alle carceri, “primo atto di civiltà che fece il popolo, così ridotto a piena libertà”.

In secondo luogo, la responsabilità delle violenze de­ve esse­re addebitata ai galeotti, fuggiti in quei gior­ni dalle car­ceri, che hanno trascinato nella loro ebbrezza di sangue il popolo eccitato e senza freni, facendo diventare assassini bravi gio­vani, apparte­nenti a famiglie oneste e rispettate.

Un popo­lo puro, insomma, che ebbe la sfortuna di essere liberato e lasciato in balia della sua inco­scien­za, che “... fece senza sapere quello che si faceva...”, vittima di galeotti in gran par­te fore­stieri “... visto che mal si prestava alle loro iniquis­sime determinazioni... fattolo, così, ubriaco ed incon­scio delle proprie azioni, se ne valsero per le loro più inique e nefande intenzioni”.

Infine, argomento rilevante, la responsabilità politica cade sul­le spalle dei partiti, che hanno fatto a bran­delli la pace ci­vile del paese per i loro fini pri­vati e, incuranti del “sacro sco­po della libertà”, han­no suscitato scandali e guerra civile; e cade so­prattutto sulle spalle del partito comunista e del suo esponente di spicco, l’avvocato Lombardo, che “... sia per ingenua nequizia, sia per la più sfrenata ambizione del potere, aveva a quel miserando stato ridotto il paese”.

Il moto di Bronte viene così ridotto alla misura di un attenta­to all’ordine pubblico, con una reticenza as­soluta sulle riven­di­cazioni sociali ed economiche del­la rabbia popolare e con il tentativo di spostare per intero la responsabilità del­l’insur­re­zione agli in­teressi meschini della classe dirigente e al­l’azio­ne delinquenziale di galeotti immigrati.

Nessuna analisi della situazione sociale ed econo­mi­ca del paese, che pure non sfuggiva al Cimbali; nes­suna contesta­zione delle respon­sabilità della Ducea e della classe di bor­ghesi ad es­sa legati; nes­suna pietà per la sorte dei fuci­lati, e fa senso pensare che la riserva negativa sul Lombar­do, die­tro cui si nascose il ceto dei notabili di questo pae­se, ancorché rivista dal giudizio storico maturato con il Radi­ce nella stessa città, mantenga ancora oggi un imbarazzato silenzio su quei nomi e un’osti­nata reticenza a riconoscerne la funzione e il sacri­ficio per la crescita civile di questa comunità. (…)

Dopo il tragico epilogo dei Fatti «quando ormai il mas­sacro ha gettato il paese nella paura e nella para­lisi, le autorità pro­vinciali penseranno a lui e resti­tuiranno il controllo dell’or­dine pubblico della città. La prudenza e la determinazione del suo agire si ri­veleranno ancora decisive per svelenire l’ambiente di vendette e ritor­sioni che Bixio aveva lasciato a se stesso, e per ricondurre il paese alle usuali attività di semina e raccolta.

La Guardia Nazionale, che al comando del Cesare aveva da­to avvio ad arresti di massa viene bloc­cata e il suo agire ricon­dotto nei termini della leg­ge; una grande amnistia resti­tuisce serenità a quel­la gran massa di cittadini che avevano parteci­pato al tu­multo, senza però macchiarsi di reati, men­tre i contadini vengono incoraggiati a tornare alle loro attività, nella consapevolezza che la man­cata semina autunnale avrebbe condotto la città ad una devastante carestia.

Con intelligenza, il Cimbali comprende come occorre tagliare una volta per tutte la questione delle terre demaniali con­tese, che oppone i contadini alla Du­cea e che lacera il pae­se in due partiti che hanno consumato il fondo della convi­ven­za civile, facen­dolo straripare nella strage e nella barba­rie: per­ciò media col Comune e la Ducea, perché arrivino a quel­la transazione del ‘61 che, pur con tante om­bre, porrà fine alla complicata questione.

Una mediazione che gli costò critiche ed amarezze, che non risolverà la secolare miseria dei contadini; ma che egli af­frontò superando gli insormontabili ostacoli posti dalla Ducea e quelli ancora più difficili creati dalla torma di civili che, co­me l’avvocato del Comune Placido Luca, con la disputa ci gua­dagna­vano e non mostravano alcun entusiasmo a porre fine a quel lucroso morbo della convivenza sociale del paese.»

(Vincenzo Pappalardo, L’identità e la macchia, Il battesimo della co­scienza civile a Bronte nel dibattito sulla strage del 1860, Maimone Editore, Catania, 2009, pagg. 63-64, edizione fuori commercio)



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