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Vincenzo Schilirò

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Vincenzo Schilirò, Educatore e Letterato

(Bronte 1883 - Catania 1950)

di Nicola Lupo

3 . Il periodo brontese (1912 - 1930)


«NOVA JUVENTUS»

Un discorso a parte merita «Nova juventus», il bollettino del Real Collegio Capizzi di Bronte fondato nel 1920 dal sac. prof. Vincenzo Schilirò, ma diretto da padre Maccarione, professore di Storia e Filosofia, forse perché allo Schilirò era stata proibita la direzione di giornali, dopo le sue precedenti esperienze giornalistiche.

Detto bollettino era un mensile diretto a tenere informate le famiglie dei convittori e degli alunni esterni sull'andamento della vita del collegio e della scuola, ma nello stesso tempo era la palestra in cui si esibivano professori e alunni su argo­menti vari: vita interna del collegio, letteratura, storia, notizie politiche, giochi, teatro ecc.

A sfogliare le copie superstiti di detto bollettino si nota che è quasi sempre aperto da un articolo, da una poesia, da un saluto dello Schilirò che firma per intero o con «vi esse» cioè Vincenzo Schilirò; il testo contiene quasi sempre un saggio di critica dello Schilirò nella rubrica denominata Bricciche Letterarie, saggi che in seguito furono raccolti in volume con lo stesso titolo.[1]

Importante un suo ultimo articolo di Ricordi pubblicato nel 1931 forse a precisazione di quanto il suo omonimo biografo Antos aveva scritto a proposito della di lui adesione al Modernismo.

In tre documenti che riguardano l'elenco del personale insegnante del Real Collegio Capizzi di Bronte, il nome di Vincenzo Schilirò compare nell'anno scolastico 1919-20 come insegnante sia nel Ginnasio (III B) che nel Liceo (Lettere Italiane); nell'anno scolastico 1927-28 nel Liceo (Lettere Italiane e Latine) e nel 1929-30 ancora nel Liceo (Lettere Italiane).

Ho avuto modo, grazie al cortese prestito della Biblioteca del Collegio Capizzi di Bronte, di visionare i due volumi che rac­colgono alcune annualità di questo giornale d'istituto.

Nel primo volume sono raccolti diciassette numeri di «Nova Juventus» dal marzo 1920 al giugno-luglio 1921, più un «Bollettino illustrato» del Real Collegio Capizzi.

Il secondo volume ne contiene quindici dal dicembre 1927 al luglio-agosto del 1931 che ricorda il III Cinquantenario del Real Collegio Capizzi.

In questo giornale si parla della vita interna del Collegio Capizzi e della sua scuola, dei suoi professori e dei suoi alunni (interni ed esterni), ma vi sono anche articoli letterari e scientifici, resoconti politici, una specie di diario dell'istituto, una pagina ricreativa e alcune poesie (dello Schilirò), nonché il Galateo di mons. Della Casa nella traduzione di don Fabrizio.

Vi scrivono i professori V. Schilirò (prevalentemente), Maccarione (il direttore responsabile), Scelfo, Gatto, Stella, Cas­sisa, Sangiorgio, Radice, Magrì, Rizzo e alcuni alunni delle diverse classi. Ed ecco l'elenco delle Bricciche Letterarie: in esse contenute, quasi tutte di Vincenzo Schilirò.

Nel primo volume compaiono:

 1) Immeritata la fortuna del Pascoli?
 2) A proposito di Decadentismo
 3) L'estetica d'annunziana
 4) Guido da Verona
     La vita di Antonio Fogazzaro di Gallarati Scotti,
di Anselmo Di Bella
 5) La vita ricomincia?, di E. Bordeaux
 6) Antonio Fogazzaro e i personaggi dei suoi romanzi [2]
 7) La poesia di Dante
 8) I canti di Pan,
di G. A. Cesareo [3]
 9) Il teatro moderno e Dario Niccodemi

Nel secondo volume vengono pubblicati i seguenti argomenti:

 1) Umanesimo e Rinascimento
 
2) Fulgori e tramonto del poema romanzesco
 
3) A proposito di teatro cattolico
 
4) Origini e sviluppo del teatro italiano
 
5) Classicismo e Romanticismo
 
6) Marinetti e il Futurismo [4]
     Giuseppe Parini,
di Domenico Magrì
 7) Syrinx (Naiade bella e pudica)
 
8) Egoismo e carità dello Zanella e colloqui con gli alberi del Carducci
 
9) Virgilio maestro di Dante
10
) Efeso (maggio-giugno 1931)

A proposito di decadentismo, introducendosi con la critica del Croce su Pascoli e Fogazzaro, mette in evidenza la «at­ti­vità di propagandista» del secondo che fu «uno dei rappresentanti più genuini del suo periodo storico» e la cui «anima moderna [...] aveva sentito nuovamente la nostalgia dell' infinito» e «nella ricerca della Divinità non si tenne paga del teologismo tradizionale [...] e preferì gli slanci mistici [...] e il sentimentalismo [...] producendo una corrente di spiritua­lismo sincero».

Quindi lo Schilirò cita come altro illustre esempio Paolo Bourget di cui ricorda il «pensiero modernistico» dicendo: «anche nel Bourget il movimento religioso modernistico [...] ha una portata larga e profonda che investe tutta la vita». E in ciò si riconosce il modernismo di Vincenzo Schilirò.

Ma ecco il testo integrale della Briccica schiliroiana:

A proposito di decadentismo
Il Croce, nel rincarare la dose contro il Pascoli, non risparmia qualche frecciata indiretta contro Antonio Fogazzaro. Secondo il direttore della Critica i due artisti sarebbero i rappresentanti ufficiali del presente decadentismo letterario: cioè due virtuosi che sforzarono e impoltric­cia­rono la loro vena limpida; che si lasciarono traviare dalle debolezze e dal sentimentalismo del secolo; che si compiacquero della loro falsità e accarez­zarono assai leggermente i gusti corrotti del popolo.
Per la qual cosa la loro arte rimase sformata, oppressa, frammentaria.

Abbiamo già rilevato, parlando del Pascoli, l'eccessivo soggettivismo con cui Benedetto Croce, tradendo un certo dissidio fra i suoi gusti e la sua filosofia, giudica e notomizza la vita artistica dei poeti moderni.

Ed è opportuno ritornare oggi sull'argomento per vedere fin dove i romanzi del Fogazzaro possano giustificare le stoccate crociane, e ren­derci conto del rischio che corre la critica quando non valuti debitamente le necessità spirituali che ispirano e alimentano un'opera d'arte.

Antonio Fogazzaro nacque cavaliere dello spirito: dubitarne significa non conoscere la sua vita e non aver letto con interesse le sue opere. Anche a non parlare della sua attività di propagandista, noi troviamo spiccata la personalità del Fogazzaro nelle sue varie pubblicazioni, da Malombra a Leila, dalle Ascensioni umane agli ultimi articoli del Rinnovamento.

Fu - come si è voluto insinuare - un solitario? o un bigotto?

Né l'uno né l'altro. Fu, invece, uno dei rappresentanti più genuini del suo periodo storico.

È storia di ieri, se non vogliamo dire di oggi. L'anima moderna, uscita stanca dalle travagliose indagini del positivismo scientifico, aveva sentito nuovamente la nostalgia dell'infinito. Però nella ricerca della Divinità non si tenne paga del teologismo tradizionale, non seppe adagiarsi nella ristrettezza concisa delle vecchie definizioni, non volle arrestarsi alla soglia di alcune formule che, per essere le insegne della nostra contingenza, sono le meno atte a manifestarci l'infinito. Preferì quindi gli slanci mistici di S. Teresa alle sottigliezze del Suarez e all'ascetismo di S. Francesco Borgia.

Cosi è venuta fuori una religiosità nuova la quale, partendo dalla premessa incontrovertibile che l'uomo non può definire Dio, si è scostata dalle formule ed ha attenuate le torture della ragione per dare maggiore slancio al sentimento e maggiore libertà alle tendenze misteriose dell'anima. Così si è coltivata e delineata la coscienza profonda dell'Infinito, che è come il riconoscimento ufficiale della nostra insufficienza ad abbracciare Iddio e, insieme, della nostra tendenza innata a slanciarci verso di Lui. È il misticismo. Una non curanza cioè del sillogismo, esperimentato insufficiente; ed un'ansia, uno sforzo continuo di superare la nostra limitatezza per conoscere l'Eterno. È la febbre dell'intui­zione, della conoscenza diretta. Non - come pareva ai superficiali - un concetto vago, freddo, non curante, simile a quello dell'Inconoscibile spenceriano, il quale ingenera diffidenza e disperazione, ma un bisogno vero di adorare l'Assoluto come realtà infinita e vivente.

Questo fenomeno di coscienza si riverberò sulla letteratura. Il materialismo, che aveva saturato romanzo e novella, dava già un senso di sazietà nauseosa. Sulla carne cominciò a trionfare lo spirito, sulla negazione l'affermazione, sulla febbre erotica l'aspirazione mistica. Non più la passione incomposta, ma il sentimentalismo. Non più escandescenze settarie, ma una diffusa religiosità.

L'uomo, come fiaccato da un'orgia, sembrò ammansito. Forse si persuadeva, a scuola del positivismo utilitario, che l'elemento religioso può riuscire un ottimo fattore oltre che della cultura spirituale, del progresso civile. Chi sa? Fors'anche, dopo la prostrazione del disordine, diffidava della carne e anelava una rinascita ideale.

Comunque fosse, su di lui, non tuttavia cosparso di cenere o provato dal cilicio, passò, conquistandolo, una corrente di spiritualismo sincero. Ma fu uno spiritualismo ansioso, premio di modernità tollerante, vago nell'affermazione e profondo nel sentimento. Chi aveva centellinato, con industre perspicacia, le più squisite voluttà del piacere, non poteva soffrire la clausura e il convento. Un accomodamento ci voleva.

E sgorgò, come da polla natìa, quel misticismo tipico, caldo, vaporoso, inebriante, direi profumato, che pervade il Santo e Leila. La coscien­za, giudicata dal pullulare di aspirazioni indefinite si disse religiosa per natura. L'amore - la vecchia passione deformata dalle violenze della carne - ricevette un nuovo battesimo di fede ed acquistò, coi discreti veli, un altro fascino, un'altra vigoria, un prepotente dominio.

Con questa coscienza e con questi sensi lavorò e creò Antonio Fogazzaro. La fisionomia spirituale dei suoi romanzi non è effetto di sport, di artificio, di facile transigenza o di accomodanti pregiudizi. È vita del suo spirito, è travaglio intimo di pensiero e di sentimento, è necessità di riposo, è sete inestinguibile di verità. La vita del Santo, di Giovanni Selva e di Massimo non è giuoco vano di parole, né affermazione sterile di concetti; è, invece, la realtà drammatica di molti e molti spiriti. Se non è di tutti gli spiriti - né, direbbe il Croce degli spiriti sani - ciò non si vorrà ascrivere a colpa del Fogazzaro. Non so, del resto, se sia sanità la supina noncuranza dei problemi che toccano tanto da vicino i destini dell'uomo e sia debolezza il lasciarsene avviluppare; oppure leggerezza imperdonabile il volerle, contro ogni istinto, rifuggire.

A ogni modo è anche vero che gli ultimi romanzi del Fogazzaro non possono essere pascolo di tutte le menti e di tutte le coscienze. Se dan godimento a molti, la gran somma dei consensi estetici - della moltitudine, cioè, cui la squisitezza e l'importanza del nuovo fenomeno religio­so non commossero - sta dalla parte crociana. Né possiamo negare che il soggettivismo della tesi e la crisi spirituale del romanziere smi­nuiscano spesso la personalità delle figure, l'agilità del movimento e la compiutezza della vita fantastica.

Ma attorno e sopra questi difetti vibra un' onda di squisita sincerità, che mette in seconda linea gli sforzi analitici e speculativi che guidano la trama dei romanzi fogazzariani e rivela un magnifico fenomeno di coscienza.
Fenomeno, del resto, non solitario.






 "Nova Juventus", bollettino del Collegio Capizzi fondato da Vincenzo Schilirò


[1] Interessante l'inno dello Schilirò in onore del rettore, sac. prof. V. Portaro, e musi­cato dal maestro G. Torrisi.




[2] «La fisionomia spi­rituale dei suoi ro­man­zi non è effetto di sport, di artificio, di facile transigenza e di accomodanti pre­giu­dizi. E’ vita del suo spi­rito, è trava­glio inti­mo di pen­siero e di senti­men­to, è neces­sità di riposo, è sete inestin­guibile di ve­rità. [...] I perso­nag­gi più vivi dell'ar­te fo­gaz­zaria­na [...] sono [...] quelli che fece bal­zare dalla sua espe­rienza di vita vissuta e dalle molte cono­scenze perso­nali; son quelli che ricor­dano individui di carne e di ossa, nelle cui profon­dità spiri­tuali il poeta sapeva frugare con occhio divinatore. [...] Il Santo, più che roman­zo, vivrà come il documento più carat­teristico e più genuino di una crisi di coscienza».


[3] «Nei canti di Pan, per chi li legge con occhio ingenuo, si tro­va della [...] schiet­ta, fresca, alta poesia.»


[4] «Il Futurismo di Marinetti può ormai considerarsi come un simpatico argomento di retorica teatrale o di causerie mondana che offre al pubblico una scelta messe di osser­vazioni ele­ganti, di motti spiri­tosi e di boutades passabil­mente esotiche.»

Anche Paolo Bourget [5] - per dire d'un altro sommo - subì il fascino del nuovo orientamento spirituale. Non parlo, no del pensiero moderni­stico; perché né lui né il Fogazzaro teorizzarono o si sforzarono di rinverdire o far vivere, col sussidio della moderna epistemologia, i vecchi canoni dell'agnosticismo e del panteismo dinamico: chi sostiene ciò, conosce scarsamente la filosofia contemporanea.

Dico invece che, anche nel Bourget, il movimento religioso modernistico, pur scevro di seria consistenza dottrinale, ha una portata larga e profonda che investe tutta la vita. È una ribellione di coscienze, superbe, se si vuole, ma leali, sincere, generose, contro le debolezze che offendono la Chiesa di Cristo, contro la ipocrisia che ne profana la purezza, contro quel demone meridiano che caratterizza la fragilità delle persone abitualmente religiose.

Fauchon, Chanut, de Maleret, sono apostoli di una nuova Vita, ma non intaccano la dottrina del Savignan, del Bajle, del Lartigue. Hakeldama, non sappiamo come, cade rovinosamente sotto la fiera critica del Germe. Il pragmatismo, l'immanentismo, l'evoluzionismo, non rappresen­tano che dei sofismi, pericolosi per gli spiriti semplici, come quelli di Giacomo e di Teresa, ma altrettanto vacui e deliranti.

Eppure il movimento modernistico si manifesta al Bourget come un'ondata di sincerità: un ritorno all'origine pura, alla schiettezza, all'umile fratellanza cristiana. Se è una deviazione dalle credenze è una deviazione in buona fede. Quando il fanatismo è ingenuo, è anche capace d’un rav­ve­dimento generoso. Solo chi falla in piena coscienza e non accorda i propri atti col proprio modo di pensare, rischia di restare fuori del­l'ovile: è la sorte di Luigi Savignan. Ma chi pecca per traviamento dello spirito e conserva la rettitudine di cuore, può facilmente redimersi dal peccato d'orgoglio: è Fauchon che rinnega Hakeldama e si fa trappista.

Fra Savignan e Fauchon, le simpatie dottrinali del Bourget sono pel primo; le simpatie del gesto - chiamiamolo così l'atteggiamento spirituale del modernista - sono pel secondo.

Evidentemente la tesi del romanziere non era, né poteva essere, una tesi di filosofia pura, usata ad orecchio, ma un saggio di psicologia religiosa.
Sotto questo aspetto e per coloro che così l'accolgono, i romanzi del Fogazzaro e del Bourget non possono essere a cuor leggero condannati.[6]

Ha destato in me un certo sorpreso stupore trovare, fra le diciannove Bricciche letterarie, pubblicate nei ventuno numeri di «Nova Juventus» da me scorsi, un articolo di Vincenzo Schilirò su Guido da Verona, noto scrittore pornografico dell'inizio di questo secolo.
Ma, appena iniziata la lettura dell'articolo, ho capito che lo Schilirò era sulla mia stessa lunghezza d'onda; infatti dice: «non è il silenzio, onde vengono circondati, che corazza i giovani, dal fiuto fine e precoce, contro la moda lussuriosa che dissemina [...] il libro osceno».
Quindi tutto l'articolo è la messa in guardia, non solo dei giovani, ma anche, e in special modo, dei genitori, contro un prodotto editoriale che non ha nulla di artistico, nonché di moralmente accettabile.

Éccone il testo:

Guido da Verona

Confesso che sono stato alquanto indeciso se dovessi o no scrivere di Guido da Verona in questo periodico, perché temevo di suggerire involontariamente ai giovani un autore da cui essi dovrebbero tenersi sempre lontani.

Ma ho pensato poi che la mia era una grossa ingenuità: giacché non è il silenzio, onde vengono circondati, che corazza i giovani, dal fiuto fine e precoce, contro la moda lussuriosa che dissemina, a centinaia di migliaia di copie, il libro osceno. Se non è l'educazione rigida e cosciente, se non è la vigilanza illuminata dei capi di famiglia, le turpi volgarità di Mimì e di Madlen s'insinuano, malgrado il silenzio, piuttosto favorite dal silenzio, nelle case oneste e laboriose.

Oggi sugli scudi della moda, indecentemente chiassosa e civetta, sta Guido da Verona. La moda - la dea volubile e capricciosa, specchio terso d'ogni debolezza contagiosa e fanatismo dei poveri di spirito - inghiotte ed esaurisce, con incredibile voracità, le copiose tirature dei romanzi lubrici. Perché essa è la folla: la folla sterminata degli studenti negati allo studio, delle modiste romantiche, delle dattilografe erudite, dei commessi sapienti, dei morfinomani sentimentali, dei depravati dal vizio, dei frequentatori di salotto: la folla che decreta i trionfi d'un giorno.

Accanto ad essa, ma come sperduta e non curata, anche la critica ha dato il suo giudizio sulle recenti produzioni di Guido da Verona: un giudizio prematuro (se si vuole), a mezza voce spesso, ma unanime e ponderato. E la critica ha avuto parole di condanna pel poeta errante di Saliceto, scrittore fecondo di romanzi e allevatore appassionato di cavalli. Perché?

Non bisogna credere, anzitutto che l'opposizione della critica si serva della pregiudiziale etica o moralistica come d'una vera arma estetica. È ormai pacifico che l'arte come tale, non ha nulla da vedere con la moralità del contenuto o della favola, com'è vero che si contano a centinaia le opere artistiche anche se zeppe d'oscenità. E se ad una composizione artisticamente bella, ma moralmente sconcia, se ne preferisce un'altra, ugualmente bella ma castigata, ciò si deve alle esigenze utilitarie della superiore economia umana, secondo la quale al di sopra dell'arte van coltivate altre idealità di educazione e di elevazione spirituale.
È per ciò evidente che quando noi suggeriamo ai giovani di non leggere certi libri e richiamiamo i lori padri ad una più oculata vigilanza, non lo facciamo perché mossi da vani scrupoli da pusilli, né perché dissenzienti dai canoni fondamentali dell'estetica moderna, ma perché pensiamo non potersi onestamente mettere in mano ai giovani talune opere prima che in essi si siano sviluppate e irrobustite le energie d'una sana coscienza morale.

Né potrebbe esserci un solo padre di famiglia disposto a darci torto, come nessun padre assennato, per quanto devoto del tabacco, caccerebbe in bocca al suo bambino un mezzo toscano acceso...

Del resto la pregiudiziale etica perde la sua opportunità se si pensa che anche i pochi difensori intellettuali del da Verona cominciano a fare qualche confessione preziosa. Infatti uno di costoro - non ricordo dove - scriveva che Guido da Verona «possiede qualche grammo di poesia e molti chilogrammi di scaltrezza» e che, con l'aiuto di quest'ultima, fiuta il debole dei suoi lettori e fa figurare molto la prima. Nel fondo di queste parole c'è la vera, la inesorabile condanna del romanziere di moda; e c'è, in germe, la sentenza della critica.

Mimì Bluette ebbe un largo successo: segno che piacque: Sciogli la treccia è un avvenimento nazionale; segno che appassiona.
Lo sappiamo: i romanzi del poeta vagabondo piacciono alla folla sopra elencata. Ma tutto ciò che piace - a quella folla - è vera poesia?

Si è discusso fra gli esteti, non so quanto, per determinare la natura e i confini del godimento estetico.

I paladini del senso giungono, per conto loro, ad allargare tanto l'ambito del piacere artistico, da includervi le complicate soddisfazioni gustative e olfattive. Nessuna meraviglia, quindi, che pel pubblico grosso una tiritera afrodisiaca - come le gesta di Madlen - sia preferibile ai libri del Pascoli, della Negri, del De Marchi, del Carducci; e che una cartolina pornografica sia più piacevole della Gioconda.

Ma la critica estetica non è ancora, per buona fortuna, monopolio di viveurs. Anzi se la contendono con maggiore slancio e incontestabile autorità, coloro che ammettono e ansiosamente cercano altri piaceri che non siano i titillamenti della carne.

Per costoro Guido da Verona è più speculatore che poeta, più lenone che romanziere, più quattrinaio che letterato.

La sua arte, frammentaria e scintillante, diventa oro falso nei continui dilavamenti e sentori da sanatorio equivoco; la sua lingua, agile e fiorita, si unge e si intruglia quasi sempre nel frasario sboccato e salace del postribolo; la sua figurazione, qualche volta simpaticamente ardita, si perde spesso nella contraddizione, nel vuoto, nel buio espressivo.

L'amore che torna e La vita comincia domani, pur rivelando assai bene il temperamento sensuale e i difetti tecnici dell'autore, promettevano di più.

L'attività formale del da Verona ha subìto, in questo decennio, una crisi dissolvente. Si è affinata sino a perdere la consistenza e la primigenia virtù intuitiva. Si è educata sperperandosi e infrollendo. Forse i sogni del pellegrino, lo stordimento delle lontananze, le prostituzioni dell'anima, la sazietà nauseosa della carne stanca, ne avranno scolorito l'efficacia e l'agile precisione dei contorni.
L'affastellamento bilingue di Mimì - la glorificazione della ballerina piccola e grande, vendutamente corrotta ed eroicamente sentimentale - è, dal lato estetico, una diminutio formale. L'espressione, alta e incisiva in molte pagine, striscia spesso con la contaminazione della lingua e infiochisce con la visione imprecisa.

[5] Bourget, Paolo (1852-1935): «Integra e salda coscienza cat­tolica, maestro del ro­manzo moder­no, con un'astratta aridezza e tensione eccessiva del senti­mento, cerca di rappresentare il "disa­gio morale" della bor­ghesia, le cui cause erano oggetto delle sue appassionate ricer­che. Fra i suoi romanzi notissimo Le disciple. Mostrò anche in atto le teorie sociali di George Sorel» (Ma­ria Sabucchi in Enci­clopedia cattolica, pp. 1988-89).


[6] È evidente che quanto lo Schilirò scri­ve sul Moder­ni­smo del Fogazzaro e del Bour­get corri­spon­de al suo Mo­derni­smo: «un'on­data di sincerità» e «se è una deviazione [...] è in buona fede [...] e capa­ce di ravve­dimento generoso».

In Sciogli la treccia s'accentua la povertà formale e si fa più evidente l'artificio costruttivo. Il vizio, in cui scivolò leggermente Ada Negri nel Libro di Mara [7] e qui molto grossolano e appariscente. Il capriccio dannunziano del misticismo carnale, esplodente nelle piaghe e nella lussuria del pellegrinaggio di Casalbordino, qui rifà forzatamente la sua apparizione, slavata e incolore, nel pellegrinaggio di Lourdes, con un blasfemo e inabile intruglio di sacro e di profano, di fede allucinata e di cieca lussuria, di fallaci costruzioni logiche e di spietato nichilismo morale.

Siamo davanti alla fossa, putrida e oscena, d'ogni nobile idealità cui malamente nasconde l'artificio frollo della parola oziosa e della stantia variazione e ripetizione tematica. Anche la più alta delle idealità - la purificazione: L'uomo di Galil che eleva la peccatrice di Magdala - è infangata dal vagabondo di Saliceto, che la circoscrive, sconciamente, nel suo inglorioso trionfo sulla carne di Madlen Green.
Dov'è l'arte?
Non vita, non passione, non caratteri, non dramma. Sempre ed ovunque, in ogni angolo, sotto ogni cielo, in qualunque luogo pubblico e privato, non c'è che carne e mercimonio di carne. Tolto l'episodio della barbara corrida di San Sebastiano e l'altro volgaruccio del Circo de Galos, tutto il volume di 367 pagine non è che un brodo allungato: una broscia oleosa di carne... immonda.
Assai poco per la vita di un uomo superiore!

Accanto al succitato articolo su Guido da Verona c'è una poesia di Vincenzo Schilirò, di sapore dannunziano, ma con finale pieno di fiduciosa speranza:

Tramonto

Solo, davanti a un sogno sfigurato,
languo di nostalgia. Si tuffa il sole
in un baglior di sangue vaporato,
ghignando torvo su l'umane fole...

Tremo, spaurito. Una vampata afosa
sale da l'arse stoppie di frumento.
La lingua arsiccia, pendola, vischiosa,
ànsima un cane, che s'avvia lento.

Passa una rondine, con ala tesa,
su l'eremo silvestro. Il mio dolore
indocile dimentica ogni offesa
e vola verso l'ultimo chiarore.

E va con lei, con lei, desioso e ardito,
laggiù, lontano, verso l'orizzonte
che sfuma cerulo ne l'infinito,
per ritrovare la sognata fonte.

E, navigando verso nuove sponde,
fra stelle amiche, occhiute come viole,
su le criniere indomite de l'onde
un raggio, forse, incontrerà di sole...

viesse

[7] Questa osserva­zione negativa su «l'artificio costrut­tivo» non compare ne L'itinerario.


IL LICEO CAPIZZI

Sconcertante, ma piacevole sorpresa: io che, assieme ai compianti colleghi Lillo Meli e Gregorio Sofia, credevo di essere stato il primo (nel 1945) a chiedere, in una affollata assemblea popolare, tenuta nel teatro comunale di Bronte, all'allora presidente del Consiglio Parri, in base all'interpretazione delle Regole del ven. Capizzi, costitutive di scuole pubbliche per i Brontesi, la statalizzazione del nostro Liceo Ginnasio Pareggiato, dall'articolo seguente, intitolato Il Liceo Capizzi, non firmato ma sicuramente dello Schilirò, ho dovuto apprendere che in quella nostra richiesta eravamo stati preceduti, ma purtroppo con lo stesso esito negativo, proprio da Vincenzo Schilirò.

Ma questa sua richiesta contrasta con quanto da Lui scritto nel 1945 in Libertà e Democrazia!

Leggiamo ora tutto l'articolo di cui sopra:

Era un'antica aspirazione della cittadinanza brontese: un'aspirazione che aveva suggeriti molti lodevoli tentativi, purtroppo sempre falliti.
Dire minuziosamente perché quei tentativi fallissero, sarebbe opera oziosa e saprebbe forse di postuma recriminazione.
Basterà quindi ricordare quanto penoso e difficile riuscisse a un Comune povero di santoni politici (specie in quei beati tempi che la minorità amministrativa del Mezzogiorno era quasi ufficialmente sancita) ottenere dal governo un provvedimento di una qualche importanza; e ciò nella fortunata ipotesi che la cittadinanza di quel Comune fosse unanime nel domandare; e si comprenderà di leggeri come dovesse senz'altro fallire una pratica quando la ritrosia burocratica o governativa trovava un sostegno nello spirito di contraddizione di qualche consigliere o patrono del Comune postulante.

Fu questa per lungo tempo la sorte di Bronte, che incessantemente invocava l'istituzione di un liceo; e così fallirono i diversi tentativi fatti a cominciare dal 1878 sino al 1921.

E’ inutile dire che evidenti ragioni finanziarie avevano sempre consigliato di chiedere un liceo regio; e quando la riforma dell'istituto del pareg­giamento rese illusori i privilegi libertari delle scuole pareggiate, anche l'attuale Amm.ne del R. Collegio accedette alle stesse vedute, e nel febbraio del 1921 avanzò formale proposta perché il Comune, garantito da un contributo dell'Ente, chiedesse l'istituzione d'un R. Liceo Ginnasio.
La proposta destò fariseismi, diffidenze e incomprensioni: ma, energicamente difesa dal prof. Schilirò in due tornate consigliari del marzo 1921 e sostenuta dal comm. V. Pace, venne approvata dalla maggioranza. Ma, come al solito con poca fortuna poiché la pratica si smarrì e si perdette nei meandri bui della politica settaria, e il liceo nacque in forma privata.

Con l'avvento del fascismo rifiorì la speranza di dargli veste giuridica e definitiva, ma, purtroppo, sulle agevolazioni finanziarie non si poteva più contare, perché la politica del nuovo Governo, preoccupata del risanamento del bilancio nazionale, diceva netto e lealmente che avrebbe, si, incoraggiato l'istituzione di nuove scuole, ma non si sarebbe addossati degli oneri nuovi.
In tale stato di cose l'Amm.ne del Capizzi, tenuto conto dell'obbligo incombente sui Comuni nei riguardi dell'istruzione media, con istanza del 20 maggio 1923 sollecitava al Consiglio civico un impegno di contributo annuo a favore dell'Ente Capizzi, il quale, ai fini dell'unicità d'indirizzo didattico-scolastico, avrebbe richiesto il pareggiamento del suo liceo.

L'istanza, accolta dalla Giunta Municipale nell'adunanza del 2 giugno 1923 e ampiamente illustrata dall'avv. Saitta e dal sindaco comm. Pace nella seduta del Consiglio del 10 giugno, venne approvata nei seguenti termini: «di corrispondere all'Ente Capizzi, a datare dall'anno scola­stico 1923-24, un contributo annuo di L. 22.000, a condizione sempre che, mantenendo così com'è l'attuale ginnasio, si ottenga e funzioni anche il liceo pareggiato». La deliberazione consigliare, confermata nell'adunanza del 22 luglio, veniva approvata dalla G.P.A. nella seduta del 13 agosto 1923 con invito al Comune «di provvedere ai mezzi occorrenti pel pagamento del contributo».
Cosi la pratica del pareggiamento del Liceo Capizzi fu messa sulla buona strada; il 24 marzo del 1926 s'otteneva il seguente Decreto, con valore retroattivo, a datare, cioè dal 10 ottobre 1925:

IL MINISTRO DELLA P.I

Veduto il R.D. 6 maggio 1923, numero 1054; veduto il Reg. 6 giugno 1925, n. 1084; veduto il Decreto interministeriale 14 ottobre 1925, regi­strato alla Corte dei Conti il giorno 9 novembre 1925 reg. 26 foglio 282; veduta l'istanza in data 15 settembre 1925, con la quale il Presidente dell'Amministrazione del R. Collegio Capizzi di Bronte chiede che il liceo classico mantenuto dal Collegio medesimo sia pareggiato ai corrispon­denti istituti regi; veduta la deliberazione in data 30 settembre, con la quale la Giunta per l'istruzione media della Sicilia esprime parere favore­vole al detto pareggiamento;

DECRETA

A decorrere dal 10 ottobre 1925, il liceo classico mantenuto dal R. Collegio "Capizzi" di Bronte è pareggiato, per il valore legale degli studi che vi si compiono, ai corrispondenti istituti regi.
Il presente decreto sarà pubblicato nel Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione.
Roma,
24 marzo 1926
f.to FEDELE

E perché la cittadinanza sappia a chi dev'esser grata della magnifica istituzione, sentiamo il dovere di ricordare la fatica diuturna del Rettore prof. Vincenzo Portaro in collaborazione assidua col prof. Vincenzo Schilirò, la solidarietà costante dei deputati cav. Dott. Grisley e dell'avv. V. Saitta, la completa adesione del commendatore Pace sindaco del tempo, e l'interessamento del R. Commissario al Comune e del Segre­tario politico del fascio prof. Sanfilippo, che sollecitarono con gli amici della provincia l'emissione del decreto.

Oramai il liceo esiste e tiene alto il decoro del Capizzi: lo dicono i giudizi lusinghieri e costanti di tutte le Ispezioni e di tutte le Commissioni esaminatrici per la maturità classica. Sta ai Brontesi valutarne tutta l'importanza e non negargli mai il conforto della solidarietà; e sta agli Amministratori del Comune non metterne a repentaglio la floridezza, procrastinando il pagamento del contributo all'Ente, che sopporta per la nuova scuola sacrifici non comuni.

Dopo quanto si è detto e si è documentato fino a questo punto, si evince che il Collegio Capizzi e il suo Liceo-Ginnasio Pareggiato raggiunsero il massimo splendore durante il lungo periodo in cui vi profuse tutto il suo giovanile entusiasmo, la sua profonda cultura e la sua multiforme attività di docente, di uomo di teatro e di giornalista il sac. prof. Vincenzo Schilirò.
 



Il Real collegio Capizzi

Prospetto del Real Collegio Capizzi dove Vincenzo Schilirò insegnò al 1912 al 1930











Il Rettore don Vincenzo Portaro
Il prof. Vincenzo Portaro, rettore del Real Collegio Capizzi dal 1916 al 1936.

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VINCENZO SCHILIRO' EDUCATORE E LETTERATO
          Il periodo brontese - "Il seminatore che non miete"