2. Il suo Modernismo
Antos, alias Antonino Schilirò, Parroco di Maletto (CT), nel suo
Profilo dell’omonimo Vincenzo di Bronte, scrive, nel 1931, che questi fu
“sospettato di Modernismo”. Da tenere presente che Antos era del 1884, quindi quasi coetaneo
dell’omonimo Vincenzo, di un anno più vecchio; viene ordinato sacerdote a Catania
proprio un anno dopo Vincenzo:nel 1906 questi, nel 1907 quello, dallo stesso
Cardinale Francica Nava, e dopo aver frequentato, quasi contemporaneamente, lo
stesso Seminario di Catania. Dunque: coetaneo e compagno di Seminario; poi
nell’anno scolastico 1916/17 svolse attività didattica presso il Real Collegio
Capizzi di Bronte, impartendo lezioni supplementari di lingua tedesca e inglese
e dopo, con l’incoraggiamento del direttore sac. prof. Vincenzo Schilirò, è pure
maestro di cortile, percependo una piccola paga e l’ospitalità del Collegio. Il tutto fa pensare che quello che dice Antos sia perfettamente attendibile:
quindi solo sospettato di Modernismo? [6] Lo stesso interessato, Vincenzo Schilirò, in un articolo
datato Catania, 22.3.1931, intitolato Primavera di cielo (ricordi) [7],
ricordando, forse a precisazione di quanto scritto dal suo omonimo biografo,
padre Liborio Rubino S. J., suo maestro di teologia, dice: “Svegliandomi l’uggia, e la foschia del cielo me la son sentita pesare
sull’anima.
Sono molto triste. Perdura in me, senza dubbio, l’amarezza della nuova di ieri
sera. In pochi giorni due luttuose ed affliggenti dipartite. Due grandi e eletti
spiriti, dei quali avevamo ammirato da vicino la vastità della mente e la
ricchezza del cuore, se ne sono improvvisamente andati…
E’ questa dunque la primavera della terra? E non piuttosto quella del cielo?
Ha tal sentore d’autunno questo principio d’equinozio, che, se rimuovo gli occhi
dalle piante che s’ingemmano, mi par quasi di vedere i petali e le tenere fronde
del giardino illanguidire e staccarsi di botto, e turbinare sulle ali del vento,
e sparire di là, oltre le nubi cinerigne.
Forse per i buoni è assai cattivo il mondo…
E non mi restano che dei ricordi labili: alcuni lontanissimi, d’un quarto di
secolo.
A 39 anni e nel pieno vigore delle sue energie, Giovanni Semeria
predicava la quaresima nel Duomo di Catania. Intelligenza robusta e feconda,
anima aperta alle più alte e pure idealità, esercitò, fin dalle prime conferenze
un misterioso fascino sul mio spirito. Ero troppo giovane allora, e già dominato
da due febbri (o due magiche illusioni?): guerra a oltranza alle ingiustizie e
alle falsità sociali, mercè il ritorno alla schiettezza e alla semplicità del
cristianesimo apostolico; e amore dell’arte e della poesia. Due febbri che
(quanti ne furon qualche volta malati lo sanno) infliggono troppe e squisite
sofferenze. Da esse il barnabita non era soverchiato, ma tocco: e mi fu
carissimo. Non lasciai nessun discorso suo; l’avvicinai con tutti i pretesti;
gli feci intravedere le mie debolezze. E a tanta distanza di anni ho ancora vivo
nell’anima quel suo sguardo penetrante e sorridente nella faccia bruna di
lottatore quasi stagliata dall’ascia; e mi suonano ancora all’orecchio le sue
amorevoli parole di incoraggiamento e di consiglio:
- E’ questo, figliolo, il tempo della formazione. Lavora. Hai letti i
Saggi di filosofia religiosa di Luciano Laberthonnière? No? Leggili: ti faranno
gran bene… Ami tanto la poesia? Ottima cosa, figliolo.
Io penso che abbiamo fatto malissimo a lasciare nelle mani dei nemici di Dio il
monopolio del bello e la potenza sociale della letteratura. Sai? Il Fogazzaro ha
già pubblicato un altro bel romanzo: leggilo -.
In quei giorni la Casa editrice Baldini lanciava la prima edizione de Il Santo.
E proprio in quei giorni il Semeria veniva curando la raccolta delle sue
conferenze letterarie sotto il titolo Per i sentieri fioriti dell’arte,
e, contro gli scandali e le mutrie dei farisei, se ne giustificava così nella
prefazione:
- Si può credere che Dante abbia giovato alla causa cattolica meno del P.
Segneri? e che il Manzoni abbia servito al bene delle anime coi suoi Promessi
Sposi, meno che colla Morale Cattolica, che è pure così sottile nel concetto
e talvolta così elegante, sempre lucida nella forma non la legge nessuno; i
Promessi Sposi li leggono e li capiscono tutti. […]
Ogni opera veramente bella, a meno d’essere positivamente cattiva ( il che ne
sciupa un pochino anche la bellezza), è elevatrice e moralizzatrice.
Il bello di per sé ingentilisce l’animo, di per sé lo eleva. Io vorrei che noi
sentissimo di più la religiosità del bello. –
Nell’aprile di quel 1906 venne, inaspettata, la proibizione dell’Indice pei
Saggi del Laberthonnière e pee Il Santo del Fogazzaro. Negli occhi buoni
del Semeria affiorava una pacata tristezza (perché si era ingannato nei suoi
giudizi? O perché veniva colpito nelle simpatie?) non disse altre parole che
queste:
- Figliolo mio, bisogna inchinarsi ai verdetti della Chiesa. -
Sul finire della quaresima lo avvicinai più spesso col pretesto di dover
trascrivere il suo autografo e illeggibile panegirico di S. Agata; e, prima di
lasciare Catania, egli si degnò di regalarmi quel manoscritto: - sì, caro,
tienilo pure in mio ricordo. –
L’anno dopo cominciò la lotta contro il modernismo e coinvolse, tra i maculati
d’eresia e gl’insinceri, molti di buona fede. Giovanni Semeria, modello d’
obbedienza e di rettitudine, sopportò cristianamente le critiche e andò a
cercare la quiete fuori dei confini dell’Italia. Uno dei miei maestri di teologia era stato P. Liborio Rubino, uomo dotto
e uomo santo. La sua parola piana e scevra di artificio, andava dritta allo
scopo e lasciava nelle anime un suo aroma di bontà e di affetto. (Ho ancora
nitido nella memoria il gesto sorridente con cui soleva richiamare l’attenzione
nostra: - ricordi, Anselmo?-) Appuntatasi anche contro di me l’accusa di modernismo, Egli, che mi conosceva
così da vicino, se ne accorò paternamente, e paternamente mi confortava:
- Sii geloso dei tuoi principii e della tua fede, e lascia dire. Il tempo ti
renderà giustizia. –
Poi fu l’oratore della mia festa, il dì dell’ Epifania del 1907, nella Chiesa
Madre di Bronte: e non oso ripetere neppure a me stesso le parole affettuose ed
augurali che rivolse, in quella circostanza, al suo non insensibile discepolo
[…].
Al ciclone spirituale seguì il cataclisma bellico. Giovanni Semeria, ritornato in patria, fu il primo animatore e consolatore che
la Chiesa di Cristo seppe allora offrire ai soldati d’Italia. Dopo l’armistizio,
al conferenziere e scrittore insigne (apologista, letterato e storico) sottentrò
unicamente l’Uomo della carità. Il Semeria non fu che degli orfani di guerra. E
per dare il pane ai suoi cinquantamila bambini pellegrinò pel mondo, battendo a
tutte le casse e a tutti i cuori, senza la tregua d’un giorno, senza risparmi
dei suoi polmoni esauriti e della sua voce arrochita. Anche a Bronte venne, al
Capizzi, il 22 maggio 1923, e vi commemorò il Manzoni. Per quella ricorrenza cinquantenaria avevo già ridotto e preparato pel nostro
teatro le scene più salienti dei Promessi Sposi; e decidemmo di dare due
recite a beneficio degli orfani di P. Semeria. Ne fu felice e volle assistere
alla rappresentazione. Dopo il trattenimento venne a congratularsi con me:
- Magnifica serata d’arte! Bravo, bravo, amico mio!
– Ella non se n’è dunque scandalizzata? Gli domandai scherzevolmente. Non comprese e mi guardò con le pupille socchiuse, che, dietro gli occhiali
parevano più piccole e più penetranti.
– Scandalizzarmi dei Promessi Sposi?
– Già… per via di quelle mie alunne del liceo che stasera completavano la
filodrammatica (di solito unisesso) del Collegio. Veda… qualche anima timorata
del paese ha trovato biasimevole che quelle ragazze, dopo essersi insinuate
nelle scuole del Venerabile, siano ora giunte a calcare le scene dell’ Istituto…
– Anima timorata? – e la sua voce rauca vibrava di sdegno – dica pure che quella
dei farisei è un’istituzione di tutti i tempi e di tutti i luoghi!
[Fu per dar rilievo al piccolo avvenimento filodrammatico, o non
piuttosto a conforto dei suoi amici di Bronte che Egli, pochi
giorni dopo, sul giornaletto degli orfani Mater Divinae
Providentiae, lodava senza riserve la bella serata dei
Promessi Sposi?]
Prima che partisse ricordammo ancora una volta la quaresima del
'906; e, con la semplicità d’ un fanciullo, mi manifestò la
vaghezza di rivedere il suo manoscritto sulla Vergine e Martire
catanese. Avutolo in mano, lo guardò con evidente compiacenza;
poi, divenuto triste, cavò la penna stilografica e vi scrisse in
calce:”Post tot annos, tot discrimina rerum, fere idem: al suo
fido interprete P. Giovanni Semeria, che non scrive più”.
L’ombra era quella: non potere scrivere più. Ma subito ridivenne
allegro e faceto: chè pensava ai suoi orfani, e il grande
sacrificio gli pareva leggero. Era l’autunno piuttosto caldo,
del ’27. P. Rubino già provato e logoro dal male, era venuto a
chiedere qualche sollievo all’aria natìa; e di quando in quando
mi invitava ad accompagnarlo nelle sue lente passeggiate.
Un pomeriggio pieno di sole si saliva in carrozza, a passo di
lumaca, verso Maletto. Saremmo venuti da te, amico Antos. Egli
mi parlava animatamente del Venerabile e non nascondeva il
vivissimo desiderio di poter scrivere, prima di morire, anche
una vita popolare del Capizzi. La propaganda delle virtù eroiche
del concittadino e la di lui canonizzazione erano il suo
pensiero costante. Poi di botto mi chiese:
- E tu che stai preparando? - Mi tenta, gli
risposi, un altro poemetto drammatico, ma sono ancora dubbioso.
In mezzo ai complimenti e alle buone parole che hanno accolto il
mio Santo Francesco non mancano degli appunti in sordina.
Che sia davvero tempo sciupato, il mio? – No,
caro. Io so che, quanto scrivi, si legge con piacere e con
profitto. Continua pure. E’ una delle tante maniere di fare il
bene. Quando il Signore dà una spiccata inclinazione e dei
particolari talenti, bisogna credere che li voglia trafficati.
Lavora dunque tranquillamente e senza darti pensiero di qualche
isolata insinuazione malevola: chè Uno solo è il nostro giudice
infallibile. Voglio però augurarmi che la tua occupazione
preferita non ti faccia dimenticare il Collegio…
Il Collegio, la più paesana e duratura opera del Capizzi, gli
stava tanto a cuore! Ora i due apostoli del bene e
della carità sono lontani. E sento nell’ anima la uggia e la
foschia del cielo aggrondato. Non è primavera la nostra.
Ha tal sentore d’ autunno questo principio d’equinozio, che,
rimovendo gli occhi dalle piante che s’ingemmano, mi par quasi
di vedere i petali e le tenere fronde del giardino illanguidire
e staccarsi di botto, e turbinare sulle ali del vento, e sparire
di là, oltre le nubi cinerine. Pei buoni è assai odiosa la
terra…E volano verso la luce e l’ incanto di più bella
primavera…”
V. S.
Catania, 22 marzo 1931 Quindi accusa ingiusta sia per l’interessato che per il suo
professore di teologia e per il barnabita P. Giovanni Semeria! Ma lo stesso Vincenzo Schilirò, in una lettera ad Ada Negri del 1936, fra
l’altro, diceva: “non sconfesso io il socialismo della prima famiglia
apostolica, quando contrariamente alle illusioni giovanili, lo vedo socialmente
irrealizzabile.” Una terza dichiarazione dello stesso Vincenzo Schilirò
trovasi a pp. 36/37 de L’itinerario spirituale di Ada Negri, a proposito
del socialismo di lei: “Di quel socialismo la Negri non lasciò alcun
documento letterario, né esplicito né organico. Tuttavia, se occorresse, saprei
rifarne la trama ideale: talmente esso traspare qua e là in fugaci accenni,
dalle sue prime opere, e talmente esso si assomiglia a quella larva di
socialismo cristiano che anch’ io negli anni giovanili accarezzavo.” Le tre dichiarazioni dello stesso interessato confermano l’ adesione
sostanziale, per quanto attiene all’ aspetto sociale, ma non dottrinale,
dello Schilirò al Modernismo. |
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6) Antos, Vincenzo Schilirò. Profilo Soc. Ed. Dante Alighieri, Milano
1931
(7)
Pubblicato in “Nova Juventus“, anno XI aprile 1931, n. 6, pagg.
33/34

Giovanni Semeria

Padre Liborio Rubino
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Infine nel 1991 arriva Franco Cimbali il quale, nell’articolo pubblicato su “Bronte
Notizie“, afferma categoricamente: “il modernismo democratico da lui
accettato in toto“, ma aggiungendo che “su questo preferisco stendere un
velo di pietà” che per me è una anonima pietra tombale! Su quali documenti, che non cita, il Cimbali formula un giudizio così
categorico? E perché, poi, vuole stendere un velo di pietà, che può ingenerare altri
ingiusti e offensivi sospetti? Franco Cimbali ha dato una sua interpretazione degli stessi documenti da me
riportati [8], ma con una profonda differenza
sostanziale: egli dice che lo Schilirò aderì al Modernismo “in toto”,
mentre io, o meglio i documenti citati, dimostrano che egli aderì, e lo
conferma, all’aspetto sociale del Modernismo, ma non a quello dottrinale, che
sarebbe l’ eresia. Altro che adesione “in toto“! Infatti lo Schilirò non parla mai né cita i
teorici dottrinali del Modernismo; dice solo che padre Semeria gli aveva
consigliato la lettura dei Saggi di filosofia religiosa di Luciano
Laberthonnière [9] e poi Il Santo di Antonio
Fogazzaro, messi all’Indice nell’aprile dello stesso 1906, per cui il
Barnabita gli suggerì: “Figliolo mio, bisogna inchinarsi ai verdetti della
Chiesa.” L’ unica “eresia“ dello Schilirò è racchiusa in questa sua
affermazione: “guerra ad oltranza alle ingiustizie e alle falsità sociali,
mercè il ritorno alla schiettezza e alla semplicità del Cristianesimo
apostolico” frase che, forse, gli procurò “l’accusa di Modernismo, ma
anche il conforto del suo maestro di teologia, P. Liborio Rubino S.J.” (mai
sospettato, questi, di Modernismo!) E infatti lo Schilirò, malgrado tutto, insegnò per ben 18 anni al Real Collegio
Capizzi di Bronte, scuola cattolica! Per quanto riguarda l’attività pastorale svolta dallo Schilirò dopo la sua
ordinazione sacerdotale, oltre quella di Mons. Salvatore Sanfilippo (riferitami
da Franco Cimbali) che dice: “fu cappellano nella chiesa di S. Antonino in
Bronte; richiamato per imprecisate questioni assieme ad altri sacerdoti, dal
cardinale Francica Nava, ne uscì completamente pulito” non vi sono altre
testimonianze. Una sua ex alunna, oggi novantenne, Titina Lupo vedova Dell’Erba,
dice che: “Era un bravo professore, ma non andava alle processioni.” Nell’Archivio storico diocesano di Catania si è trovata sì la cartella
intestata Vincenzo Schilirò, ma vuota o quasi. Nessuna notizia sul “sospetto“
riferito da Antos, o sull’“accusa” di cui parla lo stesso Vincenzo
Schilirò, l’interessato. Mistero! Mons. Gaetano Zito, responsabile dell’ Archivio, spiega che il Modernismo a
Catania e in tutta la Sicilia non ebbe nessun seguito, perché non era conosciuto
abbastanza. E allora: perché il “ricordo” dello Schilirò del suo professore di teologia,
padre Liborio Rubino S.J., che lo conforta e lo incoraggia a tener fede ai suoi
ideali che saranno riconosciuti, e l’altro “ricordo” del barnabita padre
Giovanni Semeria, esiliato poi per Modernismo, al quale lo Schilirò si rivolge
per consiglio e guida? Perché lo Schilirò non ebbe più “cura di anime” e non celebrò più messa in
Chiesa? Ma battezzò sia mio fratello Antonino, sia la primogenita del Maestro
Francesco Sanfilippo, Scolastica? Tutte queste domande resteranno senza risposta per la mancanza di documenti
nell’Archivio storico diocesano di Catania sull’accusa di Modernismo e sulla
eventuale condanna. O meglio la risposta ce la fornisce la stessa assenza di
documenti nel luogo deputato alla custodia di quelle carte che dovrebbero essere
a disposizione dello storico che voglia ricostruire documentalmente la vita di
un sacerdote che si è distinto anche nel campo della Letteratura, difendendo
sempre la critica e il pensiero cattolici. E come si spiegherebbe anche la sospensione de “Il Propagandista”, giornale
fondato da Vincenzo Schilirò a Bronte, la cui testata è tutto un programma? Che
cosa propagandava di così poco ortodosso da meritare quel provvedimento? Una spiegazione alla mancanza di documenti, relativi al Modernismo di Vincenzo
Schilirò, nel fascicolo dell’ Archivio storico diocesano di Catania, si può
avere dalla ipotesi che mi prospettava il 30 ottobre 1992, don Carlo Badalà del
Pontificio Seminario Romano Maggiore, di Roma, il quale, a conclusione delle
notizie che mi dava su Antonino De Stefano, Modernista, diceva: “Non risultano nel nostro archivio altri dati relativi al De
Stefano; d’altra parte, se, come mi sembra di capire, egli abbandonò o dovette
abbandonare il sacerdozio negli anni della crisi modernista, l’assenza di
documenti non stupisce; anche di altri personaggi, come lo stesso Buonaiuti, qui
non abbiamo nulla; suppongo che all’epoca i fascicoli personali di quei
sacerdoti siano stati acquisiti dal S. Uffizio, anche se non ho alcuna notizia
certa in merito.”[10]
Questa ipotesi è stata giudicata accettabile dall’ autorevole scrittore de La
Civiltà Cattolica, Padre Guido Valentinuzzi, il quale scrive: “Per il Modernismo, supposto o reale, dello Schilirò ho
fatto ricerche sia nelle varie pubblicazioni relative, sia chiedendo a persone
più qualificate. Nei libri non ho trovato nulla, segno che l’ accusa contro lo
Schilirò non aveva grande o serio fondamento. La risposta poi di quanti ho
consultato è che, se qualcosa esiste di vero e di concreto, la risposta si trova
o presso l’ Archivio vescovile della sua diocesi o presso l’ex S. Uffizio di
Roma.”
Poiché presso l’ archivio diocesano di Catania non si è trovato nulla,
precedendo di qualche giorno (?) l’apertura dell’Archivio dell’ex S. Uffizio, ho
provveduto a inoltrare domanda per avere qualche notizia in merito al presunto
“modernismo” dello Schilirò; mentre per intanto assumo la suesposta ipotesi come
realtà non provata, ma probabile.
La risposta della Congregazione per la dottrina della fede (ex S. Uffizio),
comunicatami tramite l’Arcivescovo di Bari, dice: “I documenti del periodo che La interessano non sono ancora accessibili per
la consultazione.” Ergo, i documenti dei Modernisti, dichiarati o sospettati, si trovano
proprio in quell’archivio, ancora segreto, come ipotizzato da alcuni, ma “non
ancora accessibili” malgrado le recenti decisioni della Santa Sede che hanno
tolto il suddetto “segreto”. Speriamo di potere attendere che detta documentazione sia “accessibile per la
consultazione” per potere avere la prova di quanto abbiamo ricostruito sul
Modernismo di Vincenzo Schilirò o per essere smentiti conoscendo, così, la
verità storica della faccenda.
Ma una allusione al “modernismo” dello Schilirò ce la fornisce egli stesso nel
suo articolo intitolato “A un’anima in travaglio”, pubblicato in un
numero de “La Tradizione” del 1938, pp. 126-127: “Tu, per la tua finezza interiore, hai già subìto
il gran fascino di Cristo. Di ciò mi dà conferma quel natìo culto che hai per
l’amore; base, fine, essenza della religione cristiana. Ma non nascondi di non
saper dar credito alla Chiesa, perché la vita dei suoi membri ti appare ben
diversa da quella che Cristo vuole, in alto, in basso, fra chierici e laici, nei
singoli e nella collettività.” Ho cato anche testimonianze di ex alunni del nostro
educatore e letterato, e ne avevo individuati due; ma uno si è defilato
dichiarando che, dopo tanti anni, non era in grado di dare un ricordo preciso ed
esauriente, mentre l’ altra, per telefono si mostrò entusiasta della mia domanda
e rispose che: “Era un bravo professore, ma non andava alle processioni!”
Alla mia richiesta di un giudizio più dettagliato e scritto, mi ha risposto con
la seguente lettera: “Caro Nicola,
io del mio professore sac. Vincenzo Schilirò, insegnante di Lettere in 4° e 5°
ginnasiale, ti posso dire che era meraviglioso nello spiegare e aveva anche un
po’ di umorismo quando occorreva. Amava fare il regista teatrale, quindi
preparava recite che si tenevano nel teatrino del Collegio Capizzi, nelle quali
recitavano solo maschi.
Gli attori erano tuo padre, i maestri Francesco Sanfilippo, Reina (Alfio) e don
Giulio Di Bella. Di conseguenza ha trasformato La maestrina di [Dario]
Niccodemi in Il maestrino e così tanti altri personaggi sono stati
trasformati al maschile. Solo nell’ anno scolastico 1921/22 ha sceneggiato i
Promessi Sposi e sono state ammesse anche le donne, tra le quali c’ero
anch’io, interpretando Agnese. Lo spettacolo si è tenuto alla presenza di Padre
Giovanni Semeria. Per altre notizie ti mando una fotocopia di una pagina tratta dal libro scritto
in occasione della portata a Bronte delle spoglie del ven. Ignazio Capizzi. Sperando che queste mie informazioni ti siano sufficienti, saluto te e Maria.
Titina”
[Nunziatina Lupo ved. Dell’Erba, anni 90 e morta il 31.10.1998.] Come si vede la lettera contiene alcune notizie a me note, ma non figura
più la frase pronunziata precedentemente al telefono:
“ma non partecipava alle processioni”; evidentemente la vecchia alunna
temeva di avere offeso, con quella frase, la memoria del professore-prete. Il
che dimostra che c’è ancora una qualche remora a riconoscere la verità storica,
non sospettando che proprio quella remora può essere offensiva. Questo tipo di atteggiamento può essere derivato dal fatto che l’ortodossia a
quell’epoca, ma forse ancora adesso, seppure in misura minore, era confusa con
il conformismo o l’opportunismo per ottenere o conservare privilegi e prebende o
solo per il “quieto vivere”, mentre chi era (o è) intransigente e critico veniva
(o viene) giudicato sovversivo o eretico. La testimonianza di cui parla la Lupo ved. Dell’ Erba è dell’ Avv. Catalano di
Randazzo, ex alunno del Collegio Capizzi, maturatosi nel 1934, che scrive: |
|
[8]
Ecco come mi scrive, in proposito, lo stesso Franco Cimbali,
rispondendo a una mia precisa domanda: “A mio avviso, l’essere
sospettato di Modernismo è uguale ad accettare il Modernismo, a meno
che l’Autore non abbia affermato all’incontrario che a
me non risulta. Se poi, volendo scansionare (sic!) la frase
avrei potuto dire che lo Schilirò aderì o accettò le teorie sociali
del Modernismo senza usare il metro (in parte o in tutto) e
rimandare l’approfondimento sulla figura di Giovanni Semeria,
barnabita, di cui condivideva i principi sociali. Quindi, se vuoi, la
mia è una intuizione a lume di naso per cui non faccio
differenza tra un bicchiere mezzo pieno ed uno mezzo vuoto. Ambedue
per me sono eufemismi e disquisizioni filologiche; io tendo sempre
alla sostanza.”
[9] Laberthonnière, Lucine: oratoriano, scrittore di filosofia
della religione, nato a Chazelet il 5 ottobre 1860 e morto a Parigi il
6 ottobre 1932. Entrato nell’ Oratorio nel 1876, fu professore di
filosofia a Juilly, poi direttore della scuola Massillon e superiore a
Juilly, direttore degli Annales de philosophie chrètienne.
Questo periodico fu condannato dal S. Uffizio nel 1913. Il nuovo
sistema da lui adottato fu chiamato dogmatismo morale. Anche
nel campo pedagogico il L. volle applicare le sue concezioni per
dimostrarne il valore e la fecondità. Il L. ebbe il merito
notevolissimo di essere posto nella realtà storica e concreta, nel
campo della vissuta, allo scopo di sempre più intimamente permearla di
Gesù Cristo: questo spiega anche il bene e la consolazione ricavata da
molti nella lettura dei suoi libri. Da Enciclopedia cattolica
pp. 776/77.
[10] Vedi Lupo Nicola, Antonino De Stefano (uomo, eretico.
storico), inedito 1993, pubblicato in sintesi da “ La Forbice “ di
Castellana-Grotte (BA), n. 84/1993 e nn. 85 e 86/1994; e Federico
II di Svevia (visto da Antonino De Stefano e Gabriele Pepe) V.
Mastrosimini editore, Castellana-Grotte (BA) 1996 |
“[…] le sue prime esperienze erano state di pubblicista con
il periodico “Propagandista” che dopo la condanna inflitta da Pio X nel
settembre 1907 al modernismo cessò di vivere. Il quindicinale “Domani!” di
carattere politico-amministrativo alimentò i suoi interessi rivolti allora a
dare un contributo alla organizzazione degli agricoltori brontesi. Non mancò
neppure, nei suoi anni giovanili, dediti alla lotta politica, un tocco di humor
curando il foglio umoristico “U Trabanti”, accozzaglia di latino maccheronico e
di vernacolo. Lo scrittore si rivelerà più tardi, specialmente nei dieci anni di
insegnamento nel Liceo del Real Collegio Capizzi, in quelle “Bricciche
letterarie” pubblicate sul bollettino mensile dell’ Istituto “Nova Juventus”,
uscito nel marzo 1920 con una sua presentazione.[…]” [11] Una prova, per me, della rettitudine e della integrità dello Schilirò è data dal
fatto che a Bronte non sono circolate mai, a mia memoria, storielle o anche solo battute sul suo conto a
opera di quella cricca di maldicenti i quali, però, propalavano delle notizie
vere, caricandole di grossolanità, satira o solo ironia. Se ci fosse bisogno di una ulteriore testimonianza dello stesso Vincenzo
Schilirò, riportiamo quanto egli scrive in “Anno 1937 Tradizione“ su “La
Tradizione” anno X , gennaio-febbraio 1937, pag. 1: “gli scrittori cattolici,
sospettati di modernismo o sedotti dalle audacie rosminiane, pativano l’
isolamento” alludendo, implicitamente, alla sua vicenda. A conclusione di quanto sopra dobbiamo dire che Vincenzo Schilirò fu sempre
fedele al suo sacerdozio, infatti continuò a dir messa, anche se privatamente, e
portò sempre dignitosamente l’abito talare: il suo biglietto da visita era : “Sac.
Prof. Vincenzo Schilirò”. Insomma Egli fu ortodosso ma non conformista. Bisogna dire anche che il nome di Vincenzo Schilirò e nessuna delle sue opere
figurano nell’ Indice dei libri proibiti dal Santo Uffizio, Indice poi abolito
dal Concilio Vaticano II (voluto e iniziato da Giovanni XXIII il 1° ottobre 1962
e concluso da Paolo VI l’ 8 dicembre 1965). Ma un’ultima considerazione va fatta: Vincenzo Schilirò vive i suoi primi
diciotto anni di attività professionale a Bronte, come docente al Collegio
Capizzi, come critico, come giornalista, come drammaturgo e animatore teatrale,
come fondatore di una banca e di una tipografia, come politico e poeta,
dimostrando una intelligenza, una cultura e una multiforme attività superiori
alla media, anzi eccezionali. |

[11] Da Corsaro Antonio, Il Real Collegio Capizzi, Editore Giuseppe Maimone, Catania, giugno 1994 pag. 133. |
Ciò naturalmente avrà suscitato l’invidia da parte del clero e della borghesia
di quel grosso centro agricolo un po’ codino e bacchettone. E quell’invidia avrà
influenzato qualche zelante componente della Curia di Catania a sospettare e
accusare lo Schilirò di Modernismo, tout court, senza quella carità
cristiana che avrebbe dovuto guidare a un giudizio più meditato e più equo sull’
entusiastica e genuina aspirazione, in buona fede, del giovane sacerdote
Vincenzo Schilirò, a una Chiesa più evangelica e più sensibile ai bisogni, anche
materiali, degli uomini. Quindi il sospetto e l’accusa di Modernismo dello Schilirò furono, secondo me,
una invidiosa macchinazione della parte più retriva del clero e della borghesia
brontesi dell’epoca. E questo fece isolare il Nostro dal contesto sociale della
cittadina e lo spinse, assieme alle sue precarie condizioni di salute e al suo
bisogno di più larghi e accoglienti orizzonti culturali e artistici, a
trasferirsi a Catania.
Appendice - Il Modernismo
Per rendere più chiaro il movimento “Modernismo” riporto tre brani
chiarificatori di fonti diverse: una cattolica, una laica e la terza maxista:
«Preparato dalle condizioni intellettuali e culturali del principio del secolo XX, il modernismo, figlio del soggettivismo kantiano e dell’emotività
pseudo-religiosa di Schleiermacher, trova nel simbolismo evoluzionista di
Sabatier, applicato alla Rivelazione, un principio suggestivo e comodo, per far
passare di contrabbando come genuina scienza la filosofia dell’ immanenza e la
critica razionalista; e si comincia dagli studi biblici. Nel 1902 A. Loisy pubblica L’Evangile et L’ Elise, tentando di fare l’apologia della Chiesa con il negarne l’ origine divina. E’ il principio di un
franamento sempre più rovinoso e più esteso in Francia (Loisy), in Inghilterra (Tyrrel),
in Italia (Buonaiuti); dal campo esegetico si passa con disinvoltura a quello
dogmatico, morale, giuridico, sociale, letterario. Clamorose defezioni, manovre
subdole, propaganda scaltra, agguerrita, multiforme. Il veleno si inocula con
impressionante celerità, penetra persino nei seminari, nei chiostri, nelle file
del clero e del laicato militante. “Sintesi di tutte le eresie”, “strada
dell’ateismo”, “scure alle radici della fede”, il modernismo minaccia
la purezza della fede, la saldezza della disciplina, la santità della Chiesa. L’intervento appare sin dal principio severo, forte, decisivo, provvidenziale.
Il decreto del S. Uffizio Lamentabili del 3 luglio 1907, con cui
condannano 65 proposizioni erronee (in gran parte tratte dalle opere del Loisy),
preludia la magistrale enciclica “Pascendi Dominici gregis” del 7
settembre 1907. Il documento pontificio è diviso in due parti: nella prima una esauriente e
lucidissima esposizione del modernismo; nella seconda una serrata e
stritolatrice critica che dimostra tutta la falsità e ne denuncia le funeste
conseguenze per la fede, per la Chiesa, per il mondo. All’enciclica si rispose con violenta e virulenta resistenza; la lotta continuò
per anni ed ebbe ore di angoscia e di lacrime per Pio X che si vide a volte mal
compreso e maltrattato anche in settori a lui tanto vicini. Nella lunga vicenda
non mancarono le esagerazioni degli ultrazelanti e le malevolenze degli
ipocriti; non sempre e non tutti i combattenti seppero mantenersi liberi da
passioni di parte e da intemperanze di forma. Ma è ormai acquisito alla storia
che “anche nei periodi più difficili, più aspri, più gravi di responsabilità,
Pio X diede prova di quell’ illuminata prudenza che non fa mai difetto ai Santi”
(Pio XII)». (Da Enciclopedia cattolica Città del Vaticano 1954 pag.
1528). La voce Modernismo, firmata M. N., dell’Enciclopedia Treccani è
storicamente più esauriente, e il suo incipit si può riassumere così:
«Il Modernismo (cattolico) fu un movimento di riforma
interna del cattolicesimo, patrocinato da una minoranza del clero e, in minima
parte, dal laicato cattolici agli inizi del secolo XX e condannato da Pio X,
soprattutto nell’Enciclica “Pascendi” (1907), formato da “tendenze fra loro
sparse e ispirate a indirizzi diversi, le quali rappresentavano molto spesso nei
singoli modernisti più l’espressione di un temperamento individuale che una
posizione intellettuale e religiosa ben chiara e definita.» I modernisti (così chiamati dai loro avversari) «affermavano voler essere
il loro atteggiamento religioso semplicemente quello di cristiani e di
cattolici, viventi in armonia con lo spirito del loro tempo.» (Programma dei
modernisti). «[…] accanto a questa disposizione particolarmente benevola
“verso tutte le conquiste dell’epoca moderna nel dominio della cultura e del
progresso sociale”, sta l’altra, assolutamente caratteristica del modernismo, di
“voler adattare la religione cattolica a tutte queste conquiste, il presupposto
che il cattolicesimo possa conciliarsi con esse senza smarrire i suoi specifici
connotati, e il proposito di voler rimanere ad ogni costo nella Chiesa per
operare una riforma in essa e non contro di essa.”» Gli esponenti del modernismo italiano furono: fra i sacerdoti Ernesto Buonaiuti,
direttore della rivista storico-critica delle scienze teologiche e autore de “Le
modernisme catholique”; fra i laici Romolo Murri, autore de “La cultura
sociale” e fondatore della Democrazia cristiana; e fra gli scrittori Antonio
Fogazzaro, autore de “Il Santo”. A completamento delle notizie
sul Modernismo si può citare anche quanto scrive Antonio Gramsci su “Gesuiti,
Cattolici integrali e Modernisti” in “Note sul Machiavelli, sulla
politica e sullo Stato moderno” Giulio Einaudi, Torino 1974 pagg. 263/ 267:
«Gli oppositori più determinati dei Modernisti furono i Padri Gesuiti de “La
Civiltà Cattolica” diretta all’epoca da P. Rosa S.J., e lo scrittore specialista
del ramo fu P. Brucculeri S. J.. [12]
I Cattolici integrali ebbero molta fortuna sotto il papato di Pio X; essi
rappresentarono una tendenza europea del cattolicismo politicante di estrema
destra, ma naturalmente erano più forti in certi paesi, come l’Italia, la
Francia, il Belgio, dove, in forme diverse, le tendenze di sinistra in politica
e nel campo intellettuale si facevano sentire più fortemente nell’
organizzazione cattolica. Capo degli integralisti era Mons. Benigni e i Gesuiti
accusarono gli integrali di giansenismo (grande rigore morale e religioso), ma
anche di ipocrisia; e ancor più di fare il gioco dei modernisti. (Buonaiuti
scriveva nella rivista di Benigni?). Integrali e modernisti (involontariamente uniti?) nella lotta contro i Gesuiti e
il loro strapotere, ma nell’indifferenza della massa del clero e con risultati
non trascurabili nella massa dei fedeli. (Gesuiti laici affiancano i Padri?) La lotta (di Pio X) contro i modernisti aveva squilibrato troppo a destra il
cattolicismo, occorre pertanto nuovamente incentrarlo nei Gesuiti, cioè ridarli
una forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinari, con una grande
libertà di manovra ecc.; Pio X è veramente il Papa dei Gesuiti. I quali
rappresentano non solo gli oppositori papali ai due estremismi (integralisti e
modernisti), ma anche gli equilibratori delle due suddette tendenze.” Curiosità o somiglianza degli opposti? Sia i Gesuiti di Civiltà Cattolica che
Antonio Gramsci usano lo stesso termine “quaderni”: gli uni per indicare gli
opuscoli della loro rivista, l’altro per i suoi “appunti“ dal carcere di Turi
(Bari)! A mo’ di chiusura di questa rassegna sul Modernismo voglio ricordare che, col
papato di Giovanni XXIII, al secolo Angelo Roncalli, il “Papa buono”, il Pastore
in cerca delle pecorelle smarrite, l’atteggiamento della Chiesa nel confronti
dei Modernisti si ammorbidì e, infatti:
Ernesto Buonaiuti [13]
è stato rivalutato con la pubblicazione del suo “Pellegrino di Roma” (Laterza
Bari 1964) con un’ampia introduzione di un fervente cattolico laico Arturo
Carlo Jemolo;
Antonino De Stefano [14] è stato rivalutato da
un salesiano di Messina,
Antonio Merlino, Antonino De Stefano e la crisi modernista, Roma 1984. “Il Merlino, partendo dalla posizione iniziale del dissenso del De Stefano e
dalla sua ortodossia, afferma che la posizione modernista dello stesso risulta
proprio e meglio dalle opere scritte dopo la parentesi ufficiale del dissenso.”
[15] “Il valore storico che va attribuito al De Stefano nell’ambito della vicenda
modernista, è proprio quello di aver tentato di creare quei legami di
solidarietà sul piano della teologia, come su quello della prassi, che avrebbero
dovuto dare volto unitario al Modernismo europeo e forza di contrattazione al
movimento.” [16] e Ernesto Primo Mazzolari [17] è stato rivalutato
dal salesiano Giuseppe Lupo[18] in “Mazzolari
oggi”. S. E. I. Torino 1996, con prefazione di Romano Prodi. “Don Primo Mazzolari ha incarnato nella sua vita quel “segno di contraddizione”
che è il cristiano autentico. Interventista durante il primo conflitto mondiale,
antifascista, scrittore ripetutamente messo al bando dal Sant’Uffizio,
predicatore dal registro profetico ripetutamente invitato al silenzio, tenace
sostenitore di una Chiesa povera e schierata a favore dei poveri, libera dal
potere e impegnata nel servizio, aperta al dialogo con i lontani e calata
realmente nel mondo, in grado di assumere su di sé il dolore dell’uomo: don
Mazzolari è tutto questo. “Una lezione troppo frettolosamente datata e troppo in fretta dimenticata, come
se oggi i termini del problema non si ponessero con la stessa radicalità. Questo
libro invece la ripropone nella sua cristallina coerenza, ripercorrendo gli
avvenimenti principali della sua vita e i temi più ricorrenti della sua
riflessione di prete e di uomo”.
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[12] P. Brucculeri S.J. è stato uno dei recensori di alcune opere di
Vincenzo Schilirò!
[13] Buonaiuti, Ernesto, Roma 1881- 1946, sacerdote e storico delle
religioni, tra i maggiori esponenti del Modernismo in Italia, fu
scomunicato nel 1926. Lettere di un prete modernista, Storia del
Cristianesimo.
[14] De Stefano Antonino, nato a Vita (TP) nel 1880, morto a
Palermo nel 1964.
[15] Lupo Nicola, Antonino De Stefano (l’uomo, l’eretico, lo storico)
Bari 1993 inedito, riassunto ne “La Forbice“ di Castellana-Grotte
1993/1994.
[16] Giunta Francesco, “A. De Stefano fra Modernismo e Medioevo”.
In Archivio Storico Siciliano serie IV vol. VI Palermo 1980.
[17] Mazzolari Primo (don), nato a S. Maria del Boschetto ( CR) nel
1890, morto a Cremona nel 1959)
[18] Lupo Giuseppe, nato a Bronte (CT), salesiano, laureato in
filosofia e in teologia, già segretario nazionale della FIDAE e
direttore della rivista “Docete”, ora missionario a Coblenza
(Germania).
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