8. Altre opere di Vincenzo Schilirò
L’EPILOGO DELLA
TRAGEDIA LEOPARDIANA Il 1942 fu un anno cruciale per la Sicilia a causa dell'intensificarsi
della pressione bellica degli Alleati sull'isola, e lo Schilirò non
pubblicò nulla, ma preparava L'epilogo della tragedia leopardiana
che vide la luce, sempre presso la SEI, nel 1943. Lo Schilirò nella breve lettera alla Negri, datata Bronte 22.8.1942,
commenta la situazione sottolineando «la pena che mi danno i disagi di
questi poveri contadini, che hanno avuto uno scarsissimo raccolto». Eccone il testo: Cara e gentile Amica,
non ho vostre notizie da parecchio tempo. Come state? come va il
vostro occhio?
Io sono ancora in campagna e ci starò probabilmente fino ai primi di
ottobre.
Alla mia persistente fiacchezza nervosa si aggiunge purtroppo la pena
che mi danno i disagi di questi poveri contadini, che hanno avuto uno
scarsissimo raccolto.
Per caso m'è capitato per le mani il vostro articolo sul «Corriere
della Sera», rievocante con delicata suggestione la specchiera di
famiglia.
Scrivetemi appena potete e abbiatemi vostro aff.mo
V. Schilirò
Bronte, 22.8.1942 Da L'epilogo della
tragedia leopardiana vien fuori un ritratto del Poeta «che, come
dice lo Schilirò, risulta molto dissimile da quello stereotipo ranieriano».
La recensione che ne fa il noto scrittore gesuita, padre Domenico
Mondrone, mette in evidenza che «il saggio si scorre come un
romanzetto veramente storico»; e poi passa al «pregio principale» che
è la chiara disamina della «religiosità del Leopardi».
E conclude: «Ci troviamo [...] dinanzi a un Leopardi cristianamente
assai meno antipatico di quello che si era andato foggiando per tanti
anni».[1]
Ma leggiamone tutta la recensione: |
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[1] «La Civiltà Cattolica», 15.4.1944. |
V. Schilirò, L'epilogo della tragedia
leopardiana, SEI, Torino 1943, in 8°,212 pp., L. 20.
Dalle monografie del recanatese dott. Luigi Federici, Conversione e
sepoltura di Giacomo Leopardi nel racconto di A. Ranieri (cfr. «La
Civiltà Cattolica», 1941, I, 136) e Ad armi cortesi, l'A.
prende occasione per esaminare altri studi di recenti leopardiani, e
sulla scorta degli scritti del Poeta stesso ne forma un ritratto che,
come dice lo Schilirò, risulta «molto dissimile da quello stereotipo
ranieriano».
L'A. si restringe alle vicende dell'ultimo ventennio del Poeta. Sulle
prime ci fa l'impressione di trovarci dinanzi a un lavoro di fantasia
- e la fantasia c'entra infatti abbastanza - ma solo per quel tanto
che occorre a colorire persone ed episodi forniti da testimonianze
serie. Il saggio si scorre come un romanzetto, ma un romanzetto
veramente storico.
Pregio principale del volume è la chiara disamina della
«religiosità» del Leopardi, che l’A. discute e documenta con sano
criterio, con acutezza d'investigazione, venendo a conclusioni che
confermano quanto già si andava ottenendo dopo studi analoghi. Messa
ben in chiaro è la fine religiosa del poeta; e ottimamente narrata
l'indegna commedia recitata dal Ranieri: tutta un tessuto di
contraddizioni e interessate bugie.
Lo studio dello Schilirò può sembrare forse animato da un'eccessiva
indulgenza quando parla dello «spirituale smarrimento» del Leopardi.
«Si può e si deve discutere intorno al suo concetto della Divinità; ma
sarebbe arbitrario affermare che nella posizione storica del suo
pensiero abbia luogo una convinta forma di ateismo».
L'A. tratteggia molto acutamente l'anima del Poeta: un'anima che ha
molto sofferto, e che dopo indigestioni di filosofia sensista e
materialista, «cominciò a considerare e valutare la realtà
soprannaturale alla stregua del suo stato fisico e psichico, e a
giudicare vano il tutto sol perché gli risultavano vani i sogni
e le aspirazioni».
Quel «sol perché» ci dice di quanto si fosse allontanato dalla fede;
ma ci lascia anche intravvedere quello che potrà la grazia, quando il
timore della morte agirà come un improvviso remedium salutis.
Ci troviamo così dinanzi a un Leopardi cristianamente assai meno
antipatico di quello che si era andato foggiando per tanti anni. (P.
Mondrone) Su L'epilogo della tragedia leopardiana Ada Negri scrive
allo Schilirò il 7.2.1943: Sarebbe bene che voi pubblicaste il vostro
studio sull'epilogo della tragedia leopardiana: qualcosa di esso lessi
non so più in che rivista, e mi aveva molto interessata. Convengo che
c'è troppa inquietudine nell'aria. La vostra bella isola è
terribilmente provata e io vivo sempre in ansia per Voi. Sarò più
tranquilla quando vi saprò a Bronte. E ancora il 25 aprile 1943, aggiungeva: «Attendo da voi il saggio
sulla fine del Leopardi, del quale già lessi tempo fa qualche pensosa
e sottile pagina». Ma in questo periodo muore la sorella più cara di Vincenzo Schilirò il
quale risponde alle condoglianze della Negri con la lettera del
21.5.1943, spedita da Bronte. Eccone il testo completo: Amica carissima,
vi ringrazio vivamente delle fraterne espressioni. Purtroppo non
riesco a soffocare la mia pena, perché son convinto ch'è stato lo
sgombero da Catania, non voluto da Dio, ad affrettare la fine della
povera sorella. Vero è che soffriva tanto, ma io l'amavo di più per le
sue sofferenze (avevo anzi l'illusione che la debole fiammella della
sua vita, alimentata fiato per fiato con mille cure, mi appartenesse
di diritto) e lei stessa portava quasi ilare la sua pesantissima croce
pur di seguitare ad essermi compagna nel mio non facile cammino. Unico sollievo mi è il pensare che il suo martirio si sarebbe potuto
rendere più crudo; e ciò mi aiuta a sopportare il nuovo senso di
solitudine in cui son caduto e che gli altri sinceri affetti - il
vostro fra i primi - mitigano notevolmente.
Grazie di nuovo e abbiatemi, nella più santa e viva fraternità, vostro
aff.mo
V. Schilirò
Bronte, 21.5.1943[2] E il 18 giugno la Negri scriveva ancora: Mi è giunto il vostro volumetto sugli ultimi
anni del Leopardi e sulla sua morte cristiana. Già avevo letto di esso
qualche saggio con l'interesse che ogni opera vostra m'ispirava.
È un'opera breve, ma intensa e forte, molto ben documentata, che mette
spietatamente in luce l'antipatica figura del Ranieri, e una volta di
più ci fa soffrire per le sofferenze del Poeta. Con quale scotto si
paga il genio, Amico mio!
Il libro è stampato assai bene, Vi ringrazio di avermene fatto dono. E infine il 1° luglio del 1943, da Bollate (MI) aggiungeva: Penso che il vostro bello e pensoso volume sugli
ultimi anni del Leopardi avrebbe dovuto uscire in migliore tempo. Ma
come sarà il tempo che verrà? Oggi il bollettino [di guerra] annuncia
ancora disastri a Palermo.
Povera cara isola, che martirio! Ho il
cuore pesante come pietra. Fate bene a rimanere definitivamente in
campagna. [alla masseria Macchiafava in contrada Placa a Sud-Ovest di
Bronte]
Gli scritti di Sociologia L'attività sociale espletata dallo Schilirò nel periodo brontese ha
avuto poi una sistemazione teorica dopo la liberazione della Sicilia
con la pubblicazione di tre opere uscite tutte e tre nel 1945 e cioè:
SINTESI DELL'EVOLUZIONE STORICA DEL PROBLEMA SOCIALE, che è un
esauriente excursus del problema sociale dal corporativismo
medievale, al liberalismo, al marxismo, al bolscevismo russo, ai
regimi totalitari dopo Versaglia fino alle soglie del nuovo
dopoguerra; seguito, in appendice, dalla dottrina sociale della Chiesa
esposta nell'Enciclica di Leone XIII Rerum novarum.
Questo lavoro trasferisce nel lettore le idee chiare che ha
l'autore del problema trattato e, in parte, da lui attuato nella
pratica della vita sociale del «natio borgo», per servire da esempio
alle nuove generazioni. |
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[2] Queste lettere provengono dal Fondo Scalfi (il cognome della Negri
da sposata), conservato dalla Fondazione Ada Negri, presso
l'associazione culturale Poesia, la vita! di Lodi, presieduta dalla
dott. Laura Prèmoli De Mattè.

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AUTONOMIA è il secondo dei tre testi teorici di sociologia
dello Schilirò, nato in primo luogo per contrastare il movimento
separatista, sorto in Sicilia dopo la liberazione; ma anche per
dimostrare storicamente che la Sicilia aveva diritto a una certa
autonomia perché il centralismo si presentava, come in seguito è
avvenuto, come un pachiderma dai movimenti lenti e impacciati e
dannosi per la vita degli enti sociali. Le regioni per esempio,
previste nel 1948, furono realizzate (e come, poi!) solo nel 1970.
Lo
Schilirò termina proponendo l'armonizzazione dei poteri dello Stato
centrale con le autonomie locali sui tre piani: sindacale,
amministrativo e politico.
Due dei tre scritti di sociologia di Vincenzo Schilirò sono brevemente
ma sinteticamente recensiti da padre Brucculeri S. J. su «La Civiltà
Cattolica» dell'ottobre del 1945, il quale conclude dicendo che
«queste pagine [...] saranno accolte con interesse da chi voglia
orientarsi sul terreno sociale». Vediamone la breve ma chiara orientativa critica: V. Schilirò, I: Sintesi dell'evoluzione storica del problema
sociale, SEI, Catania 1945, in 16°, 181 pp., L. 130; II:
Autonomia, Ibid., in 16°, pp. 68, L. 60.
Il prof. Schilirò così ben noto per le sue pubblicazioni letterarie,
in questo lavoro ci dà un quadro dell'evoluzione del pensiero intorno
al grande problema della nostra epoca: il problema sociale.
Egli esamina l'una dopo l'altra le soluzioni che
si son date della questione sociale: la corporativa medievale, la
liberale. la socialista, la cattolica, la bolscevista, per terminare
con un riassunto della dottrina sociale della Chiesa.
Queste pagine snelle, serene, vibranti di umanesimo cristiano saranno
accolte con interesse da chi voglia orientarsi sul terreno sociale.
Troppo smilze ci appaiono le pagine dedicate al bolscevismo e assai
benevolo il giudizio che se ne dà.
Nel secondo volumetto l'A. combatte vittoriosamente il centralismo
despotico e snervante dello Stato moderno.[3] |
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[3] «La Civiltà Cattolica», 20.10.1945. |
LIBERTA' E DEMOCRAZIA è, invece, il
programma della Democrazia cristiana che, visto nella realizzazione che
ne è venuta fuori in questo cinquantennio, sembra proprio il libro dei
sogni di un animo puro che aveva sconfinata fiducia nei suoi simili.
Mi ha sorpreso la seguente asserzione: «Libertà di educazione implica necessariamente un'altra libertà: quella
d'insegnamento. Presso le nazioni veramente civili dovrebbe cessare lo
sconcio del monopolio scolastico statale.
Fermo il principio che la formazione giovanile spetta decisamente ai
capi di famiglia, risulta logica e necessaria l'esistenza di liberi
istituti d'educazione e d'insegnamento».[4]
Perché, d'accordo sul primo periodo, noto una insolita
durezza di linguaggio in Padre Schilirò che parla di sconcio del
monopolio scolastico statale, nel secondo periodo, cosa che, se
riferita, come sembrerebbe, all'Italia di allora, non risponde affatto
alla realtà: infatti non c'era monopolio e prosperavano «liberi istituti
d'educazione e di insegnamento».
È vero, però, che proprio nel 1944-45 cominciarono richieste di
statalizzazione di scuole private ma solo per motivi economici, in
quanto dette scuole costavano troppo ai loro utenti.
Vedi, proprio, il caso di Bronte, che solo dopo quella richiesta ottenne
scuole statali per tutti. Ma ciò non ha nulla in contrasto con la
libertà di insegnamento e di educazione, se non implica l'aspetto
finanziario. Questo concetto entrò poi nella Costituzione del 1948.
A questo punto dobbiamo inserire un breve documento di
Antos che recita: Nota. – Vedo bene che questo rifacimento del “Profilo“ per ora
non è opportuno. Si sospende, perciò, per continuarlo – chi sa? – quando ne sarà
il caso. 7. 4. ’46 D. Arcip. Ant. Schilirò. Io ho tentato di avere notizie e prove sull’ aggettivo “opportuno“,
usato da Antos a proposito della continuazione dell’aggiornamento del suo
“Profilo“ di Vincenzo Schilirò, pubblicato nel 1931, ma non ho trovato nulla.
Perciò ho provato a fare delle ipotesi e alla fine mi sono soffermato sulla
seguente: Vincenzo Schilirò nel 1946 pubblica “ Jadwiga“ e forse qualcosa di
questo romanzo d’amore, stile ‘800, l’ultima sua opera, non sarà piaciuto a
qualcuno (della Curia di Catania?), il quale dissuade Antos, arciprete di
Maletto, dal proseguire il “Profilo”. Antos recepisce il “consiglio” e sospende il suo lavoro firmando e premettendo
al suo nome la sua qualifica. Plausibile e realistica questa ipotesi? …
JADWIGA |
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[4] Vedi “Il Liceo Capizzi” e nota la contraddizione!

La nota di Antos |
Il secondo romanzo di Vincenzo Schilirò Jadwiga,
pubblicato nel 1946, «non fa dell'antifascismo postumo» perché fu
scritto in pieno periodo fascista, ma «non fu approvato per la stampa
dalla censura preventiva del MinCulPop».[5] Ne parla diffusamente padre Mondrone di «La Civiltà Cattolica» nel
giugno 1947, il quale asserisce che «più che un romanzo, il libro è la
tragedia di questi due personaggi principali: il Vitali (maestro di
violino), perseguitato dalla polizia fascista, e la sua alunna e
discepola spirituale Jadwiga Kierz. A lei il Vitali, fra l'altro,
scrive: «mi piace immaginarti come il simbolo della libertà interiore». Ma leggiamo tutta la recensione che ne ha scritto il più assiduo critico
delle opere di Vincenzo Schilirò: V. Schilirò, Jadwiga [Romanzo], Gastoldi,
Milano 1946, in 8°, 168 pp., L. 150.
In una premessa l'A. ci fa sapere che il suo romanzo non fa
dell'antifascismo postumo, essendo stato scritto quando il regime
fascista era in auge, ma non fu approvato per la stampa dalla censura
preventiva dal Ministero della Cultura Popolare.
Incerti se dire che protagonista sia il maestro di violino Giovanni
Vitali oppure la sua alunna e discepola spirituale Jadwiga Kierz.
Più
che romanzo, il libro è la tragedia di questi due personaggi principali:
il Vitali è un perseguitato dalla polizia fascista e finisce, dopo di
essere arrestato, non si sa dove; Jadwiga dal suo soggiorno di Berna,
dove contemporaneamente le giungono la notizia dell'arresto del maestro
e del bando dal quale è colpito suo padre come ebreo, ma senza esserlo,
corre in Sicilia in traccia del maestro, e non avendolo trovato, stanca,
amareggiata, disillusa, va a bussare alla porta d'un convento per trovar
pace «in quell'asilo di anime rifuggenti gl'inganni e le risse della
vita mondana». In una delle ultime lettere, il Vitali le aveva scritto:
«Prevedo tempi tristissimi ma son tranquillo, perché fido in Colui che
ci è Padre e non può abbandonarci. Tu, che non hai patria, hai un legame
sentimentale di meno, e mi piace immaginarti come il simbolo della
libertà interiore, che preferisce di andare raminga pur di scansare la
tirannia degli uomini».
Il romanzo ha una trama molto schematica. e ben
condotta da quelle che sono le sue creature più vive, il Vitali e Jadwiga: non mancano pagine di efficace psicologia e la lingua è buona.
(P. Mondrone)[6] Ma c'è una più significativa recensione de «La
Civiltà Cattolica» a firma di padre Domenico Mondrone S. J. che presenta
l’edizione congiunta de La credenza carducciana e Il
romanticismo e gli amici pedanti del 19l2-17, pubblicata
dalla SEI di Catania nel 1946. In tale riedizione lo Schilirò tenne conto dei progressi fatti dagli
studi carducciani dal 1912 al 1945 approfondendo «i valori spirituali
dai quali anche il Carducci attinse ispirazione e vita». Leggiamone l'interessante e lungo testo: V. Schilirò, Carducci «pedante» e
credente, SEI, Catania 1946, in 8°, 344 pp., L. 300.
Ricompaiono, in questo volume, due scritti dall'A. pubblicati oltre una
trentina di anni or sono: Il romanticismo e gli amici
pedanti e La credenza carducciana e suo valore, nel primo dei
quali illustrava l'indirizzo estetico del Carducci, nell'altro
l'atteggiamento religioso del poeta: «due aspetti male conosciuti e, in
campo critico, scarsamente apprezzati».
Tuttavia, poiché dal lontano
1912, al quale risalgono quegli scritti, ad oggi gli studi carducciani
certamente più di un passo hanno compiuto, l'A non ha voluto
prescinderne, e da parte sua non ha mancato di venire a un maggior
approfondimento di quei valori spirituali, dai quali anche il Carducci
attinse ispirazione e vita.
Tutta la prima parte del volume rifà la storia dell'affacciarsi del
Carducci alla ribalta letteraria, nel rissoso gruppetto degli «amici
pedanti, scesi in lizza contro il romanticismo, fino al tempo che si
rivela poeta; periodo di lotta, ma di preziosa maturazione, durante la
quale il Carducci «è venuto emancipandosi dal precettismo di scuola e
dando più attento ascolto ai sensi umani, di cui si alimenta la poesia
genuina, nemica di qualifiche e di appellativi.» (p. 132). Tutto questo
periodo di trapasso è densamente documentato e seguito punto per punto
dallo Schilirò con serio ed acuto accorgimento.
Anche la seconda parte - che è la più interessante del volume - è tutta
un documentario attento e intelligente per ricostruire la fisionomia del
Carducci credente. Poiché dalla bibliografia, ormai vastissima del poeta
«affiora, dice lo Schilirò, appunto questo duplice svisamento della
realtà storica: un Carducci vessillifero dell'ateismo e ferocemente
anticristiano, e un Carducci capricciosa farfalla e banderuola al vento»
(p. 310).
Attento sempre a non lasciarsi prendere alla sprovvista dalla
documentazione di parte interessata, e ancora più attento a non forzare
la verità storica, lo Schilirò prende a seguire il Carducci dalla prima
giovinezza fino al tramonto studiandolo passo per passo e raccogliendo
tutto quello che può avere un'importanza rivelatrice nei diversi
atteggiamenti religiosi del poeta e nel loro obbiettivo ed intrinseco
valore.
Le conclusioni alle quali giunge son queste: che il Carducci ebbe dalla
natura uno spiccato sentimento religioso; nella Divinità credette quasi
sempre, essendo molto discutibili anche i periodi di satanismo ed
ateismo; anticlericale fu, ma in funzione politica, convinto che il
Vaticano, i preti, e la religione positiva erano di ostacolo all'unità
d'Italia: incappò nella massoneria, credendola altamente umanitaria e
sostenitrice della più ampia libertà umana; tale anticlericalismo lo
allontanò dalle pratiche religiose, dalla fede nella divinità di Cristo,
ma non ne offese i riti: nell'età matura venne superando preconcetti
anticlericali, e riavvicinandosi alla religione della sua fanciullezza,
le deposizioni che attestano di aver ricevuto i sacramenti sono
attendibili, ma non decidono del tutto la questione; la massoneria
gonfiò e sfruttò a fondo l'anticlericalismo del poeta, senza tener
conto, anzi volutamente mettendo a tacere quanto attestasse l'ulteriore
evoluzione spirituale del Carducci.
Il libro dello Schilirò è quello che ha meglio di ogni altro esaminato
il problema, e notevole è il contributo che apporta a un più equo e
veritiero giudizio in riguardo alla religiosità del poeta, e al valore
di tale credenza. (P. Mondrone)[7]
Con il 1948 Vincenzo Schilirò chiude la sua
«libera attività letteraria», ripubblicando, sempre presso la SEI, Il
pozzo di Sichem e L'itinerario spirituale di Ada Negri,
arricchito di lettere inedite della poetessa. Nella raccolta di liriche «il dolore detta al poeta un tono malinconico
e sofferto e gli fa sentire un intenso desiderio di purificazione». In
questa raccolta lo Schilirò «allarga l'approccio con la poesia moderna». Ne L'itinerario..., che ebbe «un largo riconoscimento dei suoi
pregi», l'Autore aggiunge ora una quarantina di brani di lettere «che
fanno luce - dice egli - su particolari stati d'animo di lei e servono a
convalidare quanto son venuto asserendo in questo libro. [...] Questo
epistolario, per il lettore serio, non è una inutile curiosità». Ecco la breve citazione della seconda edizione de L'itinerario...: V. Schilirò, L'itinerario spirituale di
Ada Negri, con lettere inedite della poetessa, SEI, Catania 1948,
in 8°, 280 pp., L. 300.
Questo saggio fu già da noi recensito con largo riconoscimento dei suoi
pregi (cfr. «La Civiltà Cattolica, 1939, I, 371).
L'A. vi aggiunge
ora una quarantina di brani di lettere «che fanno luce, dice
egli, su particolari stati d'animo di lei e servono a convalidare quanto
son venuto asserendo in questo libro». Ci sembra che non solo servano a
«convalidare», ma anche a completare certe linee meno note della
fisionomia di Ada Negri. Quanti conservano simpatia per la poetessa
leggeranno con piacere questi nuovi documenti della sua anima. Perché -
pensi lo Schilirò quello che vuole e lo dica pure con parole grosse -
l'epistolario d'un personaggio comunque passato alla storia desta sempre
dell'interesse, e questo, per il lettore serio, non è una inutile
curiosità. (P. Mondrone)
Negli ultimi anni della Sua vita Vincenzo Schilirò aveva ripreso
l'argomento trattato su «La Tradizione» del gennaio-febbraio 1933 su
Catania e la sua Santa per scrivere una
biografia di sant'Agata, protettrice della città di Catania. Ma non ho
trovato altra traccia nell'archivio della casa di via Morosoli, 5 in
Catania, dove speravo trovare qualche manoscritto sull'argomento. (pp.
35, 148/a)
Dalla lettura di alcuni testi dello Schilirò e delle recensioni e
giudizi critici di eminenti letterati si può ricavare un dato
fondamentale: lo Schilirò ha avuto due principi ispiratori di tutta la
sua vita e la sua opera: la fede in Dio e la fiducia nella socialità
dell'uomo; e il suo concetto dell'arte come «fatto interno, sintetico,
individuale e originale».
Perciò in tutti i suoi lavori cerca la
credenza e la fede dei suoi personaggi: dal Carducci al D'Annunzio, dal Pirandello alla Negri; fede e credenza che, a prescindere dalla "chiesa"
di appartenenza, mettono in evidenza la onestà intellettuale dei
soggetti, la genuinità e la sincerità dei loro sentimenti, al di fuori
di ogni ortodossia che spesso non è che conformismo e opportunismo.
E tutto ciò coincide con l'essenza del Modernismo dello Schilirò il
quale crede e lotta per una coscienziosa convinzione nell'onestà
intellettuale e opera per il rinnovamento morale e sociale dell'uomo che
va curato anche nei suoi bisogni materiali e sostenuto nei suoi rapporti
sociali: vedi il suo lungo periodo di insegnante e drammaturgo, di
operatore sociale e finanziario, di giornalista pubblicista e operatore
culturale e uomo politico.
Lo Schilirò tende, con il suo multiforme lavoro, a Dio cosi come vede
Ada Negri per percorrere il suo itinerario spirituale che culmina nei
versi di Vespertina.
Il letterato brontese dimostra che, come da
Dio, dalla fede e dal Sacerdozio, ai quali è sempre rimasto fedele, egli
è arrivato all'uomo e al sociale, così la Negri dal socialismo e dalla
lotta per l'uomo è arrivata, dopo un lungo e tormentato itinerario, a
Dio e alla fede cristiana. |
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La censura del MinCulPop

Ministero della Cultura Popolare
2 Marzo 1942 XX
Si comunica che questo Ministero non ritiene opportuno autorizzare,
nell'attuale momento, la pubblicazione del romanzo "Jadwiga" nel quale
l'autore Vincenzo Schilirò con discutibile esattezza storica e
precisione di giudizio, tratta di avvenimenti svoltisi nella Polonia del
dopoguerra.
[5] Franco Cimbali, bibliotecario del Collegio Capizzi, scrive questa
scheda bibliografica: «Jadwiga fu scritto in pieno regime e, per tale
motivo, la trama del romanzo venne spostata dall’autore in terra
polacca. Anche qui c'e un dittatore, imbevuto d'assolutismo, che
detiene il potere e governa lo Stato con dispotismo. Per precauzione il
manoscritto, dall'Editore Mario Gastaldi, fu inviato ai Ministero
Popolare e il 2 Marzo 1942 il MinCulPop rispondeva che, dopo lunga
ponderazione, non riteneva autorizzarne la pubblicazione (non
condividendo l'Autore, modi e metodi dittatoriali che esternava tramite
i protagonisti del romanzo.)
[6] «La Civiltà Cattolica», 21.6.1947.
[7] «La Civiltà Cattolica», 15.6.1946. |
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