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Vincenzo Schilirò

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Vincenzo Schilirò, Educatore e Letterato

(Bronte 1883 - Catania 1950)

di Nicola Lupo

4 . La sua libera attività letteraria (Catania 1931 - 1948)

Con il suo trasferimento a Catania per lo Schilirò si aprono più vasti orizzonti: infatti, accantonati alcuni lavori di cui parla Antos, e mai più pubblicati, egli si dedica principalmente a «La Tradizione» di cui è direttore della sezione letteraria, senza però trascurare la produzione letteraria e la riedizione di alcune sue opere precedenti con case editrici di più larga diffu­sione, specie con la Società Editrice Internazionale (SEI), come abbiamo detto precedentemente.


IL CARROCCIO

Pubblicò però ancora a Bronte il suo terzo lavoro teatrale: Il Carroccio in cui «superato l'estetismo del D'Annunzio, dimo­stra come si possa commuovere con la rappresentazione di un dramma in versi di argomento storico: infatti in esso si intrecciano l'amore fisico di quattro protagonisti con l'amore per la libertà».

Ecco quanto ne scrisse un recensore de «La Civiltà Cattolica»:

V. Schilirò, Il Carroccio, Dramma milanese, STS, Bronte 1931, in 12°, 190 pp., L 6.
Critico di arte e insieme cultore dell'arte drammatica, il ch. Schilirò, dopo avere studiato I Criteri estetici dell’arte D’Annunziana (Catania, Giannotta, 1918), ci fa vedere in un dramma di argomento abbastanza arduo per la rappresentazione, come si possa commuovere, senza incorrere nei vizi dell'estetismo.

Il trionfo di Legnano, gloria non della sola Milano ma dell'Italia, nonostante le difficoltà del soggetto, trova qui l'azione così abilmente impo­stata, gli affetti e le passioni tanto armonicamente intrecciate, che pure i due idilli di Simonetta ed Alberto, di Isotta e Ruggero, acuiscono e rinfocolano l'amore della desiderata libertà. Se non sono tutti storici i personaggi, è storico il quadro, storico lo spirito milanese, l'entusiasmo del sacrifizio e l'amore alle Somme Chiavi. Il colore poi del tempo e del luogo traspare nella nobiltà del verso, nella cura della lingua, nella proprietà dei termini, che spesso danno sapore di robusta vecchiezza, senza nuocere alla facilità della comprensione.

Si vede che in questo particolare della lingua, il ch. A. ha messo una diligenza speciale, come nell'adattare le locuzioni ai personaggi, e per questo forse i tre arcadori toccano un poco il triviale (pp. 152-55). Sebbene a primo aspetto possa sembrare che l'arte del ch. A abbia troppo del compassato, pure Il Carroccio potrà essere un monito alla sbrigliata arte moderna. (P. Franceschini)[1]

Ada Negri, nelle lettere che lo Schilirò pubblicò nella seconda edizione del suo Itinerario spirituale di Ada Negri del 1948, esprime alcuni apprezzamenti su alcune opere del Nostro, e del Santo Francesco e del Carroccio dice:

Ho letto e riletto, in questi giorni, (agosto 1936) il suo dramma in versi Santo Francesco e anche Il Carroccio. Entrambi bellissimi (non so fino a che punto rappresentabili, perché non m'intendo di teatro); ma, in specie Santo Francesco; vividi e freschi di poesia zampillante, con scene forti e ben tagliate, e passi di alta lirica. Quanto lavoro nella sua vita combattiva! Ma che si farebbe al mondo senza il lavoro e senza la fede?[2]

Ed ecco cosa scrive Antos nei suoi appunti inediti sull'argomento:

Il Carroccio
(Vedere prima Raccoglimento operoso)
Dopo Il Seminatore che non miete il poeta non pubblica più nulla di veramente importante. È la stasi necessaria alla costruzione del nido di nuovi canti a Catania, dove avverrà l'incontro con Pietro Mignosi. Codesta stasi si chiude con un dramma, ideato e scritto quasi per diporto in quel periodo.

Il Carroccio. Dramma milanese, Bronte s.d. (ma 1931).

Il fatto si riferisce a una delle conseguenze fatali della triste Dieta di Roncaglia, che portò Milano a ribellarsi al Barbarossa e a subirne le terribili prove e devastazioni fino alla vittoria; e comprende gli anni 1162-1176: tempo lungo per lo svolgimento d'un dramma, il quale perciò sembra alle volte mancare di quell'entusiasmo ch'è d'un'opera composta in un unico getto. Ci avrà influito l'averlo scritto, come ho detto, per diporto. Ma questo induce il lettore a chiedersi se il Poeta non avesse una mira pratica. Quell'amaro rimpiangere la libertà perduta, quel fuoco sacro, che a uno dei protagonisti - Ugo Visconte – dà parole degne di un eroe alfierano; quell'amor patrio, che lancia nella mischia il di lui figlio Ruggero fino a perdervi la vista: fanno sentire che anche il Poeta freme e anela a libertà. Ci fu chi gli domandò se egli intendesse alludere alla perduta libertà sotto il regime fascista; ma egli, forse per il periodo delicato in cui si viveva, tenne sempre a confessare che a questo non aveva mai badato. Difficile ciò non era, data la tempra virile del Poeta, che è sicuro e sa attendere il tempo della bonaccia. Ciononostante, il lettore non esclude anche questo aspetto.

Nell'un caso o nell'altro, al critico salta subito all'occhio che il dramma, se non mira principalmente, certo dà poi luogo ai due episodi, i quali più che drammatici, possono dirsi lirici e ci rimenano a Il seminatore che non miete: uno, l'amore fortunato di Isotta con Alberto; l'altro, l'amore sfortunato di Simonetta con Ruggero. Il primo, certamente perché coronato dal matrimonio e dalla nascita di un bambino - Ugo -, che fa pensare a Ombretta Missipipì del Fogazzaro, è, il punto per la gioia calma che detta linee pure e genera una miniatura classica, una di quelle concezioni geniali, che restano.

L'altro, che ci presenta Simonetta nata da una violenza e perciò condannata a non poter essere la nuora di uno zio presunto e irreale, pre­senta già una scena oppressa dal dolore e la tristezza da cui non si sa come si uscirà. Situazione puramente romantica, che, come ho avvertito, richiama la nostra attenzione a Massimo e a Bianca. E come questi, Ruggero e Simonetta, venuti a conoscenza della triste situazione, vivono nel dolore; e, come questi, quando Ruggero è già cieco, Ruggero e Simonetta continueranno ad amarsi, ma con una dedizione pura di mutui sacrifizii e assistenza.

Questa piega finale, ch'è comune a Il seminatore e si ripeterà nel romanzo Gioventù in cammino, potrebbe parere - e, in certo modo, è - una forma stereotipa; ma, questa volta, la scena piglia quasi la vivezza, che nasce da una scena geniale, e si stacca da ogni considerazione, che fa pensare alle similitudini.

I due episodi, che, così, vivono parallelamente e, cosa diversa gioia dell'anima, mettono capo al trionfo e alla liberazione della patria, sono due gioielli degni di stare anche staccati da tutto il dramma precedente e formare due poemetti. Comunque, tutto il dramma, come ha una mirabile unità, pur nella discontinuità del tempo, si ha una quasi perfetta esecuzione stilistica, riguardo al verso, che scorre sempre fluido e senza mai una zeppa, e alla lingua, che, non so se qui più che altrove, fa dello Schilirò il signore vivente del vocabolario, quantunque dispiaccia sempre l'uso di non poche parole arcaiche. [3]


APPUNTI DI ESTETICA

Vincenzo Schilirò riprende il suo pensiero sull'Estetica, iniziato nel saggio l motivi estetici dell'arte dannunziana, poi inquadrato storica­mente ed esposto sistematicamente in Appunti di estetica, e pubblica Arte = Vita che a mio parere è la seconda edizione degli Appunti di estetica.
Un critico dell'epoca dice: «la forte sincerità e la passione per l'argomento sono le due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di chi prende per le mani Appunti di estetica di V. Schilirò».

Altro critico più recente aggiunge: «lo Schilirò fu un profondo studioso delle opere di Croce, riconobbe la validità dell'imp­osta­zione crociana del pensiero estetico e ne fece sue alcune tesi [...] naturalmente il sacerdote-poeta non accetta la tesi del­l'unico spirito immanente nella storia. [...] ma pensa che la retta ragione possa dimostrare [...] la trascendenza di Dio».

Nel nuovo titolo è sintetizzata tutta la teoria estetica dello Schilirò che fa coincidere l'arte con la vita.

Infatti, dopo un breve ma chiaro excursus sulle concezioni dell'arte nei secoli passati e sull'estetica contemporanea (in particolare su quella idealista del Gentile e del Croce), nell'introduzione prende «leale posizione» sull'argomento ed espone il suo concetto dell'arte, dicendo prima di tutto che gli elementi costitutivi di essa non sono né il bello, né il piacere, né la verità né la verosimiglianza, né l'imitazione della natura, né il bene e l'utile e neppure la semplice intuizione. Ma per lo Schilirò l'arte è un fatto interno, sintetico, individuale e originale, al quale contribuiscono fantasia, genio, immaginazione, sentimento e gusto.

L'arte poi si estrinseca e si oggettivizza, sempre secondo il nostro Autore, con il linguaggio, la liricità , la musicalità che producono il godimento estetico.

Il Nostro passa poi a parlare della identità e delle teorie delle varie arti, del loro simbolismo e misteriosità, dell'indipen­denza dell'arte e dei suoi due aspetti: retorico e tecnico.

Nel penultimo capitolo espone i corollari dell'arte: vitalità, differenza tra arte e artificio, per cui si pone l'interrogativo se la fotografia, il cinema, il grammofono, la radio (e oggi avrebbe aggiunto anche la televisione) sono veramente arte e fino a che punto.

E infine chiude con la critica e la storia dell'arte a proposito della quale conclude dicendo: «la storia non si racconta, si vive [...] perché la storia non è fredda illustrazione, ma realtà spirituale in atto. L'arte è storia per se stessa [...]. La storia d'arte non può andare oltre la critica».

Ora riportiamo uno dei tanti giudizi critici sull'Estetica di Vincenzo Schilirò:

La forte sincerità e la passione per l'argomento sono le due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di chi prende fra le mani Appunti di Estetica di V. Schilirò.

Si sente subito il lungo travaglio che ha agitato l'anima di questo scrittore, si sente come l'esame del misterioso e sacro fenomeno artistico sia stato per molto tempo il più ansioso e grave dei problemi che abbiano affaticato il suo spirito. Esso non poteva non essere sentito con passione e sincerità da una tempra di studioso come l'autore, conoscitore acuto della nostra letteratura.[4]





«La Tradizione», fondata da Pietro Mignosi a Palermo, di cui Vincenzo Schi­lirò fu prima colla­bora­tore assiduo, poi con­direttore per la sezio­ne Letteratura e, dopo la morte pre­matura del Mignosi, direttore fino al 1939.




[1] «La Civiltà Cattoli­ca», 15.10.1932.



[2] Schilirò, V., L'itine­rario spirituale di Ada Negri: SEI, Torino 1948, p. 250.






La copertina e gli appunti inediti di Antos su Il Caroccio







[3] Antos, manoscritto inedito, 1.12.1944.










Più diffusamente parla dell'estetica di Vincenzo Schilirò Gerardo Ruggeri nella prima parte del suo saggio Vincenzo Schilirò un sacerdote-poeta pubblicato in «Synaxis», vol. VI, Catania 1988, di cui parleremo nelle pagine seguenti.

Ma ecco come Vincenzo Schilirò presenta Arte = Vita in questa nota premessa al suo libro:

Questi Appunti d'estetica, che si riallacciano embrionalmente al mio lavoro I motivi estetici dell'arte dannunziana (1918), trovano una siste­ma­zione più organica nel mio manuale scolastico del 1924, che fu il primo ad apparire allorquando la riforma dei programmi nelle scuole medie di secondo grado esigette, per poco tempo, una certa conoscenza delle vicende del pensiero estetico.
Ora, ridotti al minimo i cenni storici, ripubblico, riveduta, quella parte che meglio rappresenta il mio modesto contributo alla moderna filosofia dell'arte. E, quantunque il nome di estetica non risponda adeguatamente alla mia concezione dell'arte, pure conservo il titolo del mio manuale, anche perché il millenario dibattito si suole imperniare (pur non esaurendosi) sulle opere d'arte intese quali aisthetà, fatti sensibili.


DALL'ANARCHIA ALL'ACCADEMIA. NOTE SUL FUTURISMO

Dall'anarchia all'Accademia. Note sul Futurismo, del '32 è la terza edizione di quanto pubblicato nel '19 e nel '28 su F.T. Marinetti e il Futurismo e «traccia il passaggio dall'anarchia all'artificio, mettendo, però, in evidenza "il lirismo espressivo" del movimento artistico- letterario». Nel 1933 comincia la collaborazione con la Editrice La Tradizione di Palermo e con la Società Editrice Internazionale (SEI) di Torino. Vediamo cosa scrive padre M. Barbera di «La Civiltà Cattolica»:

V. Schilirò, Dall'Anarchia all'Accademia. Note sul Futurismo,
La Tradizione, Palermo 1933, in 8°, 104 pp., L 5.
È una gustosissima ripassata al futurismo, o, più esattamente, al marinettismo, nato vecchio (l'A. ne dimostra i precedenti nei secoli e anche nei millenni passati) e morto bambino. «Il futurismo è già entrato nel dominio della storia» (p. 77) dopo aver fatto il capitombolo nell'artificio: «Per quanto sbrigliato e dinamico e perseguente l'attimo che fugge, è già caduto nell'agguato, nella buca traditora che il primo nemico dell'arte scava a tutti i pretensiosi: l'artificio» (p. 50).
Il caposcuola, Marinetti, ha già da alcuni anni indossato la montura accademica, simbolo pacifico di riconciliazione col passato (p. 82). Gli scolari si sono più o meno convertiti, primo per valore e per tempo, Giovanni Papini, e poi Carrà, Soffici ecc. Nondimeno l'A. riconosce al futurismo un merito: «quello di contare, come una buona lancia spezzata, sul ciarpame retorico, a favore del lirismo espressivo» (p. 52). Lancia, sì ma buona? [...] sembra di no, a giudicarne anche dalla requisitoria dello stesso A. per tutto il suo libro. Lo Schilirò dimostra acume ederudizione nella critica letteraria, nonché attraente vivacità e colorito di stile; onde questo suo saggio si legge con diletto. (P. Barbera) [5]

Così si esprime in proposito Antos nel suo manoscritto:

Dall'anarchia all'Accademia
Certe apparenti libertà presesi in Santo Francesco e, più, nel Pozzo di Sichem potrebbero parer la spia d'un latente futurismo nell'arte dello Schilirò. Egli però sfatò questo sospetto in Dall’anarchia all’Accademia, Note sul Futurismo, La Tradizione, Palermo 1932. Nel '29 aveva assistito ad una conferenza, che F.T. Marinetti tenne nel foyer del teatro Massimo di Catania, e n'aveva dato relazione in un articolo, che fu il nucleo donde si svolse tutto l'opuscolo del '32. Che non è una semplice e fugace rassegna, ma una disamina minuziosa e profonda dell'idea futurista, manifesta poi nel programma del 1909 e svolta fino a dopo la guerra europea.

L'Autore, non solo fa veder la conoscenza piena e profonda del movimento futurista, ma con la dialettica che lo guida in tutti i problemi di cui si fa sicuro giudice. ne scruta tutte le vene e tutte le fibre, donde non può che uscirne il giudizio più perentorio. Il processo però assume, fin dalle prime battute, un tono sarcastico, che è contenuto da quel fare signorile. nota dominante [23.11-23.12.1943. G.]: dell'arte dello Schi­lirò, che, per altro, sa tutte le malìe, a cui è arrivato il nostro vocabolario. E questo mette a disposizione non solo le metafore, le circonlo­cuzioni e i neologismi più estrosi, ma pur le movenze di uno stile, che abbiamo ammirato altre volte, e, questa volta, con più arguzia.

La condanna del futurismo non riesce nuova a chi vive nell'arengo letterario; ma questo dello Schilirò può considerarsi come il processo di una suprema Corte, cui nulla sfugga e che tutto indaghi con una tenace diligenza che va, senza fallire, alla verità. Da questo la sentenza netta e perentoria, che nella storia letteraria avrà una speciale risonanza. Da allora, chi vorrà sapere qualcosa di chiaro e sicuro sul futurismo, ricorrerà a questa prima monografia, che se n'è interessata in tempo e con rara competenza. [23.12.1943. G.] [6]
 

[4] De Franco, E., «Cor­riere di Sicilia., XLVII, 50.




















[5] «La Civiltà Catto­li­ca», 17.6.1933



Dall'anarchia all'ac­cademia, la recen­sione di Antos





[6] Antos, mano­scritto inedito.

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