4 . La sua libera attività letteraria (Catania 1931 - 1948)
Con il suo trasferimento a Catania per lo
Schilirò si aprono più vasti orizzonti: infatti, accantonati alcuni
lavori di cui parla Antos, e mai più pubblicati, egli si dedica
principalmente a «La Tradizione» di cui è direttore della sezione
letteraria, senza però trascurare la produzione letteraria e la
riedizione di alcune sue opere precedenti con case editrici di più
larga diffusione, specie con la Società Editrice Internazionale (SEI),
come abbiamo detto precedentemente.
IL CARROCCIO Pubblicò però ancora a
Bronte il suo terzo lavoro teatrale: Il Carroccio in cui
«superato l'estetismo del D'Annunzio, dimostra come si possa
commuovere con la rappresentazione di un dramma in versi di argomento
storico: infatti in esso si intrecciano l'amore fisico di quattro
protagonisti con l'amore per la libertà». Ecco quanto ne scrisse un recensore de «La Civiltà Cattolica»: V. Schilirò, Il Carroccio,
Dramma milanese, STS, Bronte 1931, in 12°, 190 pp., L 6.
Critico di arte e insieme cultore dell'arte drammatica, il ch.
Schilirò, dopo avere studiato I Criteri estetici dell’arte D’Annunziana
(Catania, Giannotta, 1918), ci fa vedere in un dramma di
argomento abbastanza arduo per la rappresentazione, come si possa
commuovere, senza incorrere nei vizi dell'estetismo.
Il trionfo di Legnano, gloria non della sola Milano ma dell'Italia,
nonostante le difficoltà del soggetto, trova qui l'azione così
abilmente impostata, gli affetti e le passioni tanto armonicamente
intrecciate, che pure i due idilli di Simonetta ed Alberto, di Isotta
e Ruggero, acuiscono e rinfocolano l'amore della desiderata libertà.
Se non sono tutti storici i personaggi, è storico il quadro, storico
lo spirito milanese, l'entusiasmo del sacrifizio e l'amore alle Somme
Chiavi. Il colore poi del tempo e del luogo traspare nella nobiltà del
verso, nella cura della lingua, nella proprietà dei termini, che
spesso danno sapore di robusta vecchiezza, senza nuocere alla facilità
della comprensione.
Si vede che in questo particolare della lingua, il ch. A. ha messo una diligenza speciale, come nell'adattare le
locuzioni ai personaggi, e per questo forse i tre arcadori
toccano un poco il triviale (pp. 152-55). Sebbene a primo aspetto
possa sembrare che l'arte del ch. A abbia troppo del compassato, pure
Il Carroccio potrà essere un monito alla sbrigliata arte
moderna. (P. Franceschini)[1]
Ada
Negri, nelle lettere che lo Schilirò pubblicò nella seconda edizione del suo
Itinerario spirituale di Ada Negri del 1948, esprime alcuni apprezzamenti su
alcune opere del Nostro, e del Santo Francesco e del Carroccio
dice: Ho letto e riletto, in questi giorni,
(agosto 1936) il suo dramma in versi Santo Francesco e anche Il
Carroccio. Entrambi bellissimi (non so fino a che punto rappresentabili,
perché non m'intendo di teatro); ma, in specie Santo Francesco; vividi e
freschi di poesia zampillante, con scene forti e ben tagliate, e passi di alta
lirica. Quanto lavoro nella sua vita combattiva! Ma che si farebbe al mondo
senza il lavoro e senza la fede?[2] Ed ecco cosa scrive Antos nei suoi appunti inediti sull'argomento: Il Carroccio
(Vedere prima Raccoglimento operoso)
Dopo Il Seminatore che non miete il poeta non pubblica più nulla di
veramente importante. È la stasi necessaria alla costruzione del nido di nuovi
canti a Catania, dove avverrà l'incontro con Pietro Mignosi. Codesta stasi si
chiude con un dramma, ideato e scritto quasi per diporto in quel periodo.
Il Carroccio. Dramma milanese, Bronte s.d. (ma 1931).
Il fatto si riferisce a una delle conseguenze fatali della triste Dieta di
Roncaglia, che portò Milano a ribellarsi al Barbarossa e a subirne le terribili
prove e devastazioni fino alla vittoria; e comprende gli anni 1162-1176: tempo
lungo per lo svolgimento d'un dramma, il quale perciò sembra alle volte mancare
di quell'entusiasmo ch'è d'un'opera composta in un unico getto. Ci avrà influito
l'averlo scritto, come ho detto, per diporto. Ma questo induce il lettore a
chiedersi se il Poeta non avesse una mira pratica. Quell'amaro rimpiangere la
libertà perduta, quel fuoco sacro, che a uno dei protagonisti - Ugo Visconte –
dà parole degne di un eroe alfierano; quell'amor patrio, che lancia nella
mischia il di lui figlio Ruggero fino a perdervi la vista: fanno sentire che
anche il Poeta freme e anela a libertà. Ci fu chi gli domandò se egli intendesse
alludere alla perduta libertà sotto il regime fascista; ma egli, forse per il
periodo delicato in cui si viveva, tenne sempre a confessare che a questo non
aveva mai badato. Difficile ciò non era, data la tempra virile del Poeta, che è
sicuro e sa attendere il tempo della bonaccia. Ciononostante, il lettore non
esclude anche questo aspetto.
Nell'un caso o nell'altro, al critico salta subito all'occhio che il dramma, se
non mira principalmente, certo dà poi luogo ai due episodi, i quali più che
drammatici, possono dirsi lirici e ci rimenano a Il seminatore che non miete:
uno, l'amore fortunato di Isotta con Alberto; l'altro, l'amore sfortunato di
Simonetta con Ruggero. Il primo, certamente perché coronato dal matrimonio e
dalla nascita di un bambino - Ugo -, che fa pensare a Ombretta Missipipì
del Fogazzaro, è, il punto per la gioia calma che detta linee pure e genera una
miniatura classica, una di quelle concezioni geniali, che restano.
L'altro, che ci presenta Simonetta nata da una violenza e perciò condannata a
non poter essere la nuora di uno zio presunto e irreale, presenta già una scena
oppressa dal dolore e la tristezza da cui non si sa come si uscirà. Situazione
puramente romantica, che, come ho avvertito, richiama la nostra attenzione a
Massimo e a Bianca. E come questi, Ruggero e Simonetta, venuti a conoscenza
della triste situazione, vivono nel dolore; e, come questi, quando Ruggero è già
cieco, Ruggero e Simonetta continueranno ad amarsi, ma con una dedizione pura di
mutui sacrifizii e assistenza.
Questa piega finale, ch'è comune a Il seminatore e si ripeterà nel
romanzo Gioventù in cammino, potrebbe parere - e, in certo modo, è - una
forma stereotipa; ma, questa volta, la scena piglia quasi la vivezza, che nasce
da una scena geniale, e si stacca da ogni considerazione, che fa pensare alle
similitudini.
I due episodi, che, così, vivono parallelamente e, cosa diversa gioia
dell'anima, mettono capo al trionfo e alla liberazione della patria, sono due
gioielli degni di stare anche staccati da tutto il dramma precedente e formare
due poemetti. Comunque, tutto il dramma, come ha una mirabile unità, pur nella
discontinuità del tempo, si ha una quasi perfetta esecuzione stilistica,
riguardo al verso, che scorre sempre fluido e senza mai una zeppa, e alla
lingua, che, non so se qui più che altrove, fa dello Schilirò il signore vivente
del vocabolario, quantunque dispiaccia sempre l'uso di non poche parole
arcaiche. [3]
APPUNTI DI ESTETICA
Vincenzo Schilirò riprende il suo pensiero sull'Estetica, iniziato nel
saggio l motivi estetici dell'arte dannunziana,
poi inquadrato storicamente ed esposto sistematicamente in Appunti di
estetica, e pubblica Arte = Vita che a mio parere è la seconda
edizione degli Appunti di estetica.
Un critico dell'epoca dice: «la forte sincerità e la passione per
l'argomento sono le due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di
chi prende per le mani Appunti di estetica di V. Schilirò». Altro critico più recente aggiunge: «lo Schilirò fu un profondo studioso delle
opere di Croce, riconobbe la validità dell'impostazione crociana del pensiero
estetico e ne fece sue alcune tesi [...] naturalmente il sacerdote-poeta non
accetta la tesi dell'unico spirito immanente nella storia. [...] ma pensa che la
retta ragione possa dimostrare [...] la trascendenza di Dio». Nel nuovo titolo è sintetizzata tutta la teoria estetica dello Schilirò che fa
coincidere l'arte con la vita. Infatti, dopo un breve ma chiaro excursus sulle concezioni dell'arte nei
secoli passati e sull'estetica contemporanea (in particolare su quella idealista
del Gentile e del Croce), nell'introduzione prende «leale posizione»
sull'argomento ed espone il suo concetto dell'arte, dicendo prima di tutto che
gli elementi costitutivi di essa non sono né il bello, né il piacere, né la
verità né la verosimiglianza, né l'imitazione della natura, né il bene e l'utile
e neppure la semplice intuizione. Ma per lo Schilirò l'arte è un fatto
interno, sintetico, individuale e originale, al quale contribuiscono fantasia,
genio, immaginazione, sentimento e gusto. L'arte poi si estrinseca e si oggettivizza, sempre secondo il nostro Autore,
con il linguaggio, la liricità , la musicalità che producono il godimento
estetico. Il Nostro passa poi a parlare della identità e delle teorie delle varie arti,
del loro simbolismo e misteriosità, dell'indipendenza dell'arte e dei suoi due
aspetti: retorico e tecnico. Nel penultimo capitolo espone i corollari dell'arte: vitalità, differenza tra
arte e artificio, per cui si pone l'interrogativo se la fotografia, il cinema,
il grammofono, la radio (e oggi avrebbe aggiunto anche la televisione) sono
veramente arte e fino a che punto. E infine chiude con la critica e la storia dell'arte a proposito della quale
conclude dicendo: «la storia non si racconta, si vive [...] perché la storia non
è fredda illustrazione, ma realtà spirituale in atto. L'arte è storia per se
stessa [...]. La storia d'arte non può andare oltre la critica». Ora riportiamo uno dei tanti giudizi critici sull'Estetica di Vincenzo
Schilirò: La forte sincerità e la passione per l'argomento sono le
due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di chi prende
fra le mani Appunti di Estetica di V. Schilirò. Si sente subito il lungo
travaglio che ha agitato l'anima di questo scrittore, si sente come l'esame del
misterioso e sacro fenomeno artistico sia stato per molto tempo il più ansioso e
grave dei problemi che abbiano affaticato il suo spirito. Esso non poteva non
essere sentito con passione e sincerità da una tempra di studioso come l'autore,
conoscitore acuto della nostra letteratura.[4] |