4 . La sua libera attività letteraria (Catania 1931 - 1948)
VEN. IGNAZIO CAPIZZI Padre Antonio Messineo, altro illustre Brontese, su «La Civiltà Cattolica» del
novembre 1933, presenta il Ven. Ignazio Capizzi, fondatore dell'omonimo
Collegio di Bronte, scritto dallo Schilirò per «pagare il debito che lo lega al
Collegio per l'istruzione ricevuta» in esso. Il lavoro è «un modesto rapido profilo di un uomo eroicamente umile», chiamato
dal pontefice Pio IX «il S. Filippo Neri della Sicilia».
Così ne parla il suo concittadino padre Antonio Messineo di «La
Civiltà Cattolica»: V. Schilirò, Ven. Ignazio Capizzi, SEI, Torino 1933,
in 16°, 162 pp., L. 3,50.
Questo libretto è un vero piccolo gioiello d'arte descrittiva.
Raramente si incontra nell'ampia letteratura agiografica dei nostri
tempi un profilo di santo abbozzato con tanta intuizione e
penetrazione psicologica, interno calore e squisita cesellatura
linguistica.
L'A. non ha inteso darci una compiuta biografia del grande apostolo,
chiamato dal pontefice Pio IX il S. Filippo Neri della Sicilia, ma
«un modesto rapido profilo non disdicevole forse a un uomo
eroicamente umile».
La narrazione scorre, quindi, agile, fluida e piacevole, senza
quegli indugi sui piccoli episodi e sulle minute cronologie, che
sogliono appesantire l'andare di tali descrizioni, se non sono
maneggiati da una mano maestra.
All'A. veramente non sarebbe mancata la lena per un simile lavoro,
ma egli ha voluto mettere in rilievo, con fine intuito, quei tratti
della travagliosa vita del Capizzi, che più giovano a disegnare la
fisionomia, a fame comprendere il carattere adamantino, a spiegare
il mistero di un fanciullo, che corre attraverso le ariose campagne,
dietro il gregge dei suoi agnelli e si solleva poi, gradino per
gradino, soffrendo e beneficando, alle altezze di una santità
eroica, alle sublimi dedizioni di un apostolato sacerdotale «tutto
fervore di spirito e di bene, che impersona l'annullamento di sé e
l'amore degli altri». Il ch. Schilirò ha con
questo libretto degnamente pagato il debito che lo lega ai Capizzi, per
l'istruzione ricevuta nell'istituto, eretto dal santo sacerdote in
Bronte, sua città natale, «uno dei principali semenzai della cultura
siciliana: non soltanto foro della lingua latina, come lo chiamò Ruggero
Bonghi, ma principalmente magnifica palestra di cristiana e civile
formazione». (P. Messineo) [1]
SCHEMI E
CONCEZIONI STORICHE Di Schemi e concezioni
storiche (dello stesso anno 1933) ho trovato questa
recensione autografa inedita di Antos: Sono
appunti - come dice l'Autore nella breve prefazione - d'una
conversazione, dove fu necessario chiarire che lo storicismo
non può fondarsi su alcun sistema filosofico; perché nessuno
può fissar - con cognizione di cause - il principio e la
vita delle cose. Solo la concezione cattolica dà la
soluzione dei problemi della conoscenza così, che la mente
umana se n'appaghi. [13.3.1944. L.]
IL POZZO DI
SICHEM Dopo Primavera triste del 1912 e Il
seminatore che non miete del 1923, lo Schilirò pubblica,
nel 1934, Il pozzo di Sichem, magistralmente
recensito da padre Domenico Mondrone S.J. ne «La Civiltà
Cattolica» del settembre 1934. In questa terza e ultima raccolta di poesie il recensore
vede nello Schilirò «un tenace della tradizione, non dei
clichés tradizionali [nel quale] pare che la sua norma
sia quella di fondere con spirito nuovo i buoni
elementi dell' arte poetica antica». |
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[1] «La Civiltà Cattolica», 18.11.1933.
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Ma leggiamone per intero la recensione: Ultimo,
ed in buon punto, ci giunge un bel volume di Vincenzo
Schilirò.[2]
Avversario dichiarato del vacuo «astrattismo» prediletto da
certi lirici moderni, questo siciliano porta invece nella
sua poesia il contributo di tutto l'uomo: intelligenza,
immaginazione, sensibilità artistica. Ogni sua lirica è
avvivata da un pensiero, colto secondo aspetti per lo più
originali ed espresso ora con estrema semplicità, ora
mediante un carico sovrapporsi di colori, da far pensare ai
capricciosi e sgargianti ghirigori di certi frascami
arabeschi.
Ma soprattutto c'è aria, c'è luce ed olezzar di agrumeti:
una poesia che offre un buon documento di sincerità nel
caratteristico sapore che ci porta della sua terra.
Si avverte subito, nello Schilirò, un realismo così
rettamente umano, da prendere, quasi senza volerlo, un
carattere, più che un semplice indirizzo, schiettamente
religioso e morale. Segno che l'A. ha una consumata
attitudine a raccogliersi sui fatti, talora più modesti ed
inosservati, della vita, guardarli direttamente in
profondità e trarne significati aderenti alla nativa
dirittura della sua anima e spontaneamente conformi alla
sana e religiosa comprensione dell'arte.
Chi legga Chiesetta montana, Nulla e tutto, Fantasie,
Poter sognare, Calen
di marzo, La luce del Signore, Vigilia, s'accorgerà facilmente che
c'è vera aria di novità.
Questa novità è contraddistinta, tra l'altro, da un suo
particolare intento conciliativo tra la poesia ortodossa e
la nuova, sia per ciò che riguarda la questione del
contenuto, come per le forme metriche. Lo Schilirò non vuol
essere un novatore garibaldino, rivoluzionario; ma neppure
vuol ristagnare troppo nel passato. Tenace della tradizione,
non dei clichés tradizionalisti, pare che la sua
norma sia quella di fondere con spirito nuovo i buoni
elementi dell'arte poetica antica. Ma egli è
interamente riuscito nel suo intento?
Tra i demolitori del passato ed i fautori di novità da non
prendersi affatto sul serio, il poeta vero, geniale,
rappresentativo, che possa assidersi tra le due sponde,
purtroppo ancora non si vede spuntare sull'orizzonte della
nostra poesia.
Ora, tante belle impressioni destate dal libro dello
Schilirò sono spesso attenuate dall'abuso d'un frasario
piuttosto ricercato, da modi abbastanza prosaici e
ineleganti, e da immagini d'una certa "virtuosità"
secentesca.
Quanto gli effetti metrici, sebbene l'A. non sappia
rinunziare, e fa bene, «all'armonia nascente dall'accento
ritmico», ottenuta col saper «abilmente fondere e variare i
versi tradizionali», ed atta a «dare alcunché di
quell'armonia interiore che è l'armonia del momento
creativo», tuttavia l'orecchio non ha saputo accomodarsi al
suono di parecchi tratti, dove difficilmente si riesce a
percepire una gradita espressione ritmica, anche se cercata
in tutto il giro d'un periodo strofico.
Oggi si parla spesso di un'armonia intesa come elemento
lirico interiore; ma se questo si vuol comunicare ad altri,
è impossibile fare a meno di una regolata espressione
metrica della strofa, che ne è appunto il veicolo esterno.
Se è vero che l'arte è pazienza, forse bisognerà ancora
studiare per scoprire la legge metrica, che governi, con più
fortuna di risultato, il ritmo accettabile della strofa
nuova. Ma anche in ciò, messa da parte ogni astrusità
metafisica, bisogna ritenere come prima e più elementare
norma d'una buona armonia: quod auditum placet. (P.
Mondrone)[3] Ma
eccone la recensione inedita di Antos: Il
pozzo di Sichem Pur questo volume di versi:
Il pozzo di Sichem (La Tradizione, Palermo 1934), spunta
dopo un notevole intervallo. Ma, questa volta quante
esperienze non si sono accumulate dalla febbrile attività
letteraria del dopoguerra!
Sembra però curioso: lo Schilirò, proclamatosi già
energicamente «antiletterario», in un articolo di «La
Tradizione», dà poi qui le prove più folgoranti delle
ricchezze di lingua e di stile acquisite da quelle attività
a cui egli, sensibilissimo, non poteva naturalmente rimanere
estraneo; anzi, talora - nonostante l'espressa dichiarazione
nella quasi prefazione «A scanso di equivoci» - pare
scivolar addirittura nel futurismo.
Ma non inutilmente ho
parlato di esperienze. Se il libro si legge una seconda
volta, ogni apprensione cade, e il lettore si trova dinanzi
al poeta.
Non tutto, certamente, potrà appagare ogni lettore. C'è chi
piglierà tutto il volume per pura poesia - non dico poesia
pura -; c'è chi vedrà in certe poesie il critico, il quale
non fa qui il processo a un altro poeta, al D'Annunzio, per
esempio; in certe altre vedrà il poeta, che canta il mondo
dell'anima sua. Il secondo forse si troverà più a suo agio,
quando vorrà riprendere gli toccherà spesso il volume.
[6.11.1944. L.] Il titolo è suggestivo. Non
solo riconduce la mente alla fonte inesauribile, che spegne la
sete a quanti vi ricorrono, ma anche a quel pozzo dove Gesù
trovò il ristoro alla sete di anime; una idea e l'altra
s'avvicendano e s'illuminano e qui è la genialità di molte di
queste 58 poesie in cui il Poeta fa risonar le corde più
delicate dell'anima sua e in cui ogni lettore avverte in sé
l'eco misteriosa, propria dell'arte. Prendere, per esempio, la
prima: Il pozzo di Sichem. Essa è già, più che specie di
prefazione, una fonte donde zampilla il sorriso di tutte le
altre poesie.
L'occhio del Poeta - e l'occhio, l'anima - si protende ansioso,
estatico, quello «della suora di Lazzaro» per seguire Gesù lungo
il cammino «ahi! lungo, polveroso, riarso / nel sole a picco».
E, dove passa Gesù, egli negli immensi campi di «bionde spighe,
che riflettono sù, la sua biondezza»; vede i calcoli
affannosamente umani di Giulia e di Filippo, speranzosi nel
guadagno e nel pane, e la tacita risposta degli occhi di Gesù:
«Un altro, un altro è il pane che satolla!» spunta allora la
Samaritana, che dà a Gesù l'acqua del pozzo e riceve l'acqua,
che l'anima disseta in sempiterno. Una visione veramente da
estatico si riflette in ogni anima, la quale sente dati per sé
gli ultimi candidi versi: «O donna dai cinque mariti; / o
folle arsura, che invano attingevi / dal pozzo dei padri, e poi
che trovasti la fontana viva, / orsù cammina / e ad essa guida /
la triste torma dagli assetati». L'ampiezza del
respiro è pari alla visione e il canto dà la misura del verso,
che - ben dice, con coscienza, il Poeta - «è verso» e non altra
manifattura in voga ai nostri tempi. Il quadro è breve; e questo
mi fa pensare al De Vigny, parco nelle parole e nei versi da
parer quasi povero d'espressione dinanzi al magniloquente Hugo,
ma più preciso, più intenso nella visione, dove l'anima sembra
perdersi. Confrontate il primo poemetto del Vigny-Moise con la
poesia dello Schilirò, che ho brevemente illustrato e ch'è pur
essa un poemetto, e vedrete quasi la medesima anima, che, in una
eterea solitudine, cerca dissetarsi. Non importa qui il
confronto dell'un poeta, che, non credente, va a dissetarsi
nella morte, con l'altro, che, credente, va a dissetarsi nel
«pozzo di Sichem». Questa considerazione spirituale non offende quel confronto, che
ho voluto far io, ma non so s'abbia una ragion d'essere nella mente
dell'artista. Il quale non si è accorto nemmeno che, sol nel suo modo
d'esprimersi, c'è qualcosa - qualche piccola cosa -, che rimane dallo studio del
D'Annunzio, pur da lui tanto tenuto a bada, e dal Pascoli, tanto da lui ammirato
e finanche difeso (in Bricciche letterarie). Fortuna però che, nell'uno e nell'altro caso, l'espressione è
vivificata dal soffio che avvisa tutta una poesia. E questo soffio viene
dall'anima del Poeta, che dovunque rissa l'occhio vede e canta.
C'è - come ho accennato - dove una visione attira più il pensiero e, quindi, fa
pensare al critico; ma non si leggeranno mai abbastanza molte altre poesie, che
fanno sentire i palpiti del Poeta e muovono quelli dei lettori. Eterna umanità.
Leggete: Mani sudice; Vagabondo e mattiniero; Il mio
pane; Sii buono; Più su; Primavera; Malinconia e altre simili.
Qui il
Poeta, con l'anima dolorante e protesa nell'infinito, piange, sì, il dolore che
serpeggia nella vita; sente l'angoscia della vita. che non vuoi morire e pur
vola rapidamente; ricorda la giovinezza che diede tante speranze e non è più;
sente l'ombra della morte, che pesa allo sguardo e al cuore; ma di tutti questi
sentimenti sa l'armonia di un canto, che s'eleva a una vita più bella e
duratura. «Rimira i prati / ora ch'è sciolto il gelo / e la nebbia è sparita. /
Vedi? la terra, che i semi seppellì e li disfece / non soffocò, / moltiplicò la
vita / e anche i chicchi caduti / del nostro tempo I l'Agricoltore eterno
/ moltiplica all'infinito / nel suo giardino fiorito.» (Non è morto) Ma c'è soprattutto L'aquilone, dove il Poeta rievoca con immensa
gioia dei suoi trastulli puerili, più caro tra tutti quello dell’aquilone che
oggi gli risveglia desideri più alti e intensi: «Tutto / il filo del
mondo ti allento. / Ascendi, / occhiata che avrai la tenda plumbea, / di
là risiede l'azzurro e l'infinito».
E sta in questo gemere ansioso se il soffio, che - come dicevo - avviva l'unità
a tutti i canti di questo volume e fa fare certi nei, che trovano la loro
origine nella cultura classica del Poeta, nel D'Annunzio e nel Pascoli.
[10.11.1944. V.)[4] |
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[2] Schilirò, V., Il pozzo di Sichem, La
Tradizione, Palermo 1934,140 pp., L. 10.

Il pozzo di Sichem, la recensione inedita di Antos
[3] «La Civiltà Cattolica», 1.9.1934. |
COME VEDO PIRANDELLO Nel '35 esce Come vedo Pirandello in cui si evidenzia il dissidio critico tra lo
Schilirò e il suo giovane amico Pietro Mignosi sulla religiosità del drammaturgo
siciliano dal Mignosi asserita, ma negata dallo Schilirò. Su questo saggio critico ecco cosa scriveva al nostro la Negri: «il suo libro su
Pirandello [...] è di una acutezza mirabile e in tante osservazioni e deduzioni
mi sembra abbia assolutamente ragione. A me ogni opera pirandelliana è stata
sempre cagione di oscura sofferenza, senza spiraglio di conforto.
Ma egli fu la prima vittima del suo genio tormentato». E lo scrittore di «La Civiltà Cattolica» scrive: V. Schilirò, Come vedo Pirandello,
SEI Torino-Catania 1937 (seconda edizione), in 8°, 144 pp., L. 7. Salutiamo con vivo compiacimento la seconda edizione di questo libro di disamina
giudiziosa ed oggettiva, che l'A. ha condotta sul grande commediografo, in
risposta al volume di Pietro Mignosi Il segreto di Pirandello. E noto
come nel libro dello Schilirò vengono esaminate le posizioni ideologiche,
estetiche ed areligiose di Luigi Pirandello; ed è noto pure con quanta unanimità
di consensi fosse accolta la prima edizione di questo libro, quando il Mignosi
gettò sul tappeto la sua tesi in favore della religiosità del grande
commediografo.
Ora che attorno alla improvvisa scomparsa di quest'ultimo, quelle discussioni si
sono alquanto riaccese, il libro dello Schilirò si presenta nuovamente
opportuno, e con qualche aggiunta sull'ultimo Pirandello. (P. Mondrone) [5] Nel '36 avviene l'incontro ufficiale con Ada Negri: lo Schilirò scrive un
«compendioso articolo» sulla Poetessa, pubblicato su «La Tradizione» ed Ella lo
ringrazia con queste parole: «Lei penetra e rende benissimo il mio dramma [...]
e, dovendo io stessa parlare di me, non avrei detto diversamente». Nel luglio dello stesso anno conosce personalmente la Negri a Pavia e, dopo
esserne stato esortato dal Mignosi e dal Casnati, decide di «dare uno sguardo
complessivo all'evoluzione dell'arte della Negri sulla scorta del di lei
itinerario spirituale».
La poetessa di Lodi ne fu lusingata e gli disse: «Che vogliate occuparvi della
mia attività letteraria è cosa che lusinga anche me, perché voi non siete uno
dei soliti critici». Fu così che nacque L'itinerario spirituale di Ada Negri, come
specificheremo nelle pagine seguenti. In quell'anno (1936) V. Schilirò pubblicò Papà Ottocento e il suo rampollo,
composto da «due articoli nati per andare insieme. Il primo dà uno sguardo
sommario alla fisionomia spirituale dell'Ottocento, senza riguardi a idoli e a
scuole; il secondo, stabiliti i rapporti fra Ottocento e Novecento, richiama
l’attenzione sul problema della "sanità e vitalità della letteratura" quale esso
è prospettato nel nuovo clima».[6]
LA DIVINA COMMEDIA DI DANTE ALIGHIERI, ANNOTATA E VOLTA IN PROSA Particolare attenzione merita La Divina Commedia di Dante Alighieri, annotata
e volta in prosa dallo Schilirò, di cui ha riferito su «La Civiltà
Cattolica» del luglio 1937 padre Mondrone per l'Inferno,
evidenziando in primo luogo che essa è diretta «agli studenti e non ai
professori e ai dantisti» e, quindi, anche le note sono «quanto bastano a
chiarire il testo. [...] La traduzione in prosa del testo dantesco è molto ben
fatta e di grande utilità scolastica», ma leggiamone la recensione completa: V. Schilirò, La Divina Commedia di Dante
Alighieri annotata e volta in prosa: Inferno, SEI, Torino-Catania 1937, in
8°, 274 pp., L. 10.
Solo chi passa per la dura esperienza della scuola può intendere con quanta
ragione lo Schilirò giustifichi questa sua nobile e ben riuscita fatica.
«Non essendo il poema dantesco di facile e spedita lettura, il giovane, prima
ancora di gustarne la bellezza, si sente stanco ed annoiato. Bisogna pur
confessare che di tale noia e stanchezza alquanto responsabili sono i
commentatori, i quali con la retta intenzione di spiegare bene e largamente la
Commedia, finiscono col bardarla ed appesantirla di soffocante erudizione
e di chiose spesso arbitrarie».
Di qui la idea di un'edizione, la quale
«presentando il poema col minimo di cultura mortificatrice e col massimo di
scorrevole chiarezza, riesca a farlo leggere difilato, come si legge un romanzo
interessante».
L'A. dirige quindi il suo lavoro agli studenti e non ai professori o ai
dantisti; e «del giudizio favorevole degli studenti - dice egli con la spigliata
libertà di uomo pratico - sono quasi sicuro».
Per il suo intento, l’A. ha ridotto al minimo gli ingombri dottrinali, esegetici
e poliallegoristici. Note, quante bastano per chiarire il testo. Appiè pagina
c'è la traduzione in prosa del testo dantesco. È il lavoro sul quale abbiamo
volta di più la nostra attenzione e lo troviamo molto ben fatto e di grande
utilità scolastica. L'edizione è, anche tipograficamente, bella. (P. Mondrone)[7] Per il Purgatorio ha recensito il padre G. Busnelli S.J. ne «La
Civiltà Cattolica» dell'agosto del 1938 soffermandosi sulla interpretazione dei
vv. 73-75 del canto XXV, perché non la condivide e dandone una sua dotta e
puntuale versione.
Eccone la,dettagliata e dotta recensione: Dante Alighieri. La Divina Commedia
annotata e volta in prosa da Vincenzo Schilirò. Purgatorio, SEI, Torino
1937, in 16°, 297 pop., L. 10
Fu già da parecchi letterati volto in prosa il divino poema dantesco per
agevolarne l'intelligenza agli studenti; al quale scopo anche questa nuova
riduzione del prof. Schilirò potrà tornare comoda, come utile n'è il breve
commento, sugoso e sufficiente a chi s'appressa a Dante, Minerva oscura di
intelligenza e d'arte, per conoscerne il pensiero, qualche simbolo e notizia de'
personaggi.
Non ci accordiamo col commentatore nell'intendere al canto XXV,
73-75 come lo spirito nuovo di virtù repleto tiri in sua sostanza ciò che nel
corpo animato d'anima sensitiva trova attivo, perché le attività sono molte, tra
le vegetative e le sensitive, e Dante non specifica ciò che è attivo, cui trae
in sua sostanza. Perché, essendo lo spirito già pieno di virtù non gli manca
nessun principio attivo, ma solo ha da tirare in sé quanto di attivo hanno
predisposto nel corpo le anime vegetativa e sensitiva, le quali vengono
sostituite dalla pienezza di virtù del medesimo spirito, che le tira in sua
sostanza, «trahit ad suam substantiam», dice l'Aquinate, in quanto fa proprio
termine delle sue virtù vegetativa e sensitiva il risultato delle due anime
precedenti, o principi attivi, cui non identifica o immedesima in sé, ma
sostituisce, secondo la dottrina aristotelico-tomistica.
Non potrebbe farsi
un'alma sola, di due anime corruttibili e d'un'anima razionale incorruttibile;
ma si fa una alma sola, perché resta nell'animazione spirituale del corpo ciò
che è stato fatto attivamente vegetante e sensitivo dalle anime precedenti
congiunto e vivente e vegetante e senziente per informazione dell'anima
razionale che ha anche in sé virtù vegetativa e sensitiva, oltre la
intellettiva.
Così il calor del sole si fa vivo, in quanto congiunto all'umore
preparato dalla vite, come materia attiva, lo tira in sé scaldandolo, e
avvivandolo del suo attivo fermento, che sostituisce, facendolo suo, senza
identificarlo in sé, il poco calore e la poca attività della vite, cosicché il
vino viene insieme a contenere in parte l'effetto del calor del sole, non già la
forma del mosto, ma la sua materia attiva originata dalla vite, e tramutata per
altra forma.[8]
E il Paradiso chi lo ha recensito?
Nessuno, perché manca nella
biblioteca de «La Civiltà Cattolica». |
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[4] Antos, manoscritto inedito.

[5] «La Civiltà Cattolica», 17.7.1937.

[6] Introduzione a Papà Ottocento e il suo rampollo, La
Tradizione, Palermo 1936, p. 3.

[7] «La Civiltà Cattolica», 3.7.1937.

[8] «La Civiltà Cattolica», 20.8.1938. |
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