Nella lettera n. 35 (senza data, e luogo di invio incerto), ma
sicuramente del 1936, Vincenzo Schilirò si definisce «il nemico più irriducibile
della critica letteraria [...] perché essa non legge nelle pieghe della vita», e
quindi «non può intendere, e molto meno giudicare, le opere d'arte».
Vincenzo Schilirò è contro «il luogo comune crociano» e rimprovera il Momigliano
perché «ricanta agli studenti [...] le parole de La critica su Ada
Negri».[1]
Bolla, ancora, l'Idealismo del Croce e difende la continuità
dell'io della poetessa che non sconfessa mai i suoi sogni giovanili, come
Egli «non sconfessa il socialismo della prima famiglia apostolica, quando
contrariamente alle illusioni giovanili, lo vede socialmente irrealizzabile».
Chiede quindi «informazione sul tempo e le circostanze che Le svelarono
l'infondatezza delle teorie socialistiche». Ecco la trascrizione della lettera: [s. d., ma 1936]
Gentilissima Amica,
ho ricevuto i periodici. Scorrerò tutto, coscienziosamente. Ma sono, e rimango,
il nemico più irriducibile della critica letteraria. Appunto perché essa non
legge nelle pieghe della vita, non può intendere, e molto meno giudicare, le
opere d'arte.
Vede? Anche i più onesti sono infetti di formalismo e scivolano nel banalissimo
e ingiustificatissimo luogo comune crociano. Lo stesso Poderzani [?] ripete il
vieto ritornello: «Il canto che voleva essere universale, di fratellanza,
si fa già più intimo, l'anima già si rivolge in sé medesima».
E il Momigliano ricanta agli studenti (Storia della letteratura italiana, vol.
III, p. 234) le parole de La Critica: «La lirica della Negri interessa
come Storia di uno svolgimento psicologico e tecnico [...] il quale predomina su
quello poetico»; svolgimento che poi non è interessante perché «dovunque
rimangono macchie di prosa e perturbatrici influenze di grandi maestri».
E’, come vede, un ripetere piattamente la più incoerente scempiaggine del Croce,
campata sulla ridicola distinzione fra io privato e io universale
(o idealistico, che fa tutt'uno).
A suo tempo rivedrò parecchie bucce.
Intanto, per me, il Suo io delle prime liriche rimane quello di oggi: con
le sue logiche evoluzioni, ma senza rotture, senza soste, senza rinnegamenti.
Accorgersi che i sogni allettevoli della prima età, saggiati su quella pietra di
paragone che è la vita, si riducano a belle utopie, non significa affatto
sconfessarli: come non sconfesso io il socialismo della prima famiglia
apostolica, quando, contrariamente alle illusioni giovanili, lo vedo socialmente
irrealizzabile.
Purtroppo non si pensa, dalle talpe della critica agnostica, che,
malgrado la caduta di certi ideali, la nostalgia e il culto di essi restano
perennemente vivi, aroma delle anime superiori.
Mi preme tuttavia che Ella mi dia qualche breve informazione sul tempo e le
circostanze che Le svelarono l'infondatezza delle teorie socialistiche. Sia
paziente con me, perché a vanvera, mia cara amica, io non voglio parlare.
Con affetto e devozione,
suo V. Schilirò La lettera di Vincenzo Schilirò alla Negri, dell'1.8.1936 è
praticamente il ringraziamento per l'accoglienza ricevuta a Pavia, la conferma
delle loro «affinità elettive» e l'impegno a scrivere un saggio su di Lei.
Perciò le chiede alcune delle opere che mancano nella sua biblioteca. Anticipa anche che, nel suo giudizio, «avrà molto peso il periodo ansioso delle
rivendicazioni sociali».
A piè pagina di detta lettera compaiono le annotazioni della Negri sui libri
spediti o da spedire. Ma ecco la trascrizione della lettera di V. Schilirò alla Negri, datata Bronte,
1° agosto 1936: Gentilissima Signora Ada,
avrei voluto, dopo il nostro incontro, ringraziarla subito dell'affettuosa
accoglienza e del godimento che il colloquio di Pavia mi ha dato; ma la ricaduta
di una mia sorella, sofferente di cuore, mi ha fatto ritornare precipitosamente
in questo mio paese natale e trascurare per più giorni la corrispondenza. Ora
che il pericolo sembra scongiurato, mi affretto a riparare.
Non le dirò come i motivi della mia simpatia per la sua persona e per la sua
arte si siano rafforzati. Ella, indubbiamente, se n'è accorta: tanto sono
affini, anzi identiche, le nostre aspirazioni!
Cosicché il mio desiderio di scrivere di Lei è diventato proposito. Se Iddio mi
darà salute, è un compito che assolverò.
Passando da Catania ho dato uno sguardo ai miei scaffali di libri, e delle Sue
opere non ho rintracciato che queste: Fatalità, Le solitarie, Libro di Mara,
Sorelle, Canti dell'isola, Le strade, Vespertina, e Il dono.
Se può, mi faccia avere le mancanti, che devo per necessità rileggere; e
così pure quel materiale bio-bibliografico che a Lei sembra di notevole
importanza.
Voglia poi tener presente questo: che nel mio giudizio avrà molto peso il
periodo ansioso delle rivendicazioni sociali. Quelle ansie, che suonano
diminutio per gli altri, per me son luce, sia pure torbida, che illumina, e
fuoco che accende.
Mi ha commosso il giro benefico di quella imitazione, e avrei
voluto ricopiare quelle brevi dediche e dare un'occhiata alle pagine segnate: ma
il tempo volava tanto rapido! Se crede, mi spedisca raccomandato il volumetto a
Bronte (Catania), Glielo restituirei subito con lo stesso mezzo postale.
Coi saluti più affettuosi e calorosi mi abbia Suo dev.mo
V. Schilirò Sotto le ultime frasi della lettera compare
un appunto della Negri, che dice: mancano 2 Di giorno in giorno (mandati oggi)
2 Finestre alte (mandati oggi)
da spedire: 2 Tempeste, Esilio, Maternità, Dal profondo, Orazioni, Stella
Mattutina. La lettera del 12.9.1936, la n. 34, parla della salute di Pietro
Mignosi e del "trasloco" di «La Tradizione» da Palermo o a Milano o a Catania.
Ma con «l'attuale Direzione sarà rivista tipica per coraggio,
indipendenza e originalità». Parla, inoltre, del poeta cubano Godoy [2] del quale la stampa cattolica è
diffidente più che di quella della poetessa lombarda. Vincenzo Schilirò ha risposto alle accuse di antropomorfismo e di
panteismo di «Frontespizio», cosa che gli ha procurato consensi e
congratulazioni. Ma spera «di fare qualcosa di meglio per lei [Ada Negri] e di
potere dissipare le ultime ombre ingiuste».
Per la documentazione richiesta, domanda solo «le notizie positive che
illuminano la sua (della Negri) vita e la sua formazione». Ha «bisogno di
maggior luce sul primo periodo creativo: quello rosso» in cui lo Schilirò scorge
«filoni che con piacere Ella vedrà rilevati». Ma vediamone la trascrizione integrale:
12.9.1936
Mia ottima amica.
la Sua lettera e la Sua cartolina son venute a raggiungermi in campagna.
dove un relativo miglioramento di mia sorella mi sta concedendo qualche
settimana di tregua, dopo un logorante mese di trepidazione che aveva
peggiorate le condizioni del mio stomaco. In questo romitorio montano
l'articolo della Costa Gorini non ho potuto vederlo; lo rintraccerò a
Catania, se Ella me ne indica la data. Non dubito affatto del Suo
desiderio di giovare alla moglie del mio povero Pietro; ma purtroppo non
tutto quello che ci sta a cuore possiamo fare.
Intorno al trasloco di «La Tradizione» non abbiamo ancora deciso nulla.
Fino a dicembre si continua a pubblicarlo a Palermo; poi o a Milano o a
Catania. Di certo c'è questo: che, fino a quando conserverà l'attuale
direzione, sarà rivista tipica, per coraggio, indipendenza e
originalità.
Ha dato un'occhiata al mio articolo su Godoy? Il poeta cubano incontra,
più di Lei, la diffidenza di certa stampa cattolica (nell'ultimo numero
di «Frontespizio» lo si è tacciato di antropomorfismo e di
panteismo):
ed io credo di aver messo le cose a posto, tanto che mi giungono molte
congratulazioni e consensi. Spero di fare qualcosa di meglio per Lei e
di poter dissipare le ultime ombre ingiuste.
Nel mandarmi la documentazione non si preoccupi tanto delle chiacchiere
critiche, quanto delle notizie positive che illuminano la Sua vita e la
sua formazione. Per esempio, ho bisogno di maggior luce sul primo
periodo creativo: quello rosso: ché dove altri (e forse un po'
anche Lei) trovano motivi di facile condanna, io scorgo filoni che con
piacere Ella vedrà rilevati.
L'avverto che di Le Solitarie posseggo l'edizione Treves.
Per tutto questo mese indirizzi pure a Bronte. Voglia conservarmi il Suo
affetto e coi più cordiali saluti mi abbia suo dev.mo
V. Schilirò Presentiamo la lettera alla Negri, datata Catania 22.6.1937, in
cui lo Schilirò dà notizia del suo saggio (L'Itinerario...) dicendo che
Mondadori ha rifiutato di pubblicarlo, ma che sarà pubblicato ugualmente e sarà
anche diffuso come merita.
Eccone il testo integrale: Gentilissima Amica,
la risposta di Mondadori non mi sorprende. E mi sarà certamente facile trovare
chi mi pubblichi il saggio.
Per la diffusione? Faremo di tutto perché il lavoro – che ritengo molto utile ed
opportuno - l'abbia. Intanto quello che mi preme è di condurre al termine lo
scritto. È andato a rilento perché devo accudire a tante cose. Comunque il più è
già fatto.
Quanto mi scrive di Gianguido mi rincresce vivamente. E formulo i migliori voti
affinché il clima marino gli ridia florida la salute.
Dati i miei guai di famiglia, io non so se e quando mi sarà possibile fare una
scappata per costassù. Mi piacerebbe tanto rivederla! anche per tranquillarmi su
qualche punto del mio scritto prima di passarlo alle stampe.
Ad ogni buon fine non trascuri di darmi, quando può, sue notizie e di tenermi
informato sui suoi cambiamenti di sede.
Avrà ricevuto, immagino, la rivista e si sarà accorta che, a proposito del
Cesareo, ho eliminato quell'inopportuno e falso accenno.
Con devoto affetto suo
V. Schilirò
SCELTA ANTOLOGICA Proponiamo ora una scelta antologica, ma sistematica, dell'opera dello
Schilirò, affinché se ne possa apprezzare l'importanza al fine della conoscenza
e della valutazione della poetessa lodigiana. Io, di Ada Negri, cerco l'anima: la «Regina in incognito»,
perché, ripercorse le sue strade, erte, sassose, logoranti [...] ho la certezza
che [...] io scoprirò senza fatica le latenti vene della sua poesia.
L'arte è ascesa [...] e Ada Negri è un'anima che ha saputo ascendere. [Ma] per
la critica l'anima non conta [...] e non si è compreso [...] quanto suoni atona
e falsa la parola quando non porti con sé quel misterioso anelito che l'ha
concepita ed espressa. L'importante è questo anelito, come dice la Negri nel volumetto su Dinin, perché
«altro è Dinin, figlia, scolara, maestrina, scrittrice e oggetto di curiosità,
di umiliazioni, di patimenti, e altro è la "Regina in incognito", anima
inviolata e inviolabile [...] che sente il suo respiro salire dalle umili
profondità della terra [...} e allargarsi ed elevarsi fino alle stelle, con una
netta sensazione di eternità». [La Regina in incognito] Iniziando a parlare de La formazione di Dinin lo Schilirò paragona la
ragazza a certi fiori selvatici che sembrano vivere per miracolo in quanto
scarsi di humus e cure. Nell'angustia soffocante di una portineria, la bimba passò
(sic!) i primi anni in compagnia della vecchia nonna «che, per modo di dire»,
l'accudiva.
«La mamma era sempre assente», perché lavorava in un lanificio e la sera aveva
bisogno di riposarsi a modo suo. Il fratello, Nani, era costretto ad usufruire
dell'ospitalità di uno zio e veniva a trovarla assai di rado e distrattamente. Le figlie dei padroni di casa avevano una certa aria di superiorità nei suoi
confronti e quindi «a chi poteva affidarsi Dinin? Con chi confidarsi?». C'era Tereson, la governante del signor Antonio, un vecchio e macilento
pensionato, la quale faceva buon viso alla piccola «ma con così poca grazia che
deprimeva e sminuiva la fiducia». La signora del palazzo, grassa e dai modi
alteri e bruschi, autoritaria e accanita fumatrice di «sigari Virginia, lunghi,
dall'acre odore, non vuol male alla scarna portinaretta, ma certe sue parole
giungono come scudisciate».
Più cocenti sono i compiti della portinaretta che non può tagliare in due la sua
anima, per lasciare indisturbata sul trono la «Regina in incognito». Anche la Scuola le pesa per le «troppe cose inutili da insaccare a memoria», per
lo squallore delle aule, la freddezza delle maestre e delle compagne. Perciò
qualche volta simula un improvviso malore per andare a respirare nel vestibolo.
«A quelle della scuola, preferisce le lezioni della vita quotidiana» e «seduta
sopra lo scalino di pietra [...] con i suoi occhioni neri e profondi [...]
osserva uomini e cose e tutto ha per lei un linguaggio singolare e ammaliante.
Che è anche musica e contentezza».
Un angolo della sua fantasia è rappresentato dai «cimeli di Giuditta Grisi (la
meravigliosa soprano lirico, di cui la nonna Peppina era stata governante di
fiducia): un astuccio di pelle per oggetti da lavoro, un ritratto in cornice
della famosa cantante, in una cassetta da viaggio.
E’ quello il regno della bellezza, nel "Giardino del tempo" che è tutto suo! Gli svaghi di Dinin consistono in qualche passeggiata estiva con la mamma e
qualche gita in barca sulle acque del lago che non le ispirano alcuna fiducia,
in mezzo a gente i cui discorsi, spesso volgari, non la contaminano, come non la
tocca il realismo di Zola e Dumas. che sono le letture della mamma, la quale non
sa educarla diversamente; ma, per fortuna, la ragazzina ha ereditato dal padre
«le ali dello spirito» con le quali raccoglie «l'alito della poesia e il
desiderio di un mondo nuovo, più bello e più onesto». Anche la formazione religiosa era insufficiente, perché basata sulla
consuetudine formale e sulle suggestioni dei riti.
«Dio. in quel tempo. esisteva per me come l'aria: lo respiravo senza vederlo»,
prova del senso religioso della fanciulla «e utile punto di partenza che aiuta
ad illuminare la falsità della leggenda che addebita alla Poetessa periodi più o
meno lunghi di miscredenza e di bestemmia».
Più tardi le delusioni della gloria, dell'amore e della giustizia sociale le
porranno diversamente il problema di Dio, che dovrà cercare da sé. [La
formazione di Dinin]
l tre sogni di Dinin furono: giustizia, gloria e amore.
Vittoria era una operaia modello della filanda, ma «non ebbe dalla società un
aiuto né per sé né per la figlia». La paga era bassissima, 35 soldi per 13 ore
di lavoro, per cui la figlia «fremeva e accumulava rancore». dicendo: «la
derubano. Quello che dà è scandalosamente più grande di quello che riceve». Di
leghe di resistenza e di scioperi si comincia a parlare, ma sottovoce.
La figlia
di Vittoria osserva, ascolta; ed accetta ed accoglie in sé ogni cosa [...]. Semi
di rancore e di rivolta. Per Dinin il problema sociale nasce e giganteggia,
nella maniera più naturale. fra le mura del suo bugigattolo [...].
«Povera mamma! Ella è stanca [...] oh sì stanca e affievolita!» [vedi
Maternità] Colpa e cattiveria della società. Il necessario per vivere
non dovrebbe mancare a nessuno al mondo».
Nella miseria delle classi lavoratrici Dinin vede il principio di una barricata,
alla quale può fare da diga solo l'amore portato da Cristo.
«Il secondo sogno di Dinin è quello della gloria», perché essa è consapevole «di
possedere la divina scintilla delle anime privilegiate». [Vedi Fatalità e
Tempeste]
«Amare: è la terza illusione [...] non era l'amore di Dio di tutti?» I racconti
della mamma, i romanzi divorati, la vista delle coppie «tubanti», le parole di
Nani su Daria «viso ovale, bianco, di marmo, illuminato da immensi occhi
azzurri» e, a scuola, Drusilla, buona e studiosa, innamorata di Sandro.
Ma sognato è l'amore di Dinin che, non bella, ma dagli occhi bellissimi,
proclamava: «Voglio d'amor la trepida esultanza».
Tre sogni: tre delusioni! [I tre sogni] Le mie simpatie per la Negri non sono strettamente e nudamente letterarie [...]
ma seguo con interesse soltanto quel poco - molto poco - che canta l'umano e
l'intelligibile [...]. Ed ammiro la Negri perché s'è conservata fedele a
l'essenza di realismo ed umanità [...] tenendosi lontana dalle dilaganti mode
esotiche. [...]
Ma la Poetessa mi è ancora più cara [...] perché giovanissima vagheggiò una
forma di socialismo armonizzante col concetto cristiano della società.
Non erano teorie le sue. Era calore di sentimento che si traduceva in accenti di
appassionato lirismo. Era ansia di giustizia sociale e vagheggiamento d'un nuovo
assetto sociale.
Di quel socialismo la Negri non lasciò alcun documento letterario, né esplicito
né organico. Tuttavia [...] saprei rifarne la trama ideale: talmente esso
traspare qua e là, in fugaci accenni, dalle sue prime opere, e talmente esso
si assomiglia a quella larva di socialismo cristiano. che anch'io negli anni
giovanili accarezzavo». I cui capisaldi sono: rispetto sacro e assoluto
dell'individuo [...] non debbono più esistere egoismi dispotici, e tutti gli
uomini han da essere fratelli [...] nel cuore.
Quindi nessun privilegio pei forti e pei ricchi; ed elevazione delle classi
umili [...] Idee sante, ma lontane dalla realtà [...] ma fu codesto il sogno
della Negri, [la quale, però,] si tenne estranea alle competizioni politiche e
non si occupò mai delle aride ed involute teorie di Marx [... nel quale,
tuttavia,] vedeva, sì, un valido patrocinio della causa proletaria senza, però,
accettarne la concezione materialistica né l'assolutismo classista [...] che
avrebbe ingenerato, come diceva in una lettera, «barbarie e rovina». E
concludeva dicendo: «il mio socialismo era stato puramente umanitario» non
politico né marxista.
Per la Negri il mondo «non di odio e di lotte ha bisogno, ma di amore e
solidarietà». [...] Ella sin dagli anni giovanili auspicava al problema sociale
una soluzione in cui si conciliassero la libertà degli individui con le esigenze
della vita collettiva [...] secondo i principi cristiani.
Vedi i versi, «non letterariamente belli, ma caldi di fede sincera e aderenti al
Vangelo» che si leggono in Tempeste, libro giovanile [...] in cui i
superficiali videro dello spirito antireligioso.
Poi la prima grande guerra infiacchì il continente europeo moralmente ed
economicamente, così da esporlo a nuove forme di despotismo e da aggravarne le
già difficili condizioni sociali.
[La Negri] aveva approvato e condiviso le umanitarie ragioni del non intervento
sostenute dai cattolici e dal partito socialista, [...] dal quale si staccò
decisamente quando, a guerra finita, si accorse che esso continuava a tenersi
fedele a postulati marxisti [...] che altrove erano stati superati. [...] Bollò con parole di fuoco le risse che rinnegavano la carità di patria e
armavano i fratelli contro i fratelli (v. Orazioni). [...]
Ebbe parole dure tanto per gli «orrori rossi» quanto per le «rappresaglie nere»
in nome della solidarietà. Più tardi [...] anche la Poetessa cominciò a modificare i suoi giudizi intorno
all'uomo di Predappio, [... credendo che] le nuove corporazioni potessero
realizzare «il vero socialismo» [...]. Illusione breve e gravida di molte
amarezze: ché il secondo conflitto mondiale stava per discoprire agl'ingenui i
trucchi e i pericoli letali del regime totalitario. [Il socialismo della Negri]
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