3 . Il periodo brontese (1912 - 1930)
IL
SEMINATORE CHE NON MIETE Dai principi estetici, esposti dallo Schilirò, a
proposito dell'arte d'annunziana, nasce Il seminatore che non miete che
«riflette il periodo dell'immane guerra e i primissimi anni del dopo-guerra. Si
vorrebbe chiamarlo romanzo o poemetto, a seconda che si guardi alla favola o
alla forma; ma a me pare che abbia qualcosa dell'uno e dell'altro. Quello però a
cui bisogna dare valore assoluto è proprio la favola. L'opera s'ha da guardare
nel complesso dei suoi svariati elementi». La fonte o il motivo ispiratore dell'opera sono I dolori del giovane Werter,
Le ultime lettere di Jacopo Ortis, Miranda e il mistero del Poeta.
Infatti, «l'amore sfortunato di Massimo per Bianca ci rimena a Werter e
Carlotta; l'amore sacrificato sull'altare della patria ci rammenta Jacopo Ortis;
l'idillio, sebbene miseramente finito, ci fa pensare a Miranda». Ma, ripeto, nel Seminatore l'interesse non è destato dal racconto che,
del resto, è semplicissimo. Massimo, appena laureato in giurisprudenza, lui
stoffa di poeta, incontra Bianca, un'anima che lo comprende; se ne invaghisce e
si fidanza. Ma scoppia la guerra ed egli si arruola volontario e va a difendere
la patria. Viene ferito gravemente e sfregiato orribilmente al volto. Tutto è perduto. Che
farà Bianca? Seguita ad amarlo, anche dopo il sacrificio. Infatti quando egli
muore, addolorato dalle discordie civili che mettono in pericolo i frutti della
vittoria e la sicurezza della patria, per cui Massimo e il suo amico Guidotti
hanno immolato la gioventù, ella si vota a una missione di bene e di civiltà. Semplice l'intreccio [...] ma notevolissimo l'effetto estetico, perché la
narrazione [...] si anima della grande esperienza del Poeta e ne rende con
immediatezza le più vive e delicate impressioni [...] che nascono da due
elementi essenziali e inscindibili: l'amore di Massimo per Bianca e l'amore suo
per la patria [...] il Poeta, per una virtù di sintesi straordinaria, ha saputo
infondere tal soffio a quelle fugaci note, che il lettore vola ad ali spiegate
per tutto il campo dell'azione, che è abbastanza vasto. Tutte le gioie delle ore
di speranza, le angosce dei giorni tristi, tutta la vita e l'ideale di Massimo
stanno nei suoi canti [...] mentre Bianca non si sente, ma compare in scena coi
richiami di Massimo: del suo poeta. L'amore della patria: ecco il centro del dramma. Per esso la vita, pur nelle più
gravi sventure, diventa bella, perché dal sacrificio e dal dovere compiuto
germinerà una vita migliore. Concepita così l'esistenza volge a quell'ottimismo
[1]
che comincia a guidare la nostra generazione [...] e possiede ormai una
letteratura tutta sua. Non ultima, in questa, siede l'opera dello Schilirò. Lo Schilirò volle dare il modesto titolo di Appunti
al suo trattato di
estetica forse perché [...] egli ne ha parlato in un volume di appena 220
pagine; ma, di fatto, ha addensato più idee che gli altri, e la sua opera è
completa. Essa, come abbiamo visto, aveva fatto una prima apparizione ne I
motivi estetici dell'arte d'annunziana. [...] In verità essa richiedeva una
trattazione a parte: e lo Schilirò, che vi aveva dedicato tutte le forze della
sua mente sottile e logica e non aveva risparmiato lavoro e veglie amorose,
colse l'occasione del fatto che il Governo, nella riforma scolastica, imponeva
nei licei lo studio dell'estetica e pubblicò a principio del 1924 il nuovo
libro. [...] fuso è così completo e d'un'armonia dialettica che rapisce. [...] Un profano potrebbe supporre che in tema d'arte il vero competente sia
l'artista. Noi diciamo: sì, ma a patto che l'artista sia anche filosofo. «In lui
abbiamo l'artista e il filosofo che ha rifatto per conto suo uno dei sistemi più
discussi, più complessi, più attuali; l'artista che ci presenta tutta la visione
del suo mondo ideale in modo così vivo e limpido».
Il trattato risulta di due parti, di cui la prima comprende alcuni cenni storici
del pensiero estetico, la seconda la trattazione personale dei vari problemi. Ci fu chi disse che egli è un crociano, e tra costoro fui io; chi disse che non
è crociano per nulla; chi, infine, vide in lui un ammiratore del Croce e, come
io stesso allora ammettevo, un rifacitore per conto suo dell'estetica crociana. Oggi mi pare che la vera posizione dello Schilirò l'abbia intravista il Mansion
il quale scrisse: «Ses vues personelles trahissent une influence évidente de l'ésthetique
de B. Croce; mais, en meme temps, il rejétte de la facon la plus décidèe la
philosophie idéaliste à laquelle Croce a rattaché ses vues sur l'art. Dès lors,
la conception ésthétique de Vincenzo Schilirò quand bien meme elle parait se
rapprocher très fort de celle de Croce par certains còtès, prend une
signification totalement différente»[2]. [...] Nel campo della conoscenza c'è un minimo di verità o terreno comune [...]
infatti, accettato il principio [...] che nessuna realtà può essere oggetto di
conoscenza se non in relazione con l'attività conoscitrice, il fatto artistico
deve essere studiato come fenomeno interiore della singola attività spirituale.
[...]
L'opera d'arte, intesa come oggetto sensibile, agisce sull'ammiratore e sveglia
in lui nuovi atti spirituali e sempre nuovi godimenti estetici. [...]
L'essenza, pertanto, del fenomeno estetico s'immedesima con quella misteriosa e
complessa attività creatrice dell' anima umana, che è personale e caratteristica
in ciascun individuo, gli atti singoli del quale sono l'uno diverso dall'altro e
non si ripetono mai nell'identica forma. Così lo Schilirò determina l'unità e
l'individualità di ciascun spirito, ne estende i fenomeni estetici a tutta la
serie ininterrotta di atti coscienti che formano «il costante divenire o
evolversi o vivere di esso». [...]
L'arte si rivela creazione [...] e non può essere contenuta né da generi o
classi, né da categorie, ma segue l'ansito misterioso e le vicende molteplici
della vita [...] e diventa il linguaggio cosciente di ciascun'anima. [...] L'estetica dello Schilirò si differenzia nettamente da quella del Croce nel
precisare l'elemento costitutivo dell'arte, [...] che è per il Croce visione o
intuizione, mentre per lo Schilirò, che si basa sull'unità inscindibile dello
spirito, è uno stimma o connotato divino. Lo Schilirò fa derivare l'indipendenza esistenziale dell'arte dal suo contenuto,
sia logico che morale [...] ma non tutte le opere d'arte sono esempio di
castigatezza e di coerenza logica.
Perciò «la libertà artistica incontra un limite logico nelle altre forme di
attività». [...]
E secondo lo Schilirò il giudizio che critica o analizza un fatto spirituale già
verificatosi, è un nuovo atto spirituale che soppianta il primo, ed è quindi la
negazione di esso. [...] Critica ed estetica sono termini antitetici. In conclusione per lo Schilirò la critica [...] può avere tre aspetti: o è pura
ricreazione, e allora va intesa come rifacimento spirituale dell'opera; o è un
lavoro logico a posteriori [...]; o vuole essere aiuto o mezzo per delibare
l'arte, e allora riesce una fatica vana, perché il gusto non si insegna né si
suggerisce. Egli, perciò, dice ai suoi giovani: «Voi non siete creta da
plasmare, né vasi da riempire. Siete anime libere, che vogliono vivere, ciascuna
per sé, in perfetta autonomia».
SANTO FRANCESCO Nel 1926 Vincenzo Schilirò pubblica, sempre a Bronte,
per i tipi dello Stabilimento Tipografico Sociale, il Santo Francesco,
poemetto drammatico, di cui Antos ci dà questa recensione: |
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[1] Il titolo, secondo me, non fa pensare all'ottimismo, ma piuttosto
a «Amo le rose che non colsi, le cose che potevano essere e non sono
state» del decadente Guido Gozzano.

[2] «Revue néo-scolastique», pp, 488-89
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Egli si avvicina al Santo con la purità e semplicità di cuore dei discepoli di
Lui: lo vede, lo sente, ne respira il profumo e la santità, e può dire che cosa
l'ha mosso a cantare di Santo Francesco: «il fascino della poesia che ridonda
fresca e perenne dai Fioretti: il riflesso della luce chiara, mite, suggestiva,
dei colli e dei ricordi umbri, della quale ho ancor pieni gli occhi» (Prefaz.).
E aggiunge: «Ho lavorato ben poco di fantasia». Ma il Poeta lavorò veramente poco di fantasia? A me sembra invece che lavorò
moltissimo. Poiché, se nulla egli ha tratto da un fondo arbitrariamente
soggettivo, ma tutto ha desunto dalla storia, ciò non diminuisce affatto
l'originalità della creazione: anzi rivela una virtù mirabile: quella che forma
il poeta. La sua fantasia ha saputo far sorgere dall'ambiente storico come da un mare
agitato e insieme luminoso, la serafica figura di Francesco, con cui ha parlato,
vissuto e palpitato, nelle verdi plaghe dell'Umbria e in quelle arse
dell'Egitto, nei momenti idilliaci e in quelli tragici o elegiaci, da solo a
solo o in mezzo a quelle anime che, abbandonato il mondo, si stringevano intorno
al poverello per godere la santa letizia. Dominato da questa magnifica ispirazione, lo Schilirò ha tratteggiato con molta
freschezza e con molta luce le scene più poetiche e suggestive della vita
francescana, riuscendo anche ad accostare, sapientemente fondendola, la nostra
favella a quella del duecento: elemento formale che non tradisce nessun
artificio, perché nato con le visioni stesse. [...] Ma la storia è [...] diventata realtà poetica: onde il Santo, per il
miracolo dell'arte, ancora una volta vive, palpita e fa palpitare.
Nel primo atto Francesco «si stacca da un passato gaio e ancora invitante, e
lotta col padre, fino ad avere il consenso e l'aiuto di Monsignor Guido». Nel secondo atto vediamo il Poverello di Dio nei pressi di Assisi, «quando già
ferve l'opera sua in mezzo ai discepoli. I luoghi non ci vengono descritti ma
dalla vita e dall'accento dei personaggi spira l'aura dell'Umbria verde, la
Palestina francescana e, più, della Porziuncola, ormai tanto cara agli
ammiratori del Santo». Il terzo atto rappresenta la missione di Francesco in Egitto. «A lui non basta
la vittoria [...] sul mondo; vuole anche la vittoria sulla carne; la quale fa
qui l'ultima e la più violenta apparizione». Col quarto atto siamo di nuovo nell'Umbria, tra le mura del pio monastero dove
Chiara bea della sua santità le anime a lei affidate. «Le scene di quest'atto ha
potuto solo immaginarle e solo può gustarle chi, con cuore puro e semplice, s'è
avvicinato a cuori semplici e puri [...] tutto l'atto è un sublime idillio, di
cui il Cantico del sole» è il finale magnifico: canto che fa pregustare
la musica celeste e al quale quelle anime si sono da tempo preparate, compresa
Maddalena, la cui umanità sembra rinata a nuova vita: la vita che Francesco le
ha rivelato. Col solito trapasso lirico, nel quinto atto assistiamo alla fine di Francesco.
[...] Ora che Francesco se ne va, par che tutto si renda conto di questa
dipartita e si veste di malinconia e tristezza. [...]
Chi è abituato alla razionale catalogazione retorica non esiterebbe forse ad
assegnarlo al Romanticismo «ma non a quello degenerativo, ma a quello di una
vita consapevole e delicata, nobilitato dalla fede». Guardato cosi il Santo Francesco è l'ascesa d'una delle più belle vette
della vita, e commuove ed esalta quanti si trovano sulla via dell'esilio a
mirare il passaggio dell'eroe, che ascende col labaro della vittoria. |
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NOZIONI DI LETTERATURA Dice l'Antos: «Vennero in seguito, e come puramente occasionali,
due opuscoletti: F.T. Marinetti e il Futurismo, scritta in
occasione che lo Schilirò assistette a una conferenza del Marinetti; e Nozioni di letteratura
(1929) per le scuole medie». Con ciò l'Antos, non
so come, incorre in due errori: non dice che del primo si tratta della seconda
edizione del 1928, mentre della prima edizione del 1919 non fa alcuna menzione. Si tratta di due brevi lavori, destinati, più o meno, tutti e due ai giovani, ma
il cui schema si delinea netto e l'esposizione chiara, precisa e linda, non meno
delle altre opere. [...] L'artista, nell'ispirarsi e nel comporre, deve accarezzare ed accogliere quelle
visioni che tendono non a corrompere ma ad educare i costumi sociali. Ispirato
poema drammatico Il Carroccio, opera di passione patriottica e di
fede religiosa, ci riconduce alla calata di Federico Barbarossa in Italia nel
1162, alla distruzione di Milano e alla gloriosa battaglia di Legnano.
Il lavoro è veramente un poema, perché, nonostante del dramma abbia la forma e
le proporzioni, pure la sostanza drammatica e fantastica si fonde cosi con
l'ampia visione storica di quel luminoso periodo da formare un poemetto, una
piccola epopea, dove l'autore profonde bellezze di scene; di verso e di lingua. Pel valore poetico Il Carroccio fa il paio col Santo Francesco; e penso
che se la crisi del teatro e le difficoltà della messa in scena non ne
ostacolassero la rappresentazione, l'effetto e il successo dei due lavori
sarebbero sicuri. In fine Antos parla dei manoscritti dello Schilirò che potrebbero e
dovrebbero essere pubblicati negli anni a seguire come: la versione in prosa
della Divina Commedia (che uscirà nel 1937), un racconto veronese dei
tempi scaligeri, un dramma moderno, Ombre e luci, e una commedia,
Gente per bene, che non vedranno mai la luce, sebbene secondo Antos ne
fossero meritevoli.[3] Non abbiamo nessuna notizia sul motivo per cui lo Schilirò non pubblicò mai i
suddetti tre lavori: forse perché preso dalla collaborazione a «La Tradizione»
di Pietro Mignosi e da altri lavori e riedizioni dei precedenti per i tipi della
prestigiosa Casa Editrice cattolica, la SEI di Torino, che allora aveva una sede
anche a Catania. E Antos conclude dicendo: Il ritiro dalla scuola e quell'appartarsi, che per lui si chiama riposo, ci
fa sperare moltissimo. In quasi tutti i lavori dello Schilirò possiamo vedere
l'artista già formato. Ma qui vogliamo rivolgere lo sguardo all'opera intera e
veder l'ascendere di questo scrittore, non a segnar diverse tappe nel suo
cammino, bensì a raggiungere la vetta luminosa d'un monte acquistato in
brevissimo tempo.
Lo si è osservato critico, pensatore e poeta. E queste non
sono tre attività diverse, ma tre facce dell'unica attività del suo spirito: ché
egli è essenzialmente poeta, a qualunque cosa attenda. [...]
A questa virtù geniale si aggiunga la semplicità e limpidezza del dettato, che
sa della tradizione manzoniana ormai uscita dalle molteplici disquisizioni sorte
intorno allo spinoso problema della lingua.
Concludendo dobbiamo «considerare lo Schilirò come poeta che assomma in sé le
virtù d'uomo, di letterato e d'artista». Questo, in breve, è il commiato dell'omonimo Malettese al suo confratello e
amico, ma, allo stato delle mie ricerche manca la voce di un Brontese che
ringrazi l'illustre concittadino per i diciotto anni spesi dallo Schilirò nella
scuola, nella vita sociale, politica e culturale della nostra città. Antos ha continuato a scrivere su Vincenzo Schilirò anche dopo la pubblicazione
del profilo del 1931 che avrebbe voluto ripubblicare aggiornato, senonché
dovette lasciarlo incompiuto secondo la seguente Nota «Vedo bene che
questo rifacimento del Profilo per ora non è opportuno. Sospendo, perciò,
per continuarlo - chi sa quando ne sarà il caso», Arcip. Ant. Schilirò
(7.4.1946. D.) [4] che chiude le recensioni su: Il Carroccio, Dall'anarchia
all'Accademia, Schemi di concezioni storiche, Il pozzo di Sichem, Antologia
mignosiana e l'Itinerario spirituale di Ada Negri, che si riportano
nelle pagine seguenti.
Detti manoscritti si trovano nell'Archivio Vincenzo Schilirò in via Morosoli, 5,
Catania. Un libro di Vincenzo Schilirò non pubblicato è Lucia delle Scale che
partecipò al concorso Nazionale Letterario 1949 indetto da Gastoldi Editore in
Milano e che ottenne la "pagella" riportata nell'immagine a destra. Bronte, dove profuse diciotto anni della sua multiforme attività didattica,
letteraria e sociale, cominciò a essere stretta per Vincenzo Schilirò il quale,
in occasione della fondazione de «La Tradizione» (1928), prese un anno di
congedo dal Liceo Capizzi e si trasferì a Catania per intraprendere una libera
attività letteraria e affidare le sue nuove opere (e la ristampa delle vecchie)
alla prestigiosa casa editrice SEI di Torino. Antos nel proemio del Profilo citato dice: «[Vincenzo Schilirò] pubblica,
in pochi esemplari, per gli amici. Per i lettori anonimi e sconosciuti mostra
un'assoluta indifferenza». Questo suo atteggiamento, (ammesso che sia vero!) si modifica completamente
quando va a Catania e scrive su «La Tradizione» di Palermo, e pubblica con la
SEI di Torino, dimostrando così di aspirare a un più vasto pubblico dell'Isola e
dell'Italia. Su «La Tradizione», fondata da Pietro Mignosi a Palermo, di cui Vincenzo
Schilirò fu prima collaboratore assiduo, poi condirettore per la sezione
Letteratura e, dopo la morte prematura del Mignosi, direttore fino al 1939, ho
cercato qualche recensione su «La Civiltà Cattolica» ma ecco cosa mi è stato
risposto: per il passato non si sono recensite riviste e [...] le
poche richieste che ci sono pervenute hanno ricevuto una risposta negativa.
Forse è una tradizione o, forse, l'esperienza dice che ci vorrebbe uno spazio
troppo ampio per dare un giudizio adeguato su di una rivista. (Guido Valentinuzzi S. J.) |
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[3] Il
«racconto veronese dei tempi scaligeri» è senza dubbio Lucia delle
Scale che nel 1949 partecipò felicemente al concorso nazionale
indetto dall'Editore Gastaldi di Milano, ma che non fu pubblicato,
certamente, per la sopraggiunta morte dell'Autore.
[4] Antos, manoscritto inedito, p. 145/b

L'esito ("valore dell'opera letterariamente: ottimo; punteggio ottenuto: 8") di Lucia delle Scale
presentato da Vincenzo Schilirò al Concorso Nazionale Letterario del 1949 |
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