La Santa Inquisizione

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Cenni storici sulla Città di Bronte

La «Santa Inquisizione» a Bronte

SUOR FRANCESCA SPITALERI - ANTONINO GORGONE - TOMMASO SCHIROS - SUOR MARIA D'ANGELO - SUOR COLOMBA


La Santa Inquisizione era un'istituzione creata nel secolo XIII per la difesa della Chiesa e la soppressione delle eresie. Essa prese aspetti diversi nei vari Stati d'Europa e nelle varie epoche, a seconda dei metodi usati e dei fini, che i politici volevano raggiungere servendosi dei suoi tribunali.

L'inquisizione di Spagna fu quella che acquistò la peggiore fama per gli eccessi compiuti e le atrocità. Essendo la Sicilia un possedimento spagnolo, questa istituzione fece sentire il suo potere anche nell'isola e persino in Bronte.

Lo storico Benedetto Radice scrive che nel XVI secolo sotto la dominazione spagnola la Santa Inquisi­zione era presente a Bronte fin dal 1597 con un Commissario generale e "octo fami­liares", cioè otto "sbirri" o ministri, appositamente nominati, che avevano l'incarico di sorvegliare e denunziare gli eretici. Di questi octo familiares il Radice non ricorda alcuno mentre «dei reverendi commissari e consultori sono superstiti questi nomi: Sac. D. Placido Pittalà (Archivio Nelson, vol. 90, pag. 5), Sac. D. Benedetto Verso e Sac. Mario Filippo Fallico».  Ci risulta che quest'ultimo, dopo la sua morte (1768), fu sepolto nella Chiesa di Santa Caterina, dove è ancora visibile nella parte centrale del pavimento della navata la lastra tombale in marmo a lui dedicata.

Il locale Commissario del Sant'Ufficio ed il Maestro notaro risiedevano a Randazzo, da cui dipen­deva Bronte. Ma la lontananza non creava alcun problema poichè per far arrestare qualcuno e portarlo in tribunale bastavano solo i sospetti e la delazione o la "pubblica voce" od il de audito, insomma solo il sentito dire. La colpevolezza dell'accusato poteva risultare da prove testimoniali o anche dalla confessione dell'inte­ressato, che si otteneva (o meglio si estorceva) con qualsiasi mezzo.

Sulla carta erano garantiti tutti i diritti, anche quello di potersi appellare al Papa o scegliersi un avvo­cato di fiducia. Nella realtà non era facile trovare un avvocato, perchè questi rischiava di essere coinvolto nel capo d'imputazione.
«Catturato il reo, - scrive Giuseppe Pitrè (Del Sant'Uffizio a Palermo e di un carcere di esso) -  gli si sequestravano immediatamente todos los bienes; e lo si consegnava allo Alcade delle carceri segrete. Beni mobili ed immobili venivano inventariati. Carte, libri, manoscritti, chi ne avesse, erano studiati minu­tissimamente, uno per uno, per vedere se vi fossero indizi dell'errore, dei complici, ecc.. Allo esame pren­devano attiva parte i qualificatori dentro il S. Uffizio. Il sequestro era il primo passo per la conser­vazione dei beni sui quali potesse il Tribunale rivalersi delle spese avvenire e, caso mai, per la confisca. Pel Tribunale era questione apparentemente religiosa, ma sostanzialmente economica».

La confisca, specialmente quando l'accusa od il sospetto erano di eresia, era immediata e seguiva non soltanto al bruciare vivi i condannati ma anche alla muratura o chiusura perpetua, al carcere perpetuo senza muratura o per un dato numero di anni, alle galere di S. M. senza soldo e all'esilio dalla città o dalla diocesi e c'erano anche le scudisciate e la mordacchia.

Agli Inquisitori spettava una terza parte dei beni degli eretici, il procedimento in giudizio dei Giudei ed il godimento di certi diritti degli uni e degli altri. La Santa Inquisizione non restituiva mai i beni confiscati anche se l'inquisito era in seguito dichiarato innocente. «Lu roggiu di lu S. Uffizio nun cunsigna mai! - conclude il Pitrè - ... Le sentenze del sacro Tribunale erano intangibili, e solo il Papa poteva annullarle» .

La Santa Inquisizione che per secoli aveva fatto tremare principi e popoli fu soppressa nel 1782.

Tra i brontesi perseguitati dal Sant’Ufficio il Radice ci ricorda il frate minorita Tommaso Schiros, il contadino Antonino Gorgone dalla bestemmia facile ma sopratutto l'inerme suora, terziaria francescana, Francesca Spitaleri, «la cui memoria si è perduta fra di noi, essendo severamente proibito dal S. Ufficio fare il nome degli eretici, per spegnere anche il ricordo".

Particolare del Monastero  fem­mi­nile di Santa Scolastica, co­strui­to a Bronte agli inizi del 1600, sulla si­nistra della chie­sa di S. Silvestro. Nel 1714 ospi­ta­va una cinquantina di mona­che, ed era uno degli enti ecclesia­stici più ric­chi di Bronte.


LEGGI
Note sull’Inquisizione in Sicilia
di B. Saitta



La Santa Inquisizione

Francesca Spitaleri

Tra i brontesi perseguitati dal Sant’Ufficio si ricorda ancora in particolare la triste storia di Suor Francesca Spitaleri (Bonina o Bertino) dell'Ordine delle Terziarie di S. Francesco, le cui vicende anche se ormai completamente dimenticate, suscitano ancora compassione e pietà.

Di elevata cultura, scrisse opere religiose ed ebbe fra i popolani fama di santità; si diceva anche che avesse ricevuto le stigmate di Cristo e che parlasse con Dio e con gli angeli nelle sue frequenti visioni.

Era veramente troppo per i preti dell'epoca che corsero subito ai ripari. Accusata di eresia fu denunziata al Sant'Uffizio. Non ebbe più pace e non fu sufficiente nemmeno la sua abiura.

Nel 1621 ebbe una prima condanna. Per sfuggire al rogo, la poveretta abiurò e fu mandata per sette anni a servire in un ospedale. Ma tutto questo non bastò. In seguito, ritenuta eretica impenitente, fu sottoposta a un nuovo processo e imprigionata a Palermo. La sventurata suora, prevedendo le più svariate pene, sofisticate torture e di finire bruciata, cercò di salvarsi evadendo dal carcere e una notte del settembre del 1640 si calò giù con una corda, fatta con la lana del suo materasso. La fune si spezzò e la povera suora trovò una crudele fine stramazzando a terra.

Nonostante la morte, subì lo stesso il processo; furono confiscati i suoi beni, condannata la sua memoria e bruciati il suo corpo ed i suoi scritti.

Si ignora da chi e perché l’innocua suorina di Bronte fosse ritenuta pericolosa al punto di subire una persecuzione così accanita e violenta, tanto lunga (19 anni) ed una fine tanto atroce.
Così ce la ricorda il Radice nelle sue Memorie Storiche di Bronte: «Pietoso è il caso di una povera monachella brontese, dichiarata eretica (1621-1640) e morta, di caduta, dall’alto, per fuggire il rogo, al quale era stata condannata. La memoria di lei si è perduta fra di noi, essendo severamente proibito dal S. Ufficio fare il nome degli eretici, per spegnere anche il ricordo.
Questa fu suora Francesca Spitaleri Bertino, dell’Ordine delle Terziarie di S. Francesco, che al dotto La Mantia sembrò un’antenata del filosofo Nicolò Spitaleri; ma mancando la paternità riesce difficile determinarlo, essendo molto estesa la famiglia degli Spitaleri in Bronte».

Fu una donna istruita e di molto ingegno; dovette avere a maestri i frati Minori Osservanti di S. Francesco; scrisse opere religiose, andate smarrite e bruciate dal Sant'Uffizio.
«Ma male gliene incolse - continua il Radice - e per saper di lettere e di religione e più per il farneticare suo intorno a Dio e agli Angeli, coi quali, diceva, avere frequenti colloqui, e come il Cristo, piaghe al costato e ai piedi.
Il Santo Uffizio alla vista d’una donna colta, sebbene isterica, riputandola pericolosa, non le diede, più pace, e nell’auto da fè del 12 di­cem­bre 1621, celebratosi in Palermo, nella piazza Bologni, apparve anche lei fra i 34 penitenti. Per sfuggire al rogo, essa abiurò de vehementi e per sette anni fu mandata a servire in un ospedale.
La povera eretica, dice il manoscritto, fu imputata di aver detto che «era gran serva di Dio; che parlava con Dio famigliarmente; che venivano gli angeli a visitarla e veniva Dio in persona e l’Angelo Michele; che era stata venticinque giorni senza mangiare; che poi le comparve Gesù Cristo, il quale le disse: Surge et comede».

Illustrazione di Totò Calì«Il Tribunale - scrive Giuseppe Pitrè -, oltre i conventi per gli uomini e qualche monastero per le donne di non modesta levatura, oltre le carceri della penitenza, teneva a pigione case private, nelle quali chiudeva, e per un dato periodo di anni o di mesi istruiva nella religione i colpevoli; mentre per le donne del basso volgo metteva a profìtto gli spedali. Suor Francesca Spitaleri da Bronte, allucinata tal punto da credersi, secondo il processo letto nel pubblico spettacolo del 12 dicembre 1621, "gran serva di Dio, col quale parlava"; da stare 25 giorni senza mangiare e da mangiare solo quando G. C. le disse: surge et comede; da affermare esser dovere del Papa l'abitare in Palermo, venne  risterrata, condannata a sette anni di reclusione servendo in uno spedale».

Ma, scontata la pena, secondo gli Inquisitori tornava agli stessi errori; come eretica impenitente fu sottoposta ad un nuovo processo e rinchiusa nelle carceri dell'Orologio. Una notte del settembre 1640, presagendo di essere bruciata viva, tentò di fuggire. Fatta una cordicella della lana del suo materasso, mentre si calava da un buco della volta, stramazzò a terra e morì.

Ma il processo non si fermò. Fatta la causa colle solite solennità, confiscati tutti i suoi beni, condannata la sua memoria e fama; il suo corpo fu portato al pubblico spettacolo al piano della Cattedrale, ove, letta la sentenza, insieme colle carte e i libri da lei scritti, fu consegnato al braccio della giustizia secolare per essere bruciato.

Di questa povera monaca si legge nel manoscritto Liber relaxionis (Biblioteca Comunale Palermo): «Sora Francesca Spitaleri di Bronte, monaca terziaria di S. Francesco, carcerata nelle carceri dell'Oro­logio, uscì d’una fessura, che dava luce al dammuso, e con un pezzo di corda, mentre scendeva si precipitò e morì nell’istesso errore, onde il cadavere fu sepolto in luogo non sacro, e nell’atto celebrato nel piano della Madre chiesa, a 9 settembre 1640, si fece comparire il suo cadavere, vestito di monaca con abito, e rilasciato al braccio secolare».

  

Suor Francesca (1583 - 1640)

di Bruno Spedalieri

È con disappunto che scrivo di questa donna, per noi eminente, senza poterne conoscere il pensiero e le sue opere.

Sull’identità di Suor Francesca Spitaleri Bertino abbiamo versioni diverse. Il Radice la chiama una volta Suor Francesca Spitaleri Bertino (Memorie Storiche di Bronte, edizione 1983, pag. 310), ed un’altra volta Suor Francesca Spitaleri Bonina (Memorie Storiche di Bronte, edizione 1983, pag. 530). Di lei non possiamo che riportare le notizie smilze che gli storici ci hanno tramandato. I suoi scritti, infatti, a motivo della condanna dell'Inquisizione, sono stati bruciati in quanto considerati eretici e tutto è stato operato in modo che la memoria di lei non fosse ricordata ai posteri. Ed è con disappunto che scrivo di questa donna, per noi eminente, senza poterne conoscere il pensiero e le sue opere.

Suor Francesca era nata Angela Spitaleri il 13 settembre 1583 da Antonino Spitaleri e da Angela Bertino. Fra altri fratelli e sorelle, aveva un fratello di nome Placido Spi­taleri, nato nel 1598 e che sposó Paola Bonina. Furono il cognome della madre e quello della cognata a creare confusione. Angela molto giovane si fece monaca fra le Terziarie di San Francesco e prese il nome di Suor Francesca. Era donna di grande ingegno e scrisse opere religiose. Si dice che abbia ricevuto il dono delle stimmate. E furono le sue esperienze mistiche ad attirare su di lei l’attenzione del Santo Ufficio. Nei suoi scritti gli inquisitori trovarono qualcosa di eretico.

Nell’Auto da Fé celebratosi in Piazza Bologni a Palermo il 12 dicembre 1621, Suor Francesca, allora trentottenne, comparve nella lista degli indiziati insieme ad altri 33 eretici. Essa abiurò gli errori di cui era accusata e fu inviata a servire in un ospedale.

Sette anni piú tardi, essendo tornata alle sue convinzioni fu imprigionata nelle carceri dell'Orologio a Palermo in attesa del processo. Rimase rinchiusa in una celletta per dodici anni. Appressandosi il giorno del processo finale e presentendo che sarebbe stata condannata al rogo, per sfuggire a quella morte atroce, la suora cercò scampo calandosi dal tetto con una corda intrecciata da lei stessa, con la lana del suo mate­rasso. Ma la poveretta stramazzò a terra e morì.

Contava 57 anni di etá. Il 9 settem­bre 1640 il suo corpo, fu esposto e processato sulla piazza della Cattedrale; fu poi bruciato e le ceneri furono sotterrate in luogo non sacro.

Purtroppo le leggi severe dell’Inquisizione ci hanno impedito di conoscere il pensiero di quella povera Suora e di darne un giudizio. Oggi noi sappiamo, per ammissione dello stesso Pontefice, Papa Giovanni Paolo II, che l'Inquisizione va considerata un tragico errore. D'altronde non ignoriamo che tra le innumerevoli vittime dell'Inquisizione si trovano pure dei Luminari e dei Santi come ad esempio Giordano Bruno e Santa Giovanna d’Arco.

La memoria di Suor Francesca, si è tramandata fra il popolo brontese fino ai nostri giorni. Ricordo bene che mia nonna materna Teresa Schiliró me ne parlava quando io ero ancora ragazzetto. Non riuscivo peró a determinarne l’epoca storica.

Non sappiamo molto di Suor Francesca Spitaleri Bertino, ma di certo sappiamo che è esistita e che merita un ricordo ed una preghiera.

Bruno Spedalieri

Dicembre 2013. 

Suor Francesca

di Pasquale Spanò

Pasquale SpanòLa tragica vicenda di Suor Francesca è ripresa anche dal poeta e saggista brontese Pa­squa­le Spanò (1918-2010) nel suo libro "C’era qui una volta il Rizzonito - Bronte nella storia d’Europa" (Torino, 1993).

Alla sventurata suora ("vittima inno­cen­te offerta a Dio come olocau­sto a suprema espiazione"), Pasqua­le Spanò nel libro “Etnei” (Torino, 1963) dedica an­che una sua poesia (“Francesca”).

Francesca

Era chiamata Inquisizione Santa
chè riforniva, in un tempo di magra,
di Santi il Paradiso, ove gli arrivi
divenuti eran proprio peregrini:
diabòlica correva per il mondo
frenètica una Furia che scovava
temìbili nemici nei meandri
persino d'un devoto monastero.

Del poverello d'Assisi la regola
seguita avea, ancora giovanetta,
Francesca, la suorina a Gesù cara
ed alle anime semplici nel cuore:
portata a Dio l'avean gli studi,
i colloqui nelle éstasi divine
e le piaghe del Cristo a lei concesse
a pegno d'una vita immacolata.

Il suo farneticar celeste grato
non era all'alta Sfera che vedeva
in lei di Sàtana la destra orrenda
brandire il gladio devastante il mondo:
il primo emesso «auto da fè» le diede
profondo quel dolor, che contrassegna
la vittima innocente offerta a Dio
come olocausto a suprema espiazione.

Ma novelli presunti errori tosto a
più severo giudizio la condusser
ed a carcere crudo precorrente
l'implacàbile rogo nei tormenti:
un folle orrore la sconvolse tutta e
tentar le fece l'impossìbil fuga,
che gli Angeli mutàro premurosi
in trionfo eterno lassù nel Cielo.

Françisca Spitaleri

di M. S. Messana Virga

La storica Maria Sofia Messana Virga nelle pagg. pagg. 544-545 del suo libro Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782) (Sellerio, Palermo, 2007, pp. 656), così scrive di Suor Francisca Spitaleri:

«Tra le vicende più utili a illuminare molte storie femminili ve n’è una che getta una luce particolarmente inquietante sull'attività inquisitoriale, per la severità con cui vie­ne condotto il processo e la misoginia che traspare dalle carte processuali. L'imputata è Françisca Spitaleri, terziaria di San Francesco, nativa di Bronte in pro­vincia di Catania e residente a Palermo, dove si è trasferita col marito per se­guire il processo di uno dei suoi figli, Vincenzo. Questi è stato accusato di stregoneria e catturato nel 1646 dall' arcivescovo di Mon­reale, da cui Bronte dipende (*)

Françisca ha 50 anni, discende da una figlia di ebrei conversos ed è benestante: è una guaritrice, ma per la sua condizione sociale avrebbe dovuto esercitare la medi­cina, arte trasmessa in famiglia, se, dopo l'editto di espulsione e la conver­sione for­zosa, le donne ebree che esercitavano una tale professione non avessero dovu­to celarsi sotto questa attività di rango inferiore per scampare all'Inquisizione. Racconta di rapporti speciali con il soprannaturale, di miracoli, di stimmate rice­vu­te, cosa che, invece di salvarla come lei probabilmente crede, le nuoce presso gli inquisitori i quali la facciano di millantata santità.

La denuncia si trasforma in accuse di eresia. Quando il processo sta per concludersi con una condanna, Françisca, che ha capi­to di essere destinata al rogo come eretica, tenta di fuggire nottetempo, calan ­dosi da una finestra di Palazzo Steri, ma muore cadendo; il suo cadavere, ritrovato il giorno dopo, è sotterrato in terra sconsacrata.

(*) ASP, S. Uff. Ric. vol. 173; le spese segnate per cattu­rare Vincenzo Spitaleri sono: «per una mula per il viaggio t. 20: per mangiare la mula t. 12; per giorni sei per man­giare il carcerato t. 6; per dui giorni chi stetti in Mazzarò per vendere la robba t. 12»
 

Tu non dici parole

di Simona Lo Iacono

Dal pietoso caso di suor Fran­cesca Spitaleri trae spun­to anche la siracusa­na Simona Lo Iacono, magi­strato presso il Tribunale di Siracu­sa, per il suo primo roman­zo “Tu non dici parole” (Giulio Perrone Editore, Roma, 2008, pp. 204).
Ambientato nella Sicilia del 1600, a Bronte, in un periodo di malcon­tento popolare e di Santa Inquisizione racconta di una ruota degli esposti e di una bambina, Fran­cisca Spitaleri (la prota­gonista), che ruba… parole e non sa neanche perché. Lo fa con l’istinto di un ani­male addome­sticato a proteggersi, a mettersi in salvo, a mescolarsi ai fumi del destino senza scovarne le ragioni. Eppure, miracolosa­men­te, serve.

E le parole saranno il suo scudo, la sua immaginaria protezione ed il suo con­forto anche se non reggeranno allo scontro con la violenza e col sopru­so per­petrato in nome del potere.


Bronte 1638, una donna e la Santa Inquisizione

«Bronte, 1638. Francisca Spitalieri è un’esposta dotata di una peculiare caratteri­stica: ama le parole belle. Parole liturgiche e dell’offerto­rio, sentite in convento, che “ruba” e ripete di continuo pur non conoscendone il significato. Parole che re-inter­preta, ammaliata dalla loro austerità e musicalità.
Questo suo amore, però, viene considerato anormale. Per questo motivo, e per al­tre circostanze a esso le­ga­te, viene messa a giudizio dal Santo Uffizio. Franci­sca è la prota­goni­sta di “Tu non dici parole” (Perrone, 2008), romanzo d’esordio del­la siracusana Simona Lo Iacono, magistrato e dirigente del Tribu­nale di Avola.
Una storia tragica, dolente; ispirata da personaggi realmente esistiti e caratteriz­za­ta da visionarietà artistica e grandissima teatralità; “messa in scena” con un riu­sci­to impasto linguistico imperlato di espressioni in latino, in volgare e in dialet­to sici­liano. (...)» [Massimo Maugeri, La Sicilia, 27.12.2008]

Di Simona Lo Iacono leggi La confessione
«Oggi corre l’anno di Dio 1640 e a Bronte gira voce che su Francisca Spitalieri fu fatta sentenza,
 che infine lo santo tribunale ebbe a emettere verdetto...»

La bolgia delle eretiche

di Marinella Fiume

Anche la scrittrice Marinella Fiume dedica un capitolo alla vicenda di suor Francesca Spitaleri nel suo libro “La bolgia delle eretiche” (editore A & B, Acireale-Roma 2017, 168 p.), dove delinea figure forti di donne realmente vissute che l'Autrice ricostruisce su fonti inedite come, nel caso della terziaria francescana brontese, i verbali di interrogatorio del Santo Offizio.
Nel capitolo che, per gentile concessione dell'Autrice, vi presentiamo è la stessa «soro Francisca», in prima persona, che in un atroce diario racconta «l’orribile farsa del processo», le innume­revoli udienze, gli interrogatori, i testimoni che deponevano “per sentito dire”, la sua difesa, le accuse di essere strega e la stessa condanna «alla damnatio famae et memoriae», perché di lei «non rimanesse traccia alcuna, neanche il ricordo, come persona haeretica, scandalosa, superba, presuntuosa, blasfema e temeraria, impenitens et pertinax in suis erroribus, incorreggibile».
Discendente da ebrei conversos che esercitavano l’arte medica, cinquantun anni, «naturale della terra di Bronte», tenace e coraggiosa, si definisce una “santa viva”.
Narra che era stata arrestata a Palermo, dove si era trasferita con il marito per seguire il processo di uno dei suoi figli, Vincenzo, accusato di stregoneria e catturato dall’arcivescovo di Monreale. Non si arrese mai e – scrive - «non essendo riuscita a farla franca vincendo in dottrina gli inquisitori e convincendo il tribunale che ero una santa viva, stavo guadagnando altrimenti la libertà» ma «la corda si era spezzata prima che io toccassi terra, non ebbi nemmeno il tempo di accorgermene…».

Marinella Fiume ha presentato il libro al Circolo di Cultura E. Cimbali, nel corso di un convegno a tema “La Santa Inquisizione a Bronte”, organizzato anche dalla nostra Associazione.

Il mio nome è soro Francisca, la mia storia la racconto io!
di Marinella Fiume



 

La Santa Inquisizione

Antonino Gorgone

Antonino Gorgone inteso Galluzzo, contadino di 52 anni, non era un uomo istruito, colto e dotto come frà Tommaso Schiros o come suor Fran­cesca Spitaleri e, purtroppo per lui, era stato cresciuto ed abituato fin da piccolo a "pane e bestemmie" a più non posso («a santiàri» si dice a Bronte). Ad  esempio, edificazione e intimidazione del popolo, arrestato a seguito della solita denuncia e condotto in catene a Palermo, scontò nel 1724 nelle carceri del Sant'Uffizio le sue continue bestemmie.

“Egli fu – scrive il Radice - uno dei ventisette penitenti, che nel 6 aprile 1724, in piazza S. Erasmo in Palermo, dopo la sua abiura de levi, assistette al famoso rogo di suora Geltrude, terziaria dell’Ordine di S. Benedetta, e di frate Raimondo degli Agostiniani Scalzi, da Calta­nissetta, condannati al rogo, la prima dopo 25 anni, il secondo dopo 18 di carcere, come moltinisti e quietisti.
Fu il Gorgone,
scrive il Mongitore, contadino della campagna di Bronte, di 52 anni; assolto, ad cantelam uscì nel pubblico spettacolo con mordacchia in bocca». La mordacchia era un sofisticato strumento del Sant'Ufficio col quale si serrava la bocca ai condannati perchè non parlassero, adatta quindi alle cattive abitudini del Gorgone.

«Fu condannato - continua il Radice citando l'atto pubblico di fede, celebrato in Palermo il 6 aprile del 1724 dal Tribunale della S. Inquisi­zione, cap. XIII, pag. 65 - alla vergogna per le pubbliche strade della città, trenta sferzate e allo esilio per tre anni da Bronte».



 

La Santa Inquisizione

Suor Maria D'Angelo

Illustrazione di Totò CalìUn caso simile a quello di Suor Francesca è riportato da Vincenzo Schilirò nel suo libro "Il venerabile Ignazio Capizzi" (SEI, Torino 1933). La vicenda riguarda un'altra terziaria francescana, suor Maria D'Angelo, come suor Francesca Spitaleri anch'essa "con fama di santità", denun­ciata da un zelante parroco al Santo Uffizio.
Questa volta però la fine fu un pò meno triste: qualcuno, anche il ven. Ignazio Capizzi suo confessore, si interessò della suora ed alla fine il tribunale inquisitorio assolse «la pia giovane».
Ma la candida terziaria francescana, ridotta dalle vicende processuali «in pietosissime condizioni di salute», alcuni giorni dopo la sentenza di assoluzione «munita dei conforti religiosi, si spegneva come una santa».

«Era la D’Angelo - scrive V. Schilirò - una di quelle religiose cui il decadere della vita monastica e del discipli­nato beghinaggio cominciò a far spuntare isolatamente e far vivere, fra chiesa e casa, vita di raccoglimento e di preghiera, libere da voti e da clausura ed orientate verso lo spirito del terz’ordine francescano.

Frequen­tando la chiesa di Sant’Eulalia, essa ebbe occasione di conoscere il Capizzi e se lo scelse immediatamente a maestro spirituale». Ignazio Capizzi, diffidava, per buona norma, delle «pinzochere e delle beghine (a causa della sua rudezza costoro lo chiamavano «patrigno», e lui non cessava di raccomandare ai confratelli che si guardassero bene dalle penitenti che "fanno le divotacce e le spirituali") fu con suor Maria aspro, duro, parco di parole».

Ben presto «non ebbe più dubbi intorno alla santità di suor Maria, e non stimò cosa indegna o inopportuna rivolgere sulla pia terziaria una parti­colare attenzione.» «Ma scoppiò il temporale. Propalatesi delle notizie equivoche o addirittura false sulla vita e sui prodigi della D’Angelo, il parroco del distretto della Kalsa, Giovanni Napoli, si credette in dovere di denunziarla al Santo Uffizio, il quale ordinò senz’altro la cattura della giovane donna.

Così, a princi­pio del 1756, essa veniva tradotta al palazzo della Inquisizione e lì sottoposta al più rigido esame e ai più minuti esperimenti.

Fu pel Capizzi un aspro cordoglio. Convinto com’era dell’innocenza e della santità della D’Angelo, egli corse da Mons. Schiavo, uno dei membri più autorevoli del Santo Uffizio, e con molto garbo gli fece osservare che, a preferenza di testimoni male informati o sospetti, si sarebbero dovuti sen­tire, per ben lumeggiare la posizione della detenuta, tutti quei sacerdoti che le erano stati guida spirituale.

Ma il grave inquisitore gli troncò in bocca il suggerimento con questa domanda:
- Padre mio, chi vi ha chiamato?

E venne poi il peggio. Un ordine reciso di Mons. Papiniano Cusani, arcivescovo di Palermo, sospendeva dall’ascoltar confessioni tutti quei preti ch’erano stati maestri di spirito dell’accusata: e ciò fino a quando il tribunale dell’Inquisizione non si fosse pronunciato sul caso di lei.

Come sempre, Ignazio chinò il capo, in perfetta rassegnazione; ma il suo animo ribolliva e molto probabilmente il cuore dolorava: ché ingiustizia era quella che metteva a prova immeritata l’innocenza e la virtù. Il decreto del tribunale inquisitorio fu, naturalmente, quale doveva essere: non di piena assoluzione soltanto, ma di autorevole riconoscimento della vita santa e illibata di suor Maria D’Angelo. Ignazio non si era ingannato.

Ma quando venne fuori il verdetto - era il tardo autunno del 1756 - la pia giovane era in pietosissime condizioni di salute, tanto che, munita dei conforti religiosi, si spegneva come una santa il 15 di novembre. Iddio non aveva voluto che la sua serva ritornasse, oggetto di curiosità, in mezzo alla cattiveria del mondo.

Il tribunale, per rendere più ampia giustizia all’imputata, faceva obbligo al parroco della Kalsa, denunziatore della pia monaca, di venirne a rilevare il corpo al palazzo dell’Inquisizione e portarlo con pompa alla parrocchia per le solenni esequie. Atto di soddisfacente giustizia, senza dubbio: ma nel cuore del Capizzi la piaga era rimasta profonda e sanguinante ...»

La vicenda di frate Tommaso Schiros

 

La Santa Inquisizione

Suor Colomba Mauro Papotto

Il frate cappuccino padre Gesualdo De Luca nella sua Storia della Città di Bronte ci racconta il caso di una «singolare donna» morta agli inizi del 1800. Caso tipico da denunciare subito e da affidare ai tribunali della Santa Inquisizione. Ma que­sta volta la suora fu fortunata, il Santo Uffi­zio, almeno a Bronte, aveva perso tutto il suo furore religioso e radicale e la domenicana nel 1804 «spiccò verso il cielo candido il suo volo» sen­za alcun aiuto esterno:

«È questa Suor Colomba Mauro Papotto, Religiosa Domenicana del terzo Ordine. Dai costumi e dalla bellezza è celebrata tuttora tra noi ma più da una singolarità della sua vita. In età assai giovane venne invasa dai de­moni, e per tutto il corso degli anni suoi fu provatissima energumena. Sapeva appena leggere, e pure, quante volte le occorreva, parlava be­ne e speditamente in greco, latino, ebreo, ed in qualunque altra lingua venisse interpellata. Favellava di filosofia, di teologia e di altre scienze, cui fosse provocata di parlarne o dettare. L’Arciprete Dinaro, i fratelli Uccellatore, dotti forastieri e compatrioti fu­ro­no spesso alle prese con lei; e non mai vi rimase vinta.

Talora trasportata dai genii invasori s’inci­deva le guancie coi vetri, e l’indomani riappariva sana. Annunziò la ca­du­ta dei celebri ponti di Aragona in territorio di Carcaci nell’atto stesso di loro rovinamento. Scomparve improvvisamente in tempo di neve, senza potersi vedere vestigio del suo fuggire, e poi lieta, ridente e floridissima fu trovata in una vicina campagna.

Fu sempre di purissimi costumi, e nel 1804 spiccò verso il cielo candido il suo volo questa sacra colomba.»


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