Bronte, 2 agosto 1860, cinque del mattino. Tocchi di campane a morto.
Fischi, urla, qualche colpo di fucile. La folla è impazzita.
Tutti gridano
come disperati. Vogliono dividersi i beni del Comune, dicono che i “cappelli”
hanno succhiato il loro sangue e che adesso lo devono restituire.
È partita la
rivolta, non c’è più niente da fare.
I dimostranti arrivano al Casino dei
civili: «Vogliamo le terre!», sbraitano in dialetto. Sul bastione compare il
notaio Cannata. Con la doppietta minaccia di tirare sulla folla. I fischi si
fanno assordanti. Rabbia e vendetta. Piovono pietre: nessuna vittima.
La prima è Carmelo Curchiurella, guardia municipale, ma cade il giorno dopo,
nei pressi del carcere, mentre sta annotando i nomi di quelli che due giorni
prima hanno occupato i passi che portano fuori dal paese.
Di sera, alle 23, suonano a martello le campane dell’Annunziata. «Viva
l’Italia e morte ai sorci!».
L’ira dei morti di fame esplode violenta. L’atmosfera è rovente, da giudizio
universale.
La massa di ribelli avanza dal piano di San Vito verso il centro
del paese.
I più pericolosi sono i carbonai, calati dalle caverne dell’Etna:
non ne possono più di dare soldi a quegli usurai dei proprietari dei boschi
per rifornirsi di legna. E con le accette colpiscono le porte delle case,
scardinano gli usci con pali e scuri.
Dalle abitazioni, invase con furia
animalesca, portano via tutto ciò che trovano: farina, vino, olio, grano,
materassi di lana buoni per dormire. Ma anche sacchi imbottiti di paglia: che
presto diventano fiamme. Fuoco e fumo, in paese non si respira più.
Di nuovo giorno, 3 agosto. Armata di fucili e bandiere, l’esercito dei
dissidenti si accalca sotto la casa di
Nicolò Lombardo: «Evviva l’avvocato!».
Uomo saggio e liberale. Persona per bene. È un amico del popolo, e fin
dall’inizio della sommossa ha cercato di spegnere - senza riuscirci - gli
ardori dei ribelli inferociti.
La folla applaude sotto il suo balcone.
L’avvocato viene acclamato a viva voce presidente del Municipio. Ancora una
volta Lombardo cerca inutilmente di frenare gli animi.
Vuole evitare il
peggio. Ma il peggio accade.
Alle tre del pomeriggio
viene ucciso il notaio
Cannata: i braccianti che pascolano nelle sue terre hanno ancora la schiena
segnata dalle botte dei suoi campieri. Anche il figlio del notaio, Antonino,
non la scampa: non ha fatto niente, ma con un padre così merita almeno due
fucilate al petto.
Un carbonaio massiccio, tutto nero di fuliggine, sta comiziando davanti al
Casino dei civili.
Promette odio e vendetta: «Viva l’Italia, viva Garibaldi!».
E giù morti: Nunzio Lupo viene massacrato in un orto a due passi dal Collegio
Capizzi, il cassiere comunale Francesco Aidala viene freddato nel quartiere
San Vito. Poi tocca a Vito Margaglio e a Vincenzo Lo Turco, quest’ultimo
impiegato del Catasto. Un buon numero di civili si travestono da
contadini. Qualcuno da donna. Sono ridicoli, ma riescono comunque a fuggire
verso Catania aiutati dai loro massari.
Il terrore sembra destinato a non avere fine.
L’avvocato Lombardo non si ferma un attimo, parla con tutti, implora i
violenti di fermare la strage. Ma proprio mentre si dà da fare, allo
Scialandro, antico luogo di supplizio sotto il mero e misto imperio, vengono
trucidati altri disgraziati.
Garibaldi è a Messina e ordina a Bixio di stroncare la sommossa
Finita la battaglia di Milazzo, Garibaldi si trova a Messina per preparare lo
sbarco dei Mille nel Continente. Il grosso delle sue truppe invece bivacca a
Giardini nella speranza di attraversare lo Stretto fuori dal tiro delle
fregate borboniche. L’eroe dei due Mondi viene tempestato di telegrammi da
parte del console inglese di Catania: lo prega di stroncare la rivolta dei
brontesi.
Il feudo, amministrato dai fratelli Guglielmo e Franco Thovez, è in
pericolo. Così Garibaldi telegrafa a Nino Bixio e gli ordina di reprimere la
rivolta.
Il fedele Bixio lascia Giardini, dove si trovava con la prima brigata
della quindicesima divisione Turr, e parte alla volta di Bronte. Prima però
scrive una lettera a sua moglie: «Un tumulto di nuovo genere scoppia a
settanta miglia da Messina. Si bruciano case, si assassinano... il generale mi
spedisce sul luogo... Missione maledetta dove l’uomo della mia natura non
dovrebbe mai essere destinato».
Bixio arriva in paese, dopo due giorni di marcia faticosa la mattina del 6
agosto. Lo seguono due battaglioni di camicie rosse.
Viene accolto dal
colonnello Poulet e dal Rettore del
Collegio Capizzi, monsignor Palermo, che
gli mette a disposizione il proprio appartamento. Immediatamente parte
l’ordine di cattura dell’avvocato Lombardo, indicato quale agitatore della
rivolta.
L’avvocato, al quale gli amici consigliano di svignarsela, decide di restare
lì dov’è: dice di avere la coscienza pulita. E addirittura va a bussare alle
porte del Collegio Capizzi e chiede di potere parlare direttamente con Bixio.
Che subito lo fa rinchiudere nella stanza di disciplina del Collegio,
sorvegliato a vista da un picchetto armato di garibaldini.
La stessa mattina il piemontese emette due decreti. Colloca due sentinelle
alle porte del quartier generale, manda una pattuglia di otto uomini con un
sergente a percorrere il paese, impedisce la circolazione e vieta l’ingresso
in paese. Se viene trovato qualcuno, ordina, bisogna arrestarlo; se resiste,
fucilarlo. Così pure chi è armato. Inoltre decreta il paese di Bronte
colpevole di lesa umanità e lo dichiara in stato d’assedio.
Gli abitanti -
stabilisce ancora - hanno tre ore di tempo a partire dalle 13 per consegnare
le armi da fuoco e da taglio, pena la fucilazione. Il Municipio è sciolto.
Anche la Guardia nazionale. Gli autori dei delitti saranno consegnati
all’autorità militare per essere giudicati dalla commissione speciale. Al
paese è imposta una tassa di guerra di onze dieci all’ora à partire dalle 22
del 4, giorno e ora della mobilitazione delle forze.
Mentre le guardie affiggono gli ordini di Bixio, i carbonai fanno in tempo a
rifugiarsi nelle grotte inaccessibili dei boschi dell’Etna. Sulla base di
alcune denunce vengono arrestati quattro presunti autori dei crimini: Nunzio Samperi, Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longhitano Longi e Nunzio Spitaleri
Nunno.
L’avvocato che aveva fatto da paciere viene condannato a morte
È il 7 agosto: si insedia il tribunale di guerra. Nessun collegio di
difesa per gli imputati.
L’avvocato Lombardo chiede che vengano ascoltati
testimoni a sua discolpa. Tutti confermano la sua estraneità ai fatti
criminosi e sottolineano la sua opera pacificatrice.
Ma la sentenza è già
stata decisa. Alle otto di sera del 9 agosto, in nome di Vittorio Emanuele re
d’Italia,
il tribunale militare condanna a morte Lombardo e gli altri quattro
imputati.
I parenti dell’avvocato si presentano a Bixio per chiedere di
vederlo l’ultima volta. Richiesta respinta. Uno dei condannati, Nunzio Ciraldo Fraiunco, piange e si lamenta tutta la notte, baciando uno scapolare della
Madonna che porta al collo.
Il 10 agosto i condannati vengono avviati al piano di San Vito per
l’esecuzione: l’avvocato Lombardo in testa, a passi lenti, fumando un sigaro,
la barba lunga e nera, gli altri dietro, a piangere e disperarsi, recitando le
preghiere degli agonizzanti.
Solo uno di loro ride: un pazzo, con la testa
fasciata da uno straccio tricolore. Arrivati sul piano, i condannati vengono
posti a sedere infila; Bixio sta a cavallo. Un ufficiale legge la sentenza e
ordina il fuoco. Cadono in quattro, riversi l’uno sull’altro.
Solo il matto
viene risparmiato, per errore. E s’inginocchia ai piedi di Bixio: chiede la
grazia. Bixio ordina di dargli il colpo di grazia, e l’ufficiale gli spara in
testa.
Bronte è stata punita.
(Salvatore Falzone,
La Repubblica – Edizione di Palermo – 12 Febbraio 2011)
LA SCHEDA
La lotta di classe contro i “cappelli”
La rivolta di Bronte, piccolo paese sulle falde dell’Etna (compreso nei
possedimenti che l’ammiraglio inglese Orazio Nelson aveva ricevuto in dono da
Ferdinando III) scoppiò il 2 agosto 1860. Esasperati dalla mancata divisione
delle terre demaniali promessa da Garibaldi il 2 giugno di quell’anno, i
contadini insorsero contro la parte più reazionaria dei borghesi locali (i
cosiddetti “cappelli”), uccidendone una quindicina.
Ragioni di politica
generale indussero Garibaldi a intervenire per bloccare sul nascere ogni
rivendicazione e mantenere la propria impresa nell’ambito della rivoluzione
borghese.
Garibaldi affidò la repressione a Nino Bixio, che pose fine ai
tumulti con estrema durezza, nonostante al suo arrivo la sommossa fosse già
sedata.
Fece arrestare centocinquanta persone, istituì un tribunale militare,
fece processare i principali responsabili degli accadimenti condannandoli alla
fucilazione.
Ai fatti di Bronte, di cui si è occupato anche Leonardo Sciascia
ne “La corda pazza”, è ispirata la novella “Libertà” di Giovanni Verga (1882)
e il film di Florestano Vancini, del 1972, intitolato “Bronte”. (s. f.)
«Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno
raccontato»
di Florestano Vancini (1972)
La
fucilazione dei 5 condannati all'alba del 5 Agosto 1860 "col secondo grado di pubblico
esempio"