Alle 19 mia moglie è ferita ad un braccio, alle 19,15 mio figlio e mia suocera rimangono sepolti sotto uno dei bagni esistenti nell’attiguo atrio, che è crollato dopo lo scoppio di una bomba nella strada limitrofa. Vengono fuori dalle macerie con la più esasperata forza della disperazione, miracolosamente vivi. Io mi sono infortunato, nel tentativo di soccorrere una donna gravemente ferita ad una spalla e sul torace; zoppico. La spietata violenza delle bombe finisce per distruggere l’ospedale, provocando numerosi morti; si salvano rari superstiti, perché scelgono la via di una precipitosa fuga i rari superstiti. I tedeschi ormai allo sbaraglio frattanto durante la fuga sono protagonisti di ignobili rappresaglie e vandalismi incredibili. Il nemico entra in paese. Non c’è proprio nulla da fare; quanto meno devo mettere al sicuro la famiglia, nella speranza che salvi la pelle; anche perché i primi avamposti nemici si insediano, prendendosi cura dei feriti, e ci fanno capire che stiamo per essere imprigionati. So che tornerò. Anche per lasciare il refettorio e quindi raggiungere la strada, è un procedere difficilissimo, fra macerie e detriti. Bronte è una montagna di macerie; raggiungere la casa, in via Garibaldi, è problematico, perché le strade sono interrotte o ostruite fino all’inverosimile. Ci acquattiamo sotto materassi e cuscini nell’abitazione dell’avvocato Sanfilippo, attendendo la morte. Casa nostra è notevolmente danneggiata dai bombardamenti ed è già stata visitata da tedeschi in fuga e sciacalli. Alle 20,30, persistendo l’emergenza-bombardamenti ed incombendo la minaccia delle rappresaglie da parte del nemico, anche se zoppico, fuggiamo in campagna, cercando rifugio o nel tunnel oppure in montagna, verso l’Etna. Racimoliamo poche provviste: cinque pani, mezzo chilo di formaggio, due brocche con acqua. Si parte con la famiglia Sanfilippo, Galvagno, don Vincenzo e Graziano. È una triste carovana composta da undici disperati fra i quali due bambini; siamo digiuni e disperati. Non sappiamo quale sorte ci toccherà. La strada è accidentata ed in salita. Giunti alla Stazione, decidiamo di salire verso l’Etna. Io comunque dovrò tornare nel più breve tempo possibile in ospedale. La notte è indimenticabile. Fino alle 23, la illumina in qualche modo un piccolo lembo lunare. Dalla valle arrivano i lampi e gli scoppi delle artiglierie. La strada è disseminata di militari morti, di camionette o autoblindo mitragliati e distrutti; è drasticamente in salita e quanto mai accidentata. A mezzanotte, ci accampiamo all’aperto e restiamo fermi fino alle 2. Poi riprendiamo la nostra pietosa fuga. Alle 3 e mezza siamo nella zona Paparia e decidiamo di continuare a salire. Alle 5 e mezza, arriviamo a Monte Chiuso e precisamente a Ceravolo: qui troviamo una stanzetta senza porta, circondata da accoglienti alberi di noce. Ci accampiamo, stremati. 7 agosto Sono depresso; sono infortunato e non ce la faccio a tornare in ospedale. So di essere un soldato vinto e zoppo, che ‘per il momento’ ha dribblato la prigionia. Sono afflitto dalla situazione igienica e morale nella quale siamo qui a Ceravolo. Non ho la forza di guardare in viso i miei figli: per la femmina sarebbe il compleanno, per il maschio l’onomastico. Chissà come li avremmo festeggiati in una situazione normale. Ma tutto sembra perduto, quale sorte ci attende? L’acqua scarseggia, così come le notizie sulla situazione a Bronte, che dista circa dieci chilometri, a 1.300 metri di altezza sul livello del mare, immersa in desolanti sciare di lava. Per fortuna, nel pomeriggio riusciamo ad ottenere qualche brocca d’acqua della cisterna della attigua Dagala ‘Nchiusa.
Si registra un continuo passaggio di aerei: noi ci acquattiamo sotto gli alberi, per timore di possibili mitragliamenti, anche perché due di noi vestono la divisa militare con stivali. Il cannone tuona a valle e nella zona di Cesarò. Si dorme all’aperto, sulla terra nuda; i più fortunati riescono a crearsi una sorta di finto giaciglio, fatto di frasche. Conviviamo con formiche insetti, lepri... 8 agosto È domenica, ma per noi è soltanto ‘un altro giorno’ da fuggiaschi. Sveglia alle 5, alle prime luci del sole. La mia zoppìa si acuisce: ho subito una frattura? Andiamo a rifornirci di un po’ di latte a Dagala ‘Nchiusa. Alimenti del giorno: pane duro inzuppato di acqua ed un residuo di formaggio. La depressione è totale, quando ci rendiamo conto che alle 10,30 Bronte è di nuovo bombardata a tappeto. Sapremo che nel pomeriggio le avanguardie inglesi hanno preso possesso del Comune. Cala la tela: e’ la fine della nostra ‘povera’ guerra.
Abbiamo esaurito i viveri. Che fare? Alle 18,15 io, mio cognato Pippo Di Dio, Galvagno, Graziano e don Vincenzo decidiamo di scendere in paese, per cercare qualcosa da mangiare. Vorrei anche ripresentarmi in ospedale. Ma, mentre siamo in marcia, alle 19,15 da un avamposto dell’estrema ala destra inglese - sulla altura della Colla al limite della Sciara - ci indirizzano addosso una fucilata. È segno che la nostra presenza è sospetta e che le divise militari grigioverdi sono prede da catturare o comunque da perseguire. Ci ripariamo sotto un muretto a secco e vediamo fischiare sulle nostre teste più di quaranta colpi di fucile. Restiamo acquattati per oltre due ore, vivi per miracolo. Per fortuna i militari inglesi non hanno deciso di raggiungerci per scoprire chi siamo, chissà anche per giustiziarci. Alle 21, sotto un tenue chiarore di luna, torniamo a Ceravolo, dove arriviamo alle 22, accolti con grida festose. Ma siamo a mani vuote, stanchi, emozionati, stremati e vivi per miracolo. Alle 23, ci sdraiamo sulla nuda terra. 9 agosto La notte è tanto fredda. Alle 5,30 siamo svegli. È impossibile ogni cura igienica o il cambio di abiti e biancheria. A Dagala ‘Nchiusa otteniamo un po’ di latte e mezza capra. Si impianta un empirico fornello e si cucina la carne sulle tegole tirate giù dal tetto della casetta. Del pane, neanche l’odore.
Nel pomeriggio, l’attività di artiglieria nella vallata sottostante è intensissima. Gli inglesi tirano migliaia di colpi a Rocca Calanna di Maletto. Scompaginano così le batterie tedesche, che soltanto inizialmente tirano qualche colpo verso la Colla. A sera, ceniamo dividendo in undici porzioni un pane asciutto realizzato con un po’ di farina portata da Graziano. Alle 22 siamo di nuovo sdraiati sulla nuda terra. La notte è ancor più fredda di quella precedente. Lamentiamo tutti dolori lancinanti alle spalle ed ai lombi. Percepiamo che prosegue, anche se limitata, l’attività di artiglieria. 10 agosto Alle 5,30 sveglia e gita a Dagala ‘Nchiusa, per chiedere un po’ di latte di capra. Il menu di giornata comprende - per gli undici disperati - un pane ed un quarto di capra. Sino alle 9 tace l’artiglieria. Gli inglesi continuano ad avanzare. Soltanto al calar della sera, si percepiscono tiri di artiglieria verso punta Calanna.
11 agosto Oggi ci si nutre con un po’ di latte ed un quarto di montone. Il pane è assente. Arrivano vaghe notizie sulla situazione, ma è certo che Bronte è flagellata dalle più spietate granate tedesche, in un conato di vendetta. La triste ed affamata comitiva è in preda allo scoramento: c’è chi sollecita finanche il rientro in paese, qualunque sia la situazione e la vivibilità in loco. Le condizioni nutrizionali ed igieniche in effetti sono assolutamente deficitarie.
12 agosto
Oggi ci si deve nutrire dei residui del quarto di montone e di un chilo di fave. Siamo avviliti, così non si può resistere. Ed è battaglia fra i nove adulti, sulla soluzione da scegliere. Una cosa è certa: il fronte sicuramente deve essere avanzato verso nord e dunque in direzione dei Nebrodi. I tiri di artiglieria si odono ormai sempre più lontani. Alla fine il concitato ‘referendum’ dei disperati si conclude con la decisione di tornare in paese. Ma so che ora la mia sorte è segnata. 13 agosto Alle 5,30 la triste carovana si rimette in marcia, ora verso Bronte, o meglio quel che resta di Bronte. Arriviamo in via Garibaldi alle 10,30. La casa nel suo piano superiore ha subito notevoli danni.
14 agosto
Mi consegno al comando inglese, che ha preso in forza l’ospedale. M’hanno rivestito di grigioverde a quaranta anni ed ho difeso la patria, ma abbiamo perduto la guerra. Sono prigioniero del ‘nemico’, che da oggi devo chiamare ‘liberatore’. Io che detesto la guerra ed ho vissuto asetticamente nel momento politico che l’aveva voluta.
L’atto finale della prigionia sarà un certificato di rimpatrio, avvenuto il 7 agosto 1944, dal quale risulta che il 21 luglio’ 44 è stato rilasciato’ Sconzo Giulio, capitano medico di complemento, militare dal 25 settembre 1942, appartenente al Distretto di Palermo, nato a Palermo il 28 agosto 1901 con anzianità di grado risalente all’1 marzo 1941 e nominato ufficiale nel maggio 1927, catturato quale caporeparto della 3° Medicina dell’Ospedale di riserva n° 2 di Bronte, assegnato all’Ospedale militare di Palermo per ordine del Ministero della Guerra’. * * * Ed ecco alcuni stralci della relazione sulla prigionia del capitano Sconzo. “Sono stato richiamato... ed assegnato a Palermo al Deposito del 76° Reggimento Fanteria fino al 30 novembre 1942. Dall’l dicembre ‘42, caporeparto 3° Medicina dell’Ospedale di riserva n° 2, trasferito dal corso Calatafimi alla Feliciuzza nei locali del Policlinico. Detto ospedale, in seguito ad ordini ricevuti dal Comando di Corpo d’Armata e dalla Direzione di Sanità nel periodo fra il 1° giugno ed il 10 luglio 1943 si trasferì a Bronte (Catania), nei locali del Collegio Capizzi e nelle scuole elementari di quel Comune. Il trasporto dell’ingente materiale in dotazione in detto ospedale avvenne a mezzo di numerosi autotreni ed arrivò a Bronte in buone condizioni, ad eccezione di una piccola parte (materiale di magazzino) che rimase a Palermo, nei locali della Feliciuzza, in consegna ad un distaccamento della Compagnia di Sanità. Detta piccola quantità non poté essere avviata, perché il 10 luglio si verificò lo sbarco degli alleati in Sicilia”. “A Bronte ho conservato la carica di Capo Reparto del 3° Medicina ed ho organizzato il reparto al piano terreno della scuola elementare. Il funzionamento del mio reparto ed anche quello degli altri reparti fu stabilito di comune accordo tra il Direttore di Sanità, tenente colonnello Tomaselli, ed il direttore dell’Ospedale, tenente colonnello Foti intorno al 12 luglio, cioè dopo pochi giorni dallo sbarco degli Alleati, pur difettando moltissimi rifornimenti alimentari e farmaceutici. Ben presto cominciarono ad affluire ammalati e feriti anche civili delle zone limitrofe e l’ospedale, pur fra molti stenti, poté funzionare. Non è da nascondere però che spesso sono mancati i viveri non soltanto per la truppa, ma anche per i ricoverati.” “Il paese di Bronte fu risparmiato dalle incursioni aeree fino al 3 agosto (eccezion fatta per parecchi spezzoni sganciati saltuariamente su automezzi che transitavano e ciò specialmente alle porte del paese). Il 3 ed il 4 agosto, due violente incursioni aeree produssero molti danni e numerose vittime in paese, specie verso la parte alta (stazione ferroviaria). Nonostante ciò, l’ospedale continuò a funzionare in mezzo a stenti sempre più accentuati (mancanza di energia elettrica, acqua, legna, alimenti, eccetera). Nel mio reparto erano 80 ricoverati, che ebbero la normale assistenza medica”. “Il 6 agosto, dalle 13,30 alle 20, il paese di Bronte fu sottoposto ad un violento e terrificante bombardamento aereo, fatto ad ondate successive, aventi lo scopo di interrompere, con l’abbattimento dei fabbricati, l’unica via di scampo alle forze tedesche che si ritiravano da Adrano. In queste terrificanti sei ore, i danni furono micidiali, enormi; grande fu il numero delle vittime e dei feriti”. “L’ospedale, munito di chiari segni della Croce Rossa con bandiere sul campanile e croci rosse dipinte sui tetti (una venti metri per venti!), ricevette ventotto bombe e fu devastato, specie nei piani superiori. In tale tragica giornata, ho prestato da solo la mia opera nel refettorio del Collegio Capizzi, coadiuvato dal sergente di Sanità, Marino, e da alcuni soldati. Non ho visto in quel locale alcun altro ufficiale medico. Ho saputo che al primo piano ha continuato a prestare la propria opera il tenente medico Veronica”. Alle 19,30 circa anche mia moglie è stata ferita da una scheggia al braccio sinistro. Alle 20,30 circa pensai di porre in salvo mia moglie ed i miei bambini; superando le macerie del paese, ci avviamo fra le sciare di lava dell’Etna. (...) Una distorsione dell’articolazione tibioperonea astragalica destra, da me subita mentre - in mezzo alle macerie dell’ospedale - davo assistenza ad una povera donna agonizzante, per uno squarcio dell’articolazione scapolo omerale e del torace, mi diede notevole fastidio. Toltomi lo stivale, per visitarmi l’articolazione, non fui più in condizione di calzarlo, per il gonfiore sopraggiunto ed il dolore all’articolazione lesa. Per tale motivo, non potei fare immediato ritorno in ospedale. La mia malattia fu resa nota alla Direzione dell’ospedale, con due biglietti consecutivi, recapitati regolarmente al nuovo Direttore, tenente Veronica. Rientrato il 13 agosto, il 14 mattina mi sono consegnato e sono stato avviato, a mezzo di un autocarro, verso un improvvisato campo di prigionieri e successivamente fui inviato a Siracusa. Il 17 agosto, sono stato nominato Medico Dirigente del Servizio Sanitario del 222° POZ Camp ed in tale posizione sono rimasto fino al 14 ottobre. Dal 15 ottobre ’43 al 5 maggio ’44 sono stato avviato all’ospedale POW di Avola, prima con la funzione di Capo Reparto e poi di Direttore. Dal 5 al 7 maggio ho consegnato tutto il materiale a me affidato al capitano medico Bonanno presso l’ospedale della Croce Rossa di Siracusa. Detto materiale proveniva dall’Ospedale Regia Marina di Melilli ed è stato da me scaricato sotto la sorveglianza di un colonnello medico inglese, giusto inven- tario esistente nell’ospedale di A vola. È in mio possesso regolare ricevuta. In tale occasione ho fatto pervenire al Sindaco di Avola alcuni mobili da me trovati nei locali dell’ospedale; ho fatto anche recuperare altri mobili al Comando Marina di Augusta. Ho in mio possesso le relative ricevute”. “Dal 7 maggio al 21 giugno, ho prestato servizio nell’ospedale POW Santa Marta di Catania; da tale data si è iniziata la mia pratica di liberazione, in seguito a richiesta del Ministero della Guerra. Il 20 luglio sono partito da Catania ed il 21 successivo ho preso servizio presso l’Ospedale militare di Palermo”. (…) (Nelle foto: il capitano medico Giulio Sconzo con la moglie; una veduta di Bronte nel 1940 ed il Salone S. Giuseppe del Real Collegio Capizzi (all'epoca requisito e trasformato in ospedale) dopo un bombardamento.) Il diario di Giuseppe Schirinà |