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Il prigioniero venuto dal Sud

Placido Gulino

L’eroico brontese delle Marche

Durante la Seconda guerra mondiale, alle 21.10 del 21 gennaio 1944, si verificò a Montecchio, una frazione del Comune di Vallefoglia in provincia di Pesaro e Urbino, un tragico evento: un’azione di sabotaggio attuata da partigiani locali causò l’esplosione di un deposito di mine ed esplosivi che dovevano servire a minare il percorso della nascente Linea Gotica, accatastati dai tedeschi in un edificio, il Dopolavoro, e nel terreno adiacente.

Lo scoppio fu devastante. Rase al suolo l’intera frazione di Montecchio e le località limitrofe che furono quasi totalmente distrutte fino ad un raggio di circa 15 chilometri. Il boato fu sentito fino a Fano e Urbino.

La conseguenza più drammatica fu la perdita di vite umane; ancora oggi è imprecisato il numero dei morti, forse 34 o 35, di cui 4 militari italiani e 1 soldato tedesco e oltre 100 ricoverati negli ospe­dali con molti che non sopravvissero alle ferite riportate. Tantissime le famiglie senza più casa dovettero trovare rifugio presso parenti, cono­scenti o rifugi di emergenza.

Ma l’esplosione poteva avere conseguenze ancora più disastrose.
Solo il sacrificio e l’eroico comportamento di un militare, il caporale brontese Placido Gulino, poté evitare una strage di dimensioni ancor più tremende.

Accortosi della tragedia imminente, dell’innesco e della tremenda esplosione che ne sarebbe seguita, il caporale Gulino avvisò del pericolo imminente molte persone che riuscirono a mettersi in salvo. Lui morì nel tentativo di evitare una cosi immane devastazione.

Per il territorio marchigiano fu l’episodio più doloroso della II guerra mondiale, un ricordo tra i più vivi, uno dei più raccontati e indagati causa anche di tensioni politiche e ideologiche che seguirono nei confronti della Resistenza partigiana.

L’eroico comportamento di Placido Gulino, che resta ancora presente nella memoria e nel dolore dei montecchiesi, è ricordato ogni anno con cerimonie, commemorazioni e targhe della Memoria.

Placido Gulino, l'eroe di MontecchioPlacido Gulino, nel 1944 caporale dell’esercito pri­gio­niero dei tedeschi a Montec­chio, era nato a Bron­te 1’8 maggio 1908 da Francesco Paolo e da Biuso Concetta.

Così p. Alfonso Napoli lo descrive a Don Orlando Bartolucci, il parroco di Mon­tecchio, in una lette­ra del 21 mag­gio 1991 : «Apparteneva ad una buona fami­glia di agricoltori: erano sette figli, uno di no­me Sal­va­tore è morto anche lui durante la guerra.
Un altro, Giosuè, è morto di recente. Resta più effi­cien­te Biagio che abita in Bronte in via Angelo Ga­briele 41.
La sorella Maria, sposata Lazzaro, è malandata in salute. Il fratello France­sco è am­ma­lato. L’altro fra­tello Nunzio vive in campagna in un comune vicino. Il padre si chiamava France­sco Paolo, era nato nel 1878 ed è morto il 14.10.1959.
Nb.: La madre Biuso Concetta, nata nel 1885, è mor­ta il 20 febbraio 1953. Placido è stato battez­zato il giorno della nascita l’8 maggio 1908 nella Chiesa della SS. Trinità’’.»

"Fu così, - scrive D. Bartolucci - dietro mia lettera del 13 maggio 1991, che la Famiglia, la Parroc­chia e la città di Bronte seppero che Placido era morto da eroe."

Ancora l’anno scorso il presidente della Repubblica, con decreto del 12 luglio 2022, ha conferito al Comune di Vallefoglia la medaglia d’argento al merito civile con la seguente motivazione: “La deflagrazione di un deposito improvvisato in cui i tedeschi avevano ammas­sato un enorme quantità di esplosivi colpì la frazione di Montecchio, distruggendo o danneggiando gravemente le case e provocando morti e feriti. Esempio di estremo sacrificio”.

Per avere un’idea dell’avvenimento e dei ricordi ad esso legati basta cercare su qualsiasi motore di ricerca “scoppio di Montecchio” o “Gulino Placido”.
Noi qui, con l’aiuto di un libro “Montecchio, un paese, un popolo, una storia”, scritto da Don Orlando Bartolucci, parroco a Montecchio per oltre 50 anni, morto nel 2020 a 76 anni, ve ne rievochiamo brevemente la vicenda.

Vi raccontiamo la tragica storia del caporale Placido Gulino, il prigioniero venuto dal sud, il piantone del deposito che corse per tutto il paese ad avvisare la popolazione e si sacrificò per loro, rimasta impressa nella memoria dei montecchiesi che ancora oggi, ad 80 anni dall’evento, fanno rivivere ogni anno il ricordo dell’eroico gesto.

«Nessuno  – scrive D. Bartolucci - potrà mai raccontare quella notte, pur piena di stelle: il sangue, il fuoco, le urla, le lacrime, la polvere, il rovinare dei muri, il sudore freddo! sopra tutto ciò si erge la figura di un eroe, di un soldato nativo di Bronte di Catania.
Egli pur potendo fuggire non fuggì. Informato dell’attentato al deposito delle mine diede ordine di avvisare la gente. Si precipitò fra le mine, lanciò lontano quelle che già ardevano.
La forza dello scoppio lo scaraventerà sul muro di fronte al dopolavoro.
Al caporale Gulino Placido la riconoscenza e l’affetto di tutto il paese. La sua salma fu tumulata, insieme ad altre vittime, il 25 gennaio 1944 nel cimitero di Montecchio. Dopo molti anni fu fatta l’esumazione, e i resti mortali - dopo essere stati posti  in un loculo - furono trasferiti in un cimitero militare di Roma

Sulla sua tomba, in Montecchio, era scritto: «Nel nobile tentativo di salvare il paese di Montecchio dalla sciagura che lo ha colpito il Cap. Gulino Placido trovava tragica morte. I superiori e camerati. Q.M.P -  N. a Bronte 8.6.1908 - M. a Montecchio 21.1.1944».


La Linea gotica

«Il 10 giugno 1940 – continua il parroco - l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania. I giovani e gli uomini validi furono chiamati al fronte. Si crearono forti disagi nel lavoro dei campi e drammi affettivi senza numero. Seguì la tessera annonaria, la mancanza di generi di prima necessità, come sale e sapone, il mercato nero.
Il 25 luglio 1943 cadde il governo Mussolini, I’8 settembre ci fu l’armi­stizio. L’Italia firmò con gli Alleati un patto contro la Germania. A quel punto la guerra fu combattuta aspramente sul suolo italiano. I tedeschi occupa­rono l’intera penisola e progettarono una linea difensiva da Pesaro a Lucca denominata Linea gotica. Era un’opera imponente. Questa era stata pensata per attraversare tutto l’Appennino, prima della pianura padana

L’ente di costruzioni che operava in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht (Organisation Todt) impiegò in questa attività un numero ingentissimo di uomini reclutati fra prigionieri e civili per istallare fortificazioni di ogni genere. Fu così, e con questo scopo, che il 6 novembre 1943, 125 militari italiani, prigionieri dei tedeschi, giunsero a Montecchio.

Nella sua ricerca storica il parroco di Montecchio fa parlare i testimoni dell’epoca. Ecco il racconto di Impellizzieri Giuseppe, un commilitone di Placido Gulino: «Il 6 novembre 1943 ci trasferirono a Montecchio (Pesaro). Eravamo 125 soldati. Qui ci fecero scendere dai camion e ci ordinarono di entrare in uno stabile: era l’allora “Dopolavoro” del Paese. Ci portarono per essere mano­dopera dei tedeschi nella costruzione della Linea Gotica, estrema­mente importante per la loro difesa. La nostra sistemazione nel dopolavoro era proprio alla “meno peggio” e bisogna­va arrangiarsi. Per letto ci diedero solo dei sacchi. Si andava ormai verso l’inverno e faceva freddo. Ci premurammo quindi di riempire i sacchi con della paglia. Fu così che ci sistemammo a Montecchio prigionieri dei tedeschi.»

Alcuni contadini videro le loro difficoltà e li aiutarono come era loro possibile. Nacque un profondo senso di solidarietà fra soldati italiani e abitanti che raggiunse il massimo un mese dopo durante le feste di Natale.

La Linea Gotica si estendeva dalla provincia di Pe­sa­ro e Urbino al versante adriatico della provin­cia di Massa-Carrara per un fronte di oltre 300 chi­lo­metri lungo l'Ap­pennino. Rappresentava una bar­riera cru­ciale per gli Alleati che avanzavano verso il nord Italia.
«Secondo i dati tedeschi aveva: 2.375 nidi di mi­tra­glia­trici, 479 batterie di arti­glie­ria, 3.604 for­tini, 16.606 po­stazioni per tiratori scel­ti, 72.517 mine anticarro, 23.172 mine anti­uomo, 113.370 metri di reti­colato, 8.944 metri di fosso anti­carro, 13 torret­te balzer, 18 fortini con torret­te balzer murate» (Archi­vio Parroc­chiale Montec­chio,  Cro­nicon vol. 11°, Rela­zione Severi).

Aveva anche un fosso anticarro largo 4-5 metri e pro­fondo 2 metri circa disseminato di mine anticar­ro e antiuomo. Sulle alture invece si creavano dei fortini per mitragliatrici e cannoni.


Il deposito delle mine

Scavare trincee, fare buche, piazzole e provvista di legna erano i compiti principali dei militari italiani che quanto possibile lo svolgevano col massimo disimpegno per rallentare l’opera nemica.

Verso i primi di dicembre del 1943 arrivarono nel campo vicino al Dopolavoro una colonna di camion carichi di mine anticarro (tipo italiano), di S-mine antiuomo tedesche e diverse tonnellate di esplosivo. Tutto questo materiale venne inspiegabilmente ammassato dai tedeschi nel centro di Montecchio, parte in una “grotta” del Dopolavoro in cui erano alloggiati anche buona parte dei soldati prigionieri e parte nel vicino campo boario.

«I soldati tedeschi – continua il commilitone - ci ordinarono di scaricarle e accatastarle nel campo e coprirle poi con dei lattoni molto pesanti. Diversi giorni durò questo lavoro. Erano circa 10.000 mine (qualcuno parlava di 15.000 e persino di 20.000) che la città di Pesaro non aveva voluto fra le sue abitazioni. La dinamite - diversi quintali - era stata sistemata in una stanza del Dopolavoro, al pianterreno. I tedeschi ci chiesero la disponibilità a fare la guardia al materiale esplosivo.
Dopo una nostra risposta affermativa, formarono un corpo di guardia di 10 soldati con a capo il Caporale Gulino Placido. Si sorvegliava così l’ intero materiale. Unica arma che i tedeschi ci concessero di tenere era un bastone. Essendo però, tutti prigionieri italiani, neanche lontanamente si pensava alla possibilità di un attentato. Il corpo di guardia dormiva in un a stanza attigua al deposito della dinamite, mentre altri erano sistemati al piano superiore del dopolavoro, altri invece nelle scuole


Venerdì 21 gennaio 1944, ore 21.20

Quella sera del 21 Gennaio avvenne l’impensabile. Cinque partigiani, con un’azione definita militarmente necessaria per evitare il consolidamento della Gotica e facilitare l’avanzata degli alleati, collocarono un centinaio di metri di miccia fino alle casse di mine italiane appiccandovi il fuoco.
Su queste avevano gettato - presumibilmente - liquidi infiammabili per favorire l’espandersi dell’incendio.
Se ne accorse per primo uno dei soldati di guardia, un certo Lino.

«Questi, – continua il soldato - , andò ad avvertire il capoguardia Gulino il quale immediatamente diede ordine di avvisare gli altri soldati e soprattutto la popolazione del terribile pericolo che incombeva. Così i soldati Lino, Dipinto, il sottoscritto ed altri fuggirono urlando per l’unica via del Paese:

- Fuori! Fuori! Scoppiano le mine!»

Mentre i soldati davano l’allarme e la gente usciva spaventata dalle case e fuggiva, il caporale Placido Gulino da solo cercò di scongiurare il peggio e di evitare una catastrofe tentando di spegnere le fiamme ormai alte qualche metro.

Le mine che per prime presero fuoco erano quelle di tipo italiano: avevano una cassa di legno e il liquido infiammabile vi trovò facile presa.

«Il caporale fece di tutto perché l’incendio non si estendesse all’intero deposito gettando lontano le mine che erano state - o stavano per esserlo - attaccate dal fuoco.
Tutto questo mentre le fiamme divampavano alte oltre i 4-5 metri. Ma dato l’enorme calore che si sprigionava, a nulla valse l’eroico sacrificio. Noi soldati eravamo lontani circa 200 metri dal deposito delle mine quando udimmo il terribile boato che rase al suolo l’intero Paese.
In quel momento Gulino fu sbalzato dallo spostamento d’aria per quasi 100 metri e finì contro un muro, ove trovò la morte.
La tremenda esplosione avvenne per combustio­ne, essendosi il fuoco inoltrato fin sotto i lattoni di copertura.
Le vittime furono 30: fra queste anche i soldati Petrazzoli Danilo di Mirandola di Modena e Galli Virgiglio sempre di Modena, morti durante il sonno. Un altro soldato - Lenardi Dante di Pola - trovò la morte sotto il portone della scuola che l’ospitava.
»

La conseguenza più drammatica dello scoppio fu la perdita di vite umane; ancora oggi è imprecisato il numero dei morti, forse 34 o 35, di cui 4 militari italiani prigionieri di guerra impiegati dalla Todt nei lavori di costruzione della Gotica e 1 soldato tedesco.

A questi va aggiunto un imprecisato, numero di feriti deceduti dopo il ricovero negli ospedali di Pesaro, Urbino e Fano ma non residenti a Montecchio dove erano sfollati.

Il corpo del caporale Gulino fu trovato a circa cento metri di distanza riverso contro un muro.

Per fortuna non essendo ancora notte gran parte della popolazione udì le grida dei soldati e fece in tempo ad uscire velocemente dalle proprie case per mettersi in salvo: ma fu cosa di pochi momenti perché lo schianto dell'esplosione fu così forte e violento che non lasciò più scampo, polverizzò il Dopolavoro, le case vicine e la scuola.

Distrusse e frantumò per chilometri tutti gli edifici e ne scoperchiò i tetti e atterrò le mura generando anche diversi incendi.
Pochissime furono le case che restarono abitabili, tutto Montecchio e i territori limitrofi nel raggio di 15 chilometri finirono in un cumulo di macerie. Molte furono le famiglie che persero la casa e dovettero trovare alloggio presso parenti e amici o rifugi di fortuna.

Eroe e Martire

«Che cosa passò – è sempre il parroco Don Bar­to­lucci che parla - nella mente del Caporale Gulino Pla­cido quella sera del 21 gennaio 1944 alle ore 21.20 quando il soldato Lino l’avvisò che avevano dato fuoco alle mine?
Perché ordinò a Lino di avvisare tutti gli altri sol­da­ti affinché si mettessero in salvo con la popo­la­zio­ne? Perché non fuggì anche lui?
Egli, pur consapevole del pericolo, morì per rima­nere al suo posto. Che cosa passò dunque nella sua men­te in quegli attimi d’inferno? Chi potrà mai dirlo?
Credo che avesse una grande calma interiore, una profonda pace che gli permise, e gli dette forza, di non avere paura! II suo amore affon­da­va le sue ra­dici nella fede cristiana e nella solida­rietà umana. Egli era infatti molto credente.
Si è immolato per l’affetto che aveva verso que­sta popolazione di operai e contadini e che certa­men­te gli avrà richiamato alla mente quella, simil­mente semplice e laboriosa, della Sicilia da cui prove­niva.
»

Dopo lo scoppio Montecchio rimase un borgo abbandonato; tantissime famiglie, senza più casa, trovarono asilo presso parenti e conoscenti.

Nel piccolo paese e nella provincia Placido Gulino, quasi sconosciuto a Bronte, è ancora ricordato come eroe.

Oltre a Bronte suo paese natale anche Montecchio, Vallefoglia, Montelabbate, Sant’Angelo In Lizzola e Colbordolo (tutti paesi della provincia di Pesaro e Urbino), hanno dedicato una via a Placido Gulino.

Una Pietra della memoria è stata a lui recentemente dedicata nel cimitero di Montecchio: sopra una grande croce marmorea è fissata una lastra in ricordo dei tre soldati Caduti coinvolti nello scoppio della polveriera il 21 gennaio 1944. La targa (foto a destra) commemora il caporale brontese Gulino Placido, il marinaio Lenardi Dante di Pola e il soldato Predazzoli Danilo di Mantova. La croce è in travertino, mentre la lastra quadrata è in marmo bianco.

Oggi Montecchio ha mutato completamente la fisionomia, da piccolissimo centro rurale sulla via feltresca di 30/40 anni fa è divenuto un cittadina vivace e ricca, sede di numerosissime attività industriali ed artigianali legate al settore del legno e al suo indotto (in particolare vetro artistico); è continuamente in espansione, non solo demografica.

(nL)
Febbraio 2024

 

La “memoria divisa” di Montecchio

«Ad ogni ricorrenza, l’episodio tragico dell’esplosione della polveriera di Montecchio, del 21 gennaio 1944, ripropone il tema di una “memoria divisa” anche nell’uso di parole (“attentato”, “scoppio”, “sabotaggio”), riduttive e distorcenti.

Il drammatico coinvolgimento dei civili ha provocato una “memoria divisa” che si manifestò dopo molto tempo mettendo fine a una vera e propria rimozione del tragico episodio, ma non ai tanti sospetti, congetture e interrogativi che anzi trovarono nuovo alimento nel tempo. Si chiamarono in causa l’avventatezza dei partigiani e il fatto che non avessero dato alla popolazione il tempo necessario per mettersi in salvo e in molti si chiesero perché il deposito non fosse stato adeguatamente sorvegliato e mimetizzato per ridurre il rischio di un bombardamento aereo alleato.

Le polemiche non si placarono nemmeno quando nel 1975 finalmente si inaugurò un monumento per ricordare le vittime e il sacrificio del militare Gulino Placido (foto a destra) che, accortosi dell’innesco e della tremenda esplosione che ne sarebbe seguita, avvisò del pericolo imminente molte persone che riuscirono a mettersi in salvo.

Gli ex partigiani e l’Anpi reagirono al tentativo di delegittimare la Resistenza affermando che da una ricognizione effettuata sul posto dal Cln provinciale era risultato che le mine fossero prive di detonatore e che comunque il sabotaggio della polveriera si era reso necessario per evitare il consolidamento della Gotica e quindi facilitare l’avanzata degli alleati e accelerare la liberazione definitiva.»

(da Vivere Pesaro del 21 Gennaio 2019)

 


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