L’autobiografia di Nino Castiglione Nino Castiglione chi? Il marito di Marisa! Ecco che il Nino di cui si parla è subito identificato da tutti noi brontesi perchè Nino Castiglione (dei “Tartaglia” o “Tattagghia” o, in modo più personale, "Mìcia"), è personaggio molto noto a Bronte avendo gestito per lungo tempo un’attività commerciale nel Corso Umberto. E' stato anche presidente dell'Associazione Commercianti brontese (da lui fondata insieme al parrucchiere Tino Luca), della Polisportiva Calcio (ai tempi "gloriosi" di Nunzio Calì) ed è - cosa questa poco nota - anche Cavaliere al merito della Repubblica, nominato da Leone nel 1975. Dopo il matrimonio con Marisa Zerbini, l’originaria «ingiuria» familiare di Nino, “Tattagghia”, era passata però in second’ordine, scomparsa e sovrastata dalla nuova denominazione «’u maritu ‘i Marisa» e così è tutt’oggi ancora conosciuto. E lui ha voluto onorare e ricordare ancora la moglie in un libro autobiografico. Con la signorilità e la sincerità che sempre lo ha distinto, ha messo in campo (o in mostra) con linguaggio semplice ed immediato i propri sentimenti, le proprie più intime esperienze, gli amori, le angosce, le gioie e le sofferenze della sua vita. Insomma tutti i suoi ricordi. Ne siamo venuti a conoscenza quasi per caso quando, pochi giorni fa, nel corso della presentazione di un altro libro al Circolo di Cultura E. Cimbali lo stesso Nino Castiglione, seduto accanto a noi, ci bisbigliava sommessamente: “anch’io ho scritto un libro di ricordi, se vuoi te ne do una copia”. Detto fatto l’indomani ci ha dato i suoi “Ricordi”. Leggendoli, non so perché (ma è facilmente desumibile), abbiamo pensato a Nicola Lupo. Ai suoi “Fantasmi” ed ai suoi ricordi di gioventù. Pensando di fargli cosa gradita abbiamo chiesto a Nino una copia del libro anche per il prof. Lupo (sottintendendo nell’inviarglielo anche un suo gradevole commento). Abbiamo letto con piacere “i ricordi” di Nino, anche perché indirettamente sono, in qualche modo, anche i nostri ed il libro, ci è risultato gradevole alla lettura. «Quanti di noi – scrive Nino nella Premessa – avanti negli anni non hanno sentito una forte emozione nello sfogliare gli album di famiglia? E a quanti di noi non gli si è stretta la gola e luccicato gli occhi? In virtù di queste emozioni, non vorremmo forse scrivere la nostra “storia”? Io ho sentito questo desiderio». Ed ha scritto la sua “storia”, sfogliando con stile semplice ed accattivante, senza particolari ricerche stilistiche, il proprio album di famiglia davanti a tutti. O, meglio, “la sua storia” l’ha narrata con la semplicità che gli congeniale perché Castiglione più che scrivere parla. E più che leggere ci è sembrato di sentire il racconto della sua vita dalla sua viva voce. Ha sentito il desiderio di scriverla per gli amici, per le “persone che gli vogliono bene” (alle quali ha dedicato il libro), per manifestare a tutti la sua gioia di vivere che, pur tra mille disavventure, sofferenze e disperazioni, gli è rimasta ancora cucita addosso. Una “confessione”, a volte amara e sofferente, che è tutta la sua vita con sprazzi di luce sulla Bronte che fu, la Bronte del dopoguerra, della «butica ‘o vinu» del padre, e della lotta per trovare un lavoro ai tempi dei “focosi veglioni” al Cine Teatro comunale. Grazie Nino, anche per averci concesso di rendere noti agli altri qualche tuo "ricordo". (nL) Ottobre 2006 (La divisione in titoli ed i titoli stessi sono nostri)
Premessa
«Quanti di noi, avanti negli anni, non hanno sentito una forte emozione nello sfogliare gli album di famiglia? E a quanti di noi non gli si è stretta la gola e luccicato gli occhi? In virtù di queste emozioni, non vorremmo forse scrivere la nostra "storia"? lo ho sentito questo desiderio. È dagli inizi del 1987 che volevo scrivere questa autobiografia o, più semplicemente, scrivere i miei ricordi. Prendevo qualche appunto, lo strappavo, ci ripensavo, cancellavo, esitavo ancora. Poi cominciai a conservarlo più deciso. Nei primi anni novanta però avevo scritto ancora poco in quanto lo facevo all'insaputa di tutti e dunque potevo dedicare poco tempo. Una ulteriore "spintarella" ad accelerare i tempi l'ho avuta anche quando ho ricevuto, bontà sua, l'autobiografia del caro amico Gino Professore Abbadessa, di Randazzo, naturalmente scritta con tutt'altra mirabile cultura, intelletto, stile e professionalità che non mi sogno nemmeno essere capace di imitare. | Comunque ancora non mi decidevo ad uscire allo "scoperto". Alla fine, visto che concludevo poco, informai Lucia dei miei propositi e Lei stessa, oltre ad incoraggiarmi mi permetteva di dedicarmi con maggiore impegno e assiduità andando spesso lei sola al negozio. Premetto inoltre di non avere nessuna pretesa di farla conoscere agli altri, questa biografia. La scrivo anzitutto in memoria di Marisa, la scrivo per me, Lucia ed Elena e anche per i familiari tutti: i miei fratelli, i miei cognati e tutti i miei nipoti, se hanno voglia di leggerla, naturalmente. Io la scrivo e ringrazio tutti lo stesso. Desidero chiudere la premessa facendo presente a chi legge che io non ho studiato e il modo di come narro le cose, facendo anche qualche considerazione o commento, è fatto così, alla buona, senza pretesa intellettuale e con la sola dote della passione che ho avuto sempre per la lettura e un po' anche per la scrittura.» I nonni, i genitori e l’adolescenza
«Mio padre viene da una famiglia umile. Il padre, mio nonno Placido, era capo cantoniere sulle strade provinciali e la madre, Gangi Nunziata, casalinga. Ho ricordi vaghi, dei nonni paterni. So di mio nonno che le piaceva un buon bicchiere di vino e la pipa. Aveva avuto diversi figli e l'ultimo era stato mio padre, Gaetano, che fin da ragazzo faceva il muratore. La nonna Nunziata muore nel 36, il nonno nel 39. I figli erano tutti sposati. Mia mamma era figlia di piccoli coltivatori diretti, e oltre a tre piccoli appezzamenti di campagna fertile, avevano una bettola gestita da mia nonna Domenica Rizzo chiamata “Donna Micia”. Il nonno materno, Nino Carastro, era già morto prima che mia mamma si sposasse, lasciando la moglie, mia mamma, Antonina, e il figlio Angelo. Quest'ultimo da bambino aveva avuto la meningite, condizionando lo sviluppo mentale, anche se poi non mancava di perspicacia: osservava con molta attenzione e badava molto bene alle sue campagne. A quei tempi, primi decenni del nostro secolo, un artigiano come il falegname, il fabbro, il sarto, il calzolaio o il muratore era chiamato "mastro" (maestro); generoso appellativo anche per uno squattrinato operaio. Bronte era ad economia a basso reddito: Agricoltura e artigianato. I latifondisti dominavano da sempre (la rivolta del 1860 dei contadini ne è la prova), anche se il piccolo contadino curava pure il proprio pezzetto di terreno e dal quale traeva quel poco per il mantenimento della famiglia: Si faceva il pane in casa, razionato ma sufficiente alla sopravvivenza, l'olio, il maialino, il pollaio, l'asino o il mulo. Molti andavano a lavorare a "giornata" dai ricchi proprietari per avere qualche lira e molti aspettavano il ricavato del pistacchio che anche se era poco (prodotto che si fa ogni due anni) permetteva loro di sposare qualche figlio-a a cui anzitutto bisognava fare il corredo: biancheria, materassi, qualche casa e qualche mobile. Le esigenze erano poche, non c'era l'opulenza di oggi (televisione, frigorifero, auto, coca cola, discoteca, abiti firmati, vacanze al mare ecc...). Il patriarca veniva portato ad esempio e rispettato, anche se non lo meritava. In questo contesto sociale, pur nondimeno l'artigiano era un privilegiato, rispetto alla massa; era una categoria di tutto rispetto. Il professionismo, la cosiddetta Borghesia, era invece da guardare dal basso verso l'altro. Dottori, avvocati, ingegneri e anche gli impiegati erano il "vossia" (signoria) del proletariato e della gente più umile o se vogliamo del più povero. Si usava molto il "baratto": Tu, maestro, mi fai questo lavoro io ti pago in equivalenza con grano, olio ecc... Quando si trattava naturalmente di manutenzione spicciola, di poca entità. Il barbiere era una figura più raffinata, più "gentile", anche se si usava lo stesso metodo di pagamento, più qualche lira. Lui faceva barba e capelli (spesso anche alle donne) a tutta la famiglia per tutto l'anno e alla fine di questo veniva pagato in natura. Con la scusa del barbiere, voglio spendere qualche riga anche per risaltare un costume paesano dell'epoca. A Natale e capodanno il barbiere regalava a tutti i clienti un piccolo calendario tascabile profumato con figure di belle donne leggiadre e discinte da suscitare pensieri peccaminosi (la schifosa pornografia di oggi non si sognava nemmeno) i quali clienti ricambiavano immancabilmente l'omaggio con qualche soldo di mancia. Un'altra funzione del barbiere era fare da "cerimoniere" in battesimi e matrimoni. Ricordo che molti matrimoni, non so perché, spesso si celebravano di mattino presto, a volte prima dell'alba. La sposa partiva da casa a piedi con tutti gli invitati (i familiari più stretti) in ordinato corteo fino alla chiesa e ritorno. Finita la cerimonia, si andava a casa della sposa dove il padre davanti alla porta spandeva in aria alcune manciate di monetine accuratamente preparate verso una miriade di ragazzini arruffanti che in occasione andavano dietro il corteo. Quando le monetine erano poche gridavano: “A quandu a quandu vinni u battiari (battesimo o matrimonio) mancu a gallina si potti ddubari (saziare)”. In casa poi tutti gli invitati si sedevano lungo le pareti e qui compariva il barbiere che nei vassoi offriva ad ognuno paste, cioccolatini, biscotti e rosolio: Alla fine, come bomboniera di oggi si offriva un dolce di mandorla a forma di cuore coperto di zucchero bianchissimo e una filletta (dolce pan di spagna esclusivamente brontese, tutt'oggi in produzione casereccio). Questo era il barbiere e una delle usanze brontesi. Ritornando alle origini, mia madre si invaghì di mio padre appunto perché era "mastro". Donna sensibile alle raffinatezze, amante del bello, simpatia per la nobiltà e ammiratrice di Casa Savoia e cosciente di essere a mille anni luce dalla "nobiltà", sposa un muratore (meglio che uno "rozzo" contadino), un artigiano, (vanto di molte ragazze), un bel giovane quanto lei graziosa. In nove anni ebbero tre figli: Placido-Dino 1927, io 1930 e Tanino 1933, oltre un aborto. A quasi metà anni trenta mio padre va in Africa Orientale a fare il muratore alle dipendenze di una società edile per migliorare la sua economia. Era un gran lavoratore, si fece stimare e onorare dalla ditta per la sua bravura e onestà, tanto da farsi mandare in quattro anni spesso in licenza a casa come premio. Aveva un forte senso per la famiglia, malgrado il carattere severo. […]» Il vino della Pallata
|
| I “Ricordi” di Nino condivisi da Nicola Lupo «Ringrazio per il simpatico libretto del Cav. Castiglione che avete voluto richiedere per me. Un grazie particolare al Cavaliere per la copia del suo libro e della dedica che ha voluto apporvi. Per dimostrargli che la mia gratitudine non è solamente verbale accludo un mio giudizio, che comproverà che l’ho letto dalla prima all’ultima parola e che, sotto forma di recensione, Bronte Insieme potrà pubblicare.» “Io speriamo che me la cavo”: proprio questo libro del maestro napoletano D’Orta, il quale, raccogliendo e commentando i temi dei suoi alunni, ne ha ricavato un bestseller che lo ha reso famoso e forse ricco, mi ha ricordato il volumetto “Ricordi di Nino Cav. Castiglione – nato a Bronte il 31 marzo del 1930” per la forma dichiaratamente discorsiva e alla buona per soddisfare il desiderio-bisogno di ricordare principalmente il suo amore per la moglie Marisa. Quindi, in primo luogo posso dire che egli, senza alcuna pretesa letteraria e noncurante dell’ortografia, della grammatica, della sintassi e quant’altro, fa una lunga, appassionata, struggente e, alla fine, nostalgica dichiarazione d’amore per la donna dei suoi sogni, dei suoi desideri e della sua vita. A me è particolarmente piaciuto il lungo racconto del signor Nino perché mi ha ricordato persone conosciute, stimate e a cui ho voluto bene: Piero Zerbini, che fu anche nostro operaio all’Oleificio S. Giuseppe di Via Cardinale De Luca di cui mio padre era socio assieme al maestro Vincenzo Franchina, don Enrico Interdonato e i fratelli Placido e Vincenzo Isola. La famiglia Zerbini allora abitava nella casa dove prima abitavano i Marcantonio (Bellamegiòia); la figlia maggiore Gina sposò mio cugino Diego, prima calzolaio e musicante nella banda cittadina, e poi impiegato alle Finanze; i coniugi Ficarra-Romeo, colleghi di mio padre e il marito mio maestro nelle prime tre classi elementari. Di essi ricordo la casa, in via Renato Imbriani, alla quale si accedeva da una scala esterna che dava su un “ballatoio” vicino alla casa dei maestri Radice-Calì e a quella di Don Salvatore Meli, padre del Prof. Nunzio, poi Preside del Liceo Capizzi ed anche Sindaco. (Vedi i miei Fantasmi) Il maestro Ficarra era quello che ci faceva leggere il libro Cuore, che tanto ci aveva fatto piangere e tanto ci aveva insegnato per quanto riguarda i principi a cui deve essere improntata la nostra vita, come bene ribadisce il nostro compaesano. Un altro emiliano che mi ritorna in mente del triste periodo della guerra è il sig. Dall’Olio, già dipendente dell’Agip per le ricerche del petrolio, che fu nostro diligente e ottimo operaio quando nel nostro oleificio, io e mio fratello Nino facemmo gli esperimenti per produrre sia olio di mandorle che quello di lino: entrambi riusciti, ma poi ostacolati dai nostri soci che non ebbero fiducia nei giovani. Il sig. Dall’Olio diceva sempre che l’Agip voleva trovare il petrolio scavando col dito e che i nostri soci non volevano fare neppure la fatica di aprire la tasca per prendere i soldi che avremmo potuto far guadagnare noi. A proposito dei matrimoni che si celebravano all’alba il sig. Castiglione si domanda il perché, che è semplice ed era risaputo: a quell’ora si sposavano “i fujuti” che provavano vergogna e non volevano essere visti e che, allora, erano molti, perché i giovani che non potevano avere nessun contatto con le ragazze, se non erano ufficialmente fidanzati, subito dopo avere assolto l’obbligo militare, si sposavano perché, dicevano, «‘a mugghièri è menza spisza» e bastavano “trispiti e tavuri”. Ma dopo si accorgevano che non era così e allora erano “cavoli amari”! Ora, invece, si fa l’amore liberamente e si convive, ma sono sempre “cavoletti di Bruxelles”! E questo per ricordare le frequenti parentesi del Nostro e delle sue sagge considerazioni che dimostrano che il cav. Castiglione ha avuto fin da piccolo buoni principi che lo hanno accompagnato per tutta la vita. Un esempio è dato dalla sua fedeltà alla moglie durante i due anni trascorsi in Kuwait a perforare pozzi petroliferi e dalla rinunzia alla compagnia femminile offertagli in Egitto durante il viaggio di rientro in Italia. Su questo suo ricordo io metterei un ? non per sfiducia ma perché se fosse una bugia sarebbe ben detta, in quanto diversamente la verità sarebbe stata una doppia offesa per la moglie. Del resto fare sesso (ma sempre protetto!) senza implicare i sentimenti sarebbe poca cosa, come conferma una famosa attrice americana. Però questi principi di serietà, di onestà e di lealtà hanno fatto soffrire terribilmente il signor Castiglione, nel frattempo nominato Cavaliere della Repubblica per interessamento di Mimmo Azzia, mio amico e quasi parente una volta, quando si vide ingannato prima dalla figlia di Enrico Interdonato la quale gli aveva promesso in vendita i locali che egli aveva in fitto e poi li aveva venduti a sua insaputa, a Nninittu De Luca il quale lo sfrattò subito senza un motivo e senza concedergli una congrua proroga. A proposito di quei locali io avevo capito subito che si trattava dei locali di Interdonato dove prima aveva il negozio di tessuti Don Turi Bruno, “u saddaru”, mio padrino di battesimo. Altra delusione ai suoi principi di fedeltà alla parola data viene inflitta al cav. Castiglione dal professore d’arte Mimmo Girbino il quale esegue il monumento funebre per la Marisa ma, intascati i soldi, non si fa più vivo per riparare i difetti riscontrati, cosa che costringe il Nostro a fargli causa. Altre persone che mi vengono ricordate sono i fratelli Romeo, nipoti del duo Ficarra-Romeo, trasferitisi a Roma, dove uno era sottufficiale d’Aviazione; il macellaio Nicola “pinnicùni” al quale il Nostro aveva “rubato” la salsiccia, poi restituita con una bella “trovata”; ma il racconto di don Nino mi rammenta anche luoghi come Pedara dove frequentai il ginnasio inferiore dai PP. Salesiani i quali mi hanno insegnato un buon metodo di studio e di lavoro; Randazzo dove mio padre insegnò parecchi anni facendo, nel contempo, da segretario all’impresa Liuzzo-Camuto, che vi costruiva l’acquedotto, in cambio di vitto e alloggio. Io a Randazzo andavo spesso specialmente d’estate con il calessino preso in prestito dal nostro amico Nunzio Saitta to, che aveva la villetta alla Difesa, per comprare il vino e i “galluzzi” e ricordo che vi andai anche quel 1° settembre 1939, giorno in cui scoppiò la seconda guerra mondiale. (Vedi i Salesiani al Collegio Capizzi) A proposito di scuole devo precisare che l’Avviamento era quella che, appunto, avviava al lavoro, quindi diversa dal ginnasio inferiore e istituti tecnici inferiori che preludevano al proseguimento degli studi superiori; nel 1960, dopo anni di esperimenti e dibattiti, fu istituita la Scuola Media, che comprendeva tutte quelle sopra citate, per assicurare a tutti i ragazzi italiani una uguale base di partenza. Per non essere troppo prolisso e sperando di aver dato una chiara idea dei Ricordi e delle considerazioni del Cav. Castiglione, chiudo qui complimentadomi con Lui per aver dato prova di coraggio non solo nella vita, ma anche nella sua genuina e disinibita rievocazione. Bari, 14 novembre 2006 Nicola Lupo | Nelle due foto: sopra, Nino Castiglione (a destra con i libri sottobraccio) in una foto del 1935 con la mamma, sig.ra Nina, ed i fratelli Dino (a sinistra) e Tanino (al centro). Manca il padre Gaetano che in quel periodo era in Africa. Sotto: Il Cav. Nino Castiglione oggi |
| «[…] Quando mio padre rientrò definitivamente, dopo altri due anni in Albania, continuò a fare il muratore e nello stesso tempo si improvvisava agricoltore curando i terreni insieme a zio Angelo (fino ad allora mia nonna li aveva dati a mezzadria). Era infaticabile, mio padre. Con alcuni risparmi comprò anche un appezzamento di pistacchieto in contrada Contura, a 1500 metri da Bronte proprio al limite della strada provinciale per Adrano, che apparteneva al cugino Salvatore Romeo che abitava a Roma. […] Con il rientro di nostro padre dall'estero, in famiglia ci sentiamo più "forti", più protetti, anche se ce li "suonava". Dino fa il ginnasio e poi il liceo con un anno anche come interno al Collegio Capizzi dando ottimi frutti, tanto che papà nutre ambizioni per lui. Io e Tanino alle elementari. Nelle 1940, l'attività vinicola di mia nonna mio padre la trasferisce nella grande bettola del dott. Nunzio De Luca, nostro medico di famiglia e vicinissimo di casa. Il locale si trova al centro del paese in una traversa a ridosso della via principale e a un centinaio di metri da dove abitiamo. Il dottore De Luca è in buoni rapporti con mio padre, nutre grande stima, e allora le cede in affitto il locale, chiuso da .molti anni, con annessi sette grandi botti per il vino (botti pregiate). Prima mia nonna lo comprava in barilotti che con il carretto glielo portavano da Pedara o da Randazzo (grandi vigneti oggi scomparsi) quasi ogni 15 giorni. Ora mio padre cambia totalmente sistema: compra direttamente il mosto. Al momento giusto della vendemmia, si reca personalmente a visionare l'uva analizzando con un piccolo strumento la qualità ancora sulla pianta in una contrada chiamata Pallata, alle pendici dell'Etna di proprietà dei ricconi Leonardi di Catania. Da muratore, papà a Bronte diventa un'esperto di tini, botti e vino da fare invidia a un enologo di professione (molti brontesi fino a qualche anno fa facevano la coda per chiedere consigli). Ogni anno si comprava tutta la produzione dei Laudani che di mio padre come al solito avevano stima e fiducia. Si trattava di oltre 50 mila litri di mosto che man mano si produceva nel palmeto veniva trasportato sempre a mezzo carretti. La vendemmia durava 15 giorni e uno dei due carrettieri di fiducia era Francesco Saitta detto "vannazza" e da noi chiamato affettuosamente Ciccino (di lui avrò occasione di parlarne più avanti). All'età di 14 anni andavo anch'io con loro. Si partiva alle tre di notte da Bronte (durante il viaggio di circa tre ore cercavo di recuperare un po' di sonno sul carretto ma senza mai riuscirci) e si rientrava verso mezzogiorno. Per accorciare si faceva una specie di mulattiera e dunque ci voleva bravura a condurre il carro (l'autotrasporto era ancora da venire). (Erano rozzi viaggi e rozzi sistemi, com'era rozza la vendemmia, ma avevano un loro fascino, una loro attrattiva. In 50 anni tutto è stato stravolto. Oggi siamo su un'altro pianeta. E non è finita qui...). Per un mese la bottega rimaneva chiusa a causa delle forti esalazioni del mosto in fermentazione. Era motivo di un mese di vacanza in campagna, alla Contura. Riaprendo la bettola l'incremento della vendita era straordinario. Poi venne la guerra…
La guerra noi la sentivamo a mezzo radio o giornali, ma l'estate 1943 cominciammo a "vederla" da vicino. Un pomeriggio un aereo sganciò due bombe alla periferia del paese, senza per fortuna causare vittime. La radio diceva che gli Americani stavano sbarcando in Sicilia e perciò si prevedevano altri bombardamenti, come a Catania da alcuni giorni avvenivano. Quasi tutti gli abitanti ci rifugiammo nelle campagne. Noi andammo in contrada "Corvo" dove avevamo un appezzamento di terreno e una rustica casetta. Di lì si vedeva tutto il paese. La notte ci furono altre bombe. Ci spostammo a valle dell'abitato, dormimmo non ricordo dove. Altre bombe. Una cadde al centro di una via su alcuni cittadini che stavano recitando il rosario. Vidi di persona morti e feriti. Ci spostammo alla Contura. Un giorno mi trovavo sul monte Barca, a ridosso della nostra campagna, insieme alla guardia campestre, quando all'improvviso sbucò un aereo che prima sganciò una bomba vicino al cimitero poi con una virata venne su noi due con una raffica di mitraglia. Sentii il terreno crepitarmi vicinissimo, mi rotolai giù per il pendio andando a finire su una pianta di fichidindia; dalla paura non sentii neanche le spine in tutto il corpo. Quel cretino del pilota chi sa per chi ci aveva scambiato. Subito pensai che se "scendeva" dall'aereo l'avrei... l'avrei preso a fichidindiate; meno male che se ne andato (sembra che stia scherzando, ma è la pura ingenua verità). I miei genitori si trovavano a Bronte per fare il pane. Appena sentirono della bomba vicino al cimitero (eravamo a 400 metri), si precipitarono a ritornare tremendamente angosciati per la nostra sorte. Nostra zia Ciccina Romeo, che l'avevamo portata con noi, era caduta a faccia in giù dopo aver fatto un salto dentro l'orto per ripararsi... fra i cavoli. Per fortuna nessuno di noi ebbe un graffio, salvo le spine che ancora sento. Immediatamente mio padre caricò l'asino e ci trasferimmo in contrada Saragoddio, da un suo compare, molto più lontano dal paese (la zia Ciccina col marito si andarono a rifugiare, come tanti altri brontesi, dentro la galleria della Circum Etnea). Anche le case di campagna però non erano sicure, così andammo a rifugiarci in una grotta di pietra lavica insieme ad altre famiglie. Gli americani per farsi strada cannoneggiavano ogni palmo di terreno. Una notte i proiettili caddero tutti intorno alla grotta. Io morivo dalla paura e mi tenevo avvinghiato a mia madre, mentre Tanino se ne stava spavaldamente e incoscientemente fuori a godersi lo spettacolo (papà era assente) mentre tutti lo incitavano a venire dentro. Per fortuna non ci furono danni, neanche quando un aereo cadde lì vicino con relativa esplosione. La guerra finalmente si allontanò per proseguire verso il nord. Tutti gli abitanti ritornammo in paese a contare i morti e le rovine. Noi grazie a Dio non subimmo nessuna perdita, salvo la sorella di mia nonna, Emerenziana Rizzo in Romeo. Finita la guerra, ricomincia la vita e la ricostruzione. […]» |
|
|