Con il suo trasferimento a Catania per lo Schilirò si aprono più vasti orizzonti: infatti, accantonati alcuni lavori di cui parla Antos, e mai più pubblicati, egli si dedica principalmente a «La Tradizione» di cui è direttore della sezione letteraria, senza però trascurare la produzione letteraria e la riedizione di alcune sue opere precedenti con case editrici di più larga diffusione, specie con la Società Editrice Internazionale (SEI), come abbiamo detto precedentemente. IL CARROCCIO
Pubblicò però ancora a Bronte il suo terzo lavoro teatrale: Il Carroccio in cui «superato l'estetismo del D'Annunzio, dimostra come si possa commuovere con la rappresentazione di un dramma in versi di argomento storico: infatti in esso si intrecciano l'amore fisico di quattro protagonisti con l'amore per la libertà». Ecco quanto ne scrisse un recensore de «La Civiltà Cattolica»: V. Schilirò, Il Carroccio, Dramma milanese, STS, Bronte 1931, in 12°, 190 pp., L 6. Critico di arte e insieme cultore dell'arte drammatica, il ch. Schilirò, dopo avere studiato I Criteri estetici dell’arte D’Annunziana (Catania, Giannotta, 1918), ci fa vedere in un dramma di argomento abbastanza arduo per la rappresentazione, come si possa commuovere, senza incorrere nei vizi dell'estetismo. Il trionfo di Legnano, gloria non della sola Milano ma dell'Italia, nonostante le difficoltà del soggetto, trova qui l'azione così abilmente impostata, gli affetti e le passioni tanto armonicamente intrecciate, che pure i due idilli di Simonetta ed Alberto, di Isotta e Ruggero, acuiscono e rinfocolano l'amore della desiderata libertà. Se non sono tutti storici i personaggi, è storico il quadro, storico lo spirito milanese, l'entusiasmo del sacrifizio e l'amore alle Somme Chiavi. Il colore poi del tempo e del luogo traspare nella nobiltà del verso, nella cura della lingua, nella proprietà dei termini, che spesso danno sapore di robusta vecchiezza, senza nuocere alla facilità della comprensione. Si vede che in questo particolare della lingua, il ch. A. ha messo una diligenza speciale, come nell'adattare le locuzioni ai personaggi, e per questo forse i tre arcadori toccano un poco il triviale (pp. 152-55). Sebbene a primo aspetto possa sembrare che l'arte del ch. A abbia troppo del compassato, pure Il Carroccio potrà essere un monito alla sbrigliata arte moderna. (P. Franceschini)[1] Ada Negri, nelle lettere che lo Schilirò pubblicò nella seconda edizione del suo Itinerario spirituale di Ada Negri del 1948, esprime alcuni apprezzamenti su alcune opere del Nostro, e del Santo Francesco e del Carroccio dice: Ho letto e riletto, in questi giorni, (agosto 1936) il suo dramma in versi Santo Francesco e anche Il Carroccio. Entrambi bellissimi (non so fino a che punto rappresentabili, perché non m'intendo di teatro); ma, in specie Santo Francesco; vividi e freschi di poesia zampillante, con scene forti e ben tagliate, e passi di alta lirica. Quanto lavoro nella sua vita combattiva! Ma che si farebbe al mondo senza il lavoro e senza la fede?[2] Ed ecco cosa scrive Antos nei suoi appunti inediti sull'argomento: Il Carroccio (Vedere prima Raccoglimento operoso) Dopo Il Seminatore che non miete il poeta non pubblica più nulla di veramente importante. È la stasi necessaria alla costruzione del nido di nuovi canti a Catania, dove avverrà l'incontro con Pietro Mignosi. Codesta stasi si chiude con un dramma, ideato e scritto quasi per diporto in quel periodo.
Il Carroccio. Dramma milanese, Bronte s.d. (ma 1931). Il fatto si riferisce a una delle conseguenze fatali della triste Dieta di Roncaglia, che portò Milano a ribellarsi al Barbarossa e a subirne le terribili prove e devastazioni fino alla vittoria; e comprende gli anni 1162-1176: tempo lungo per lo svolgimento d'un dramma, il quale perciò sembra alle volte mancare di quell'entusiasmo ch'è d'un'opera composta in un unico getto. Ci avrà influito l'averlo scritto, come ho detto, per diporto. Ma questo induce il lettore a chiedersi se il Poeta non avesse una mira pratica. Quell'amaro rimpiangere la libertà perduta, quel fuoco sacro, che a uno dei protagonisti - Ugo Visconte – dà parole degne di un eroe alfierano; quell'amor patrio, che lancia nella mischia il di lui figlio Ruggero fino a perdervi la vista: fanno sentire che anche il Poeta freme e anela a libertà. Ci fu chi gli domandò se egli intendesse alludere alla perduta libertà sotto il regime fascista; ma egli, forse per il periodo delicato in cui si viveva, tenne sempre a confessare che a questo non aveva mai badato. Difficile ciò non era, data la tempra virile del Poeta, che è sicuro e sa attendere il tempo della bonaccia. Ciononostante, il lettore non esclude anche questo aspetto. Nell'un caso o nell'altro, al critico salta subito all'occhio che il dramma, se non mira principalmente, certo dà poi luogo ai due episodi, i quali più che drammatici, possono dirsi lirici e ci rimenano a Il seminatore che non miete: uno, l'amore fortunato di Isotta con Alberto; l'altro, l'amore sfortunato di Simonetta con Ruggero. Il primo, certamente perché coronato dal matrimonio e dalla nascita di un bambino - Ugo -, che fa pensare a Ombretta Missipipì del Fogazzaro, è, il punto per la gioia calma che detta linee pure e genera una miniatura classica, una di quelle concezioni geniali, che restano. L'altro, che ci presenta Simonetta nata da una violenza e perciò condannata a non poter essere la nuora di uno zio presunto e irreale, presenta già una scena oppressa dal dolore e la tristezza da cui non si sa come si uscirà. Situazione puramente romantica, che, come ho avvertito, richiama la nostra attenzione a Massimo e a Bianca. E come questi, Ruggero e Simonetta, venuti a conoscenza della triste situazione, vivono nel dolore; e, come questi, quando Ruggero è già cieco, Ruggero e Simonetta continueranno ad amarsi, ma con una dedizione pura di mutui sacrifizii e assistenza. Questa piega finale, ch'è comune a Il seminatore e si ripeterà nel romanzo Gioventù in cammino, potrebbe parere - e, in certo modo, è - una forma stereotipa; ma, questa volta, la scena piglia quasi la vivezza, che nasce da una scena geniale, e si stacca da ogni considerazione, che fa pensare alle similitudini. I due episodi, che, così, vivono parallelamente e, cosa diversa gioia dell'anima, mettono capo al trionfo e alla liberazione della patria, sono due gioielli degni di stare anche staccati da tutto il dramma precedente e formare due poemetti. Comunque, tutto il dramma, come ha una mirabile unità, pur nella discontinuità del tempo, si ha una quasi perfetta esecuzione stilistica, riguardo al verso, che scorre sempre fluido e senza mai una zeppa, e alla lingua, che, non so se qui più che altrove, fa dello Schilirò il signore vivente del vocabolario, quantunque dispiaccia sempre l'uso di non poche parole arcaiche. [3] APPUNTI DI ESTETICA
Vincenzo Schilirò riprende il suo pensiero sull'Estetica, iniziato nel saggio l motivi estetici dell'arte dannunziana, poi inquadrato storicamente ed esposto sistematicamente in Appunti di estetica, e pubblica Arte = Vita che a mio parere è la seconda edizione degli Appunti di estetica. Un critico dell'epoca dice: «la forte sincerità e la passione per l'argomento sono le due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di chi prende per le mani Appunti di estetica di V. Schilirò». Altro critico più recente aggiunge: «lo Schilirò fu un profondo studioso delle opere di Croce, riconobbe la validità dell'impostazione crociana del pensiero estetico e ne fece sue alcune tesi [...] naturalmente il sacerdote-poeta non accetta la tesi dell'unico spirito immanente nella storia. [...] ma pensa che la retta ragione possa dimostrare [...] la trascendenza di Dio». Nel nuovo titolo è sintetizzata tutta la teoria estetica dello Schilirò che fa coincidere l'arte con la vita. Infatti, dopo un breve ma chiaro excursus sulle concezioni dell'arte nei secoli passati e sull'estetica contemporanea (in particolare su quella idealista del Gentile e del Croce), nell'introduzione prende «leale posizione» sull'argomento ed espone il suo concetto dell'arte, dicendo prima di tutto che gli elementi costitutivi di essa non sono né il bello, né il piacere, né la verità né la verosimiglianza, né l'imitazione della natura, né il bene e l'utile e neppure la semplice intuizione. Ma per lo Schilirò l'arte è un fatto interno, sintetico, individuale e originale, al quale contribuiscono fantasia, genio, immaginazione, sentimento e gusto. L'arte poi si estrinseca e si oggettivizza, sempre secondo il nostro Autore, con il linguaggio, la liricità , la musicalità che producono il godimento estetico. Il Nostro passa poi a parlare della identità e delle teorie delle varie arti, del loro simbolismo e misteriosità, dell'indipendenza dell'arte e dei suoi due aspetti: retorico e tecnico. Nel penultimo capitolo espone i corollari dell'arte: vitalità, differenza tra arte e artificio, per cui si pone l'interrogativo se la fotografia, il cinema, il grammofono, la radio (e oggi avrebbe aggiunto anche la televisione) sono veramente arte e fino a che punto. E infine chiude con la critica e la storia dell'arte a proposito della quale conclude dicendo: «la storia non si racconta, si vive [...] perché la storia non è fredda illustrazione, ma realtà spirituale in atto. L'arte è storia per se stessa [...]. La storia d'arte non può andare oltre la critica». Ora riportiamo uno dei tanti giudizi critici sull'Estetica di Vincenzo Schilirò: La forte sincerità e la passione per l'argomento sono le due note distintive che a prima vista balzano agli occhi di chi prende fra le mani Appunti di Estetica di V. Schilirò. Si sente subito il lungo travaglio che ha agitato l'anima di questo scrittore, si sente come l'esame del misterioso e sacro fenomeno artistico sia stato per molto tempo il più ansioso e grave dei problemi che abbiano affaticato il suo spirito. Esso non poteva non essere sentito con passione e sincerità da una tempra di studioso come l'autore, conoscitore acuto della nostra letteratura.[4] |