Il decadentismo dannunziano, le forme vuote e viete, contro ogni principio di sana moralità e la più spudorata e bestiale sensualità sono degnamente messi in evidenza da questo nostro critico ed esegeta insigne, il quale riesce a concludere degnamente la sua notevole e originale attività di critico con L'itinerario intimo[2] di Ada Negri, dove passando in rassegna l'opera della fortunata e geniale poetessa di Lodi, trova la continua ascesa di essa non solo nei libri vari [...] ma anche nelle lettere in cui sono chiariti i motivi spirituali,. per cui «riesce a far balzare nel quadro del suo tempo e nei moti della sua anima, prima tempestosa e ribelle, e dopo serena e quasi mistica, questa poetessa che, tra l'otto e il Novecento seppe lasciare un'impronta veramente incolmabile e inconfondibile su tutti i poeti di primo piano di questo tempo. Vincenzo Schilirò, critico ed erudito, spirito lungimirante di credente e di poeta fra i migliori che l'Italia abbia avuto, seppe dare testimonianza, oltre che come esegeta e sociologo, come fine e profondo conoscitore di scrittori, poeti, artisti e filosofi eminenti, come severo interprete di due secoli che formano il tempo più vicino a noi.»[3] Allo stato attuale delle mie ricerche non risulta nessun Brontese che abbia scritto qualcosa su Vincenzo Schilirò dopo la sua morte.
Nel 1956 su Panorama biografico degli italiani d'oggi, Vaccaro, vol. Il, p. 360, compare una bio-bibliografia del nostro ma come se fosse ancora in vita, infatti non c'è indicata la data di morte e riporta l'indirizzo e il numero di telefono. Bisogna arrivare al 1988 per trovare un lungo articolo sullo Schilirò pubblicato su «Synaxis» vol. VI Catania a cura di Gerardo Ruggeri e dal titolo Vincenzo Schilirò un sacerdote-poeta. In detto articolo di ben 27 pagine, lo Schilirò viene introdotto come collaboratore, assieme ad Andrea Tosto De Caro (di Trapani) e Giuseppe Petralia di Bisacquino, della rivista «La Tradizione» di Palermo, fondata e diretta da Pietro Mignosi uno dei rappresentanti più qualificati della produzione letteraria di ispirazione religiosa, poeta, saggista, studioso di filosofia, narratore, che promosse fra l'altro l'approfondimento dei problemi metafisici e religiosi e un'analisi del neo-idealismo, di cui si mettono in rilievo i limiti e le contraddizioni, ma se ne assumevano le tematiche nel campo dell'estetica. Nella nota che segue il nome del Nostro, con data di nascita sbagliata (1882 anziché 1883), è raffazzonata una bio-bibliografia zeppa di imprecisioni ed errori e compare la notizia secondo la quale lo Schilirò avrebbe insegnato anche all'Istituto Magistrale Turrisi Colonna di Catania, notizia che non figura in nessuna altra fonte e che è stata smentita dal dirigente scolastico di quell'istituto. Riferendo nel testo che lo Schilirò fu direttore de «La Tradizione» dopo la morte del Mignosi (1937) conferma che «dopo due anni fu costretto a sospenderne la pubblicazione». E continua: «i suoi numerosi saggi letterari lo dimostrano studioso originale e pienamente inserito nel dibattito di quel periodo sul significato e il valore dell'arte. Il Croce seguì con benevola attenzione le sue pubblicazioni e a proposito di un suo saggio su Gabriele D'Annunzio, pubblicato nel 1918, così fra l'altro gli scrisse: «Ella ha sentito il bisogno di formarsi concetti precisi sull'arte e sulla critica prima di accingersi ai problemi dell'arte dannunziana. E di questa arte, delle sue tendenze e di ciò che realizza, ha dato un giudizio che mi sembra esatto». A proposito dei suoi Appunti di estetica preceduti «da una breve ma attenta storia del pensiero estetico italiano» il Ruggeri dice che «lo Schilirò fù un profondo studioso delle opere di Croce, riconobbe la validità dell'impostazione crociana del pensiero estetico e ne fece sue alcune tesi che già erano divenute celebri. Anch'egli afferma che l'arte è intuizione lirica e che ciò che si intuisce in essa ha il carattere o la fisionomia dell'individuale e identifica l'intuizione con l'espressione, ammette il differenziarsi quantitativo del dono dell'arte in tutte le persone e l'universalità e cosmicità della produzione estetica. [...] Naturalmente il sacerdote-poeta non accetta la tesi dell'unico spirito immanente nella storia, di cui tutti gli individui sarebbero passeggere modificazioni. Egli pensa che la retta ragione possa dimostrare l'esistenza autonoma di ogni singola persona e la trascendenza di Dio e che, in Gesù Cristo, Dio abbia chiamato l'uomo a vivere lo spirito dell'amore. Per lo Schilirò «l'arte non è giuoco, non è piacere, non è illusione: è la vita stessa». L'attività artistica è tensione verso qualcosa la cui mancanza fa sentire la vertigine del vuoto. [...] L'arte è il preludio e il presentimento di un «regno beatificante»; intuizione che fa vedere le cose tutte come simbolo e immagine di Dio e quindi dell'Amore; è esaltazione dell'anima che sente la sua stirpe divina. Lo Schilirò usa la parola «estasi» che è quell'uscire da se stessi; è anche dimenticanza di se stessi, della organizzazione logica del mondo [...] e afferma che «le radici della poesia sono da ricercare in tutti gli aspetti dell'esperienza storica, dalla vita dei sensi all'opera della fantasia, alle aspirazioni dell'intelletto e alla tensione d'amore». E ancora: «l'arte in quanto atto, significa espressione vitale d'un dato momento dello spirito, dal quale non si può escludere il sentimento, che è segno e condizione di vitalità, come non si esclude il contributo dei sensi, che sono le fonti perenni dell'esperienza, e non si escludono gli elementi intellettivi che coi fantastici hanno mutui e necessari rapporti». [...] Il fatto estetico possiede la fondamentale caratteristica della individualità e inimitabilità. [...] Il significato della poesia e dell'arte, secondo lo Schilirò, si trova nella rappresentazione della completezza dei valori umani; [...] egli nella sua poesia si esprime con un linguaggio vibrante di sana sensualità, di passione contenuta, di spiritualità, di elevazione. [...] Egli vede l'uomo finalisticamente ordinato alla felicità, la quale consiste nel bene e nella verità. «L'arte che si chiude nel morboso e nella foschia del pessimismo, non può contare che sopra un successo a metà». Lo Schilirò esprime questo giudizio a proposito di Pirandello il quale non ha trovato se stesso. «Pirandello - scriveva lo Schilirò nel 1935 - non ha trovato se stesso», ma per trovarsi è necessario, direi, separare sé da sé; sciogliersi dal proprio io, sostenersi a una Realtà, farsene lume di code sta certezza e guardarla in faccia la nostra assetata umanità: povera briciola del Pane eterno. [...] L'uomo rappresentato dal Pirandello, gli appare privo di risurrezione e di amore creativo. [...] Lo Schilirò vede l'arte come fatto esistenziale [...] e l'artista completo obbedisce al fascino e all'attrazione della felicità e della pienezza, anche se questo non comporta per nulla dimenticanza del dolore e della tragicità della morte. Il nostro autore fa sua la distinzione crociana fra arte e morale, ma osserva che l'artista, nel difendere l'autonomia della sua ispirazione, non può non dimenticare che il valore dell'arte deve essere coordinato con gli altri valori espressi dalla persona. [...] L'arte può dirsi vita: vita che può avere affermazioni utili che appartengono alla libertà d'affermazione, «salvi, s'intende, i motivi della sua responsabilità individuale.» Dopo questa sintesi dell'estetica dello Schilirò, il Ruggeri passa all'analisi delle due opere più importanti di poesia del Nostro che sono Il seminatore che non miete e Il pozzo di Sichem. «Il seminatore che non miete - dice il Ruggeri - è un racconto in prosa e in versi, scritto nel 1923 e pubblicato alcuni anni dopo». Ma questo è un grosso errore perché la prima edizione è proprio del 1923 pubblicata presso lo Stabilimento Tipografico Sociale di Bronte, mentre la seconda edizione è del 1927, pubblicata sempre a Bronte dalla stessa tipografia. È la storia straziante di Massimo e Bianca. Massimo è un giovane di 24 anni, orfano di entrambi i genitori, che, a Caserta, in casa del cognato, vedovo della sorella di lui, Annie, incontra Bianca e fra i due sorge un amore intenso e struggente, animato da sentimenti puri, ma proprio questa purezza rende i due amanti tesi nello spasimo dell'incontro. Nel maggio del 1915 Massimo va in guerra ed è gravemente ferito al volto e ad un polmone. Il sentimento patrio del protagonista, dopo la guerra, subisce l'affronto di coloro che disprezzano la vittoria italiana e l'esercito. Bianca continua ad amare incondizionatamente la persona amata, nonostante la trasformazione spaventosa del viso e il continuo deteriorarsi della sua salute. Massimo muore nel giugno del 1922, confortato dalla fede e dalla cristiana rassegnazione di Bianca, la quale gli dimostra la propria fedeltà dedicandosi a «una missione di bene e di civiltà» in un paese ignoto. «Lo Schilirò costruisce il suo racconto con vari elementi armonicamente coordinati: didascalie, note intime tratte dal diario di Massimo, lettere da lui scritte a Bianca e ad un amico ed infine effusioni liriche dello stesso Massimo, che costituiscono l'opera propriamente poetica. Tutta la vicenda si svolge nella cornice della natura [...] quasi il contrappunto esteriore di una vicenda intima e spirituale. [...] un'osservazione di Massimo ci permette di capire lo stato d'animo del sacerdote-poeta [...]: «La mia anima aborre dai pessimisti che calunniano grossolanamente le opere del Signore, come rifugge dai fabbricatori dell'ideale irraggiungibile e da tutti quegli asceti religiosi che ostentano disprezzo e noncuranza per le bellezze, l'amore e le conquiste della vita». [...] Il poeta ha dimenticato le tribolazioni della vita terrena e vede la natura trasfigurata e spiritualizzata: suoni, colori, bellezza, complemento reciproco, tutto è frutto dell'amore di Dio che crea. [...] Il tema del girasole che si volge verso la luce del sole fu proposto anche da Montale nel 1925 con intonazione e tecnica diverse. [...] Il poeta non si fa illusioni: il godimento dura poco [...] e collega la celebrazione della natura al movimento interiore dello spirito, il quale deve ritrovare Dio. Montale prende su di sé il peso di una umanità affranta dalla fatica e dalle delusioni [...] lo Schilirò prende su di sé il peso e la cura della vita spirituale. [...] I due protagonisti della vicenda da lui raccontata rientrano nell'orizzonte della sua vita personale: tutti e due sono senza famiglia e anch'egli ha rinunziato a formarsi una famiglia; tutti e due non consumano la loro donazione reciproca e sublimano la rinunzia attraverso la fede e la carità; anch'egli rinunzia a qualcosa e supplisce a quella rinunzia svolgendo un servizio a beneficio di coloro che vogliono coltivare l'anelito verso Dio. La natura è veduta in questa ottica del raggiungimento di un fine spirituale. Ed è qui che la sua poesia trova la peculiarità di un animo sacerdotale: la vita sospesa tra l'aspirazione a Dio e la rinuncia a qualcosa che proprio dal rapporto con Dio, veduto come amore, acquista il carattere di un valore sublime e intoccabile. [...] L'amore è innalzato al di sopra dell'umano. [...] Lo Schilirò celebra l'amore, ed è difficile trovare un altro poeta che esprima con tanta intensità l'orientamento di tutte le cose verso la propria integrità e completezza. [...] Tutte le cose danno voce a quella parte di umanità che nel poeta è sacrificata [...] l'esercizio del ministero sacerdotale rende più viva la voce dello spirito. [...] La natura senza l'uomo è morta, insignificante, così come sarebbe inesistente se non l'avesse creata Dio. [...] La natura è un dono di bellezza fatto da Dio. [...] La natura accompagna gli uomini nel dolore e nella gioia. [...] La natura svolge quasi una funzione materna [...] e vi è una profonda simbiosi fra amore, dolore e gioia. Quanto più l'uomo ama, tanto più esce dal cerchio della solitudine. [...] Lo sbocco mistico del poeta è la conseguenza necessaria del proiettarsi della propria realtà sacerdotale nel personaggio di Massimo. [...] Proprio il carattere della sacralità prevalente nell'animo del poeta dà alla vicenda una coloritura particolare. [...] La proiezione dell'animo sacerdotale del poeta si nota in un'altra caratteristica: tutte le creature non ragionevoli sono nella sofferenza, perché non hanno ancora raggiunto la riconciliazione suprema. Bianca e Massimo sono il completamento della creazione, perché [...] hanno raggiunto quella riconciliazione suprema alla quale tutte le cose tendono inconsciamente. [...] La vicenda di due persone si inserisce nella travagliata storia dell'umanità e nel gemito di tutta la creazione. |