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E’ l’ultima monografia ed è l’inno all’amicizia: infatti è dedicata al grande amico Renato Fucini(1) con queste nobili e toccanti parole: Alla memoria di L’incipit di questa monografia è la rappresentazione lirica della nascita del vulcano, o meglio la montagna, come preferiamo chiamare noi brontesi l’Etna, dal Caos primordiale. |
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“Grandiosa, mirabile visione di questa stempiata conca ignea, di questo immenso braciere di venti chilometri in giro, fiammeggiante da numerose bocche in mezzo a flutti ardenti e gorgoglianti. Goethe avrebbe potuto intonare l’inno delle sirene nella classica notte del Fausto.(2)” Gli antichi popoli “o i primi navigatori Fenici o Elleni […] lo chiamarono Etna, dalla radice indoeuropea aidh, brucio; montagna del fuoco lo dissero pure gli arabi.” La mitologia gli attribuì diverse origini e “poeti e scrittori di tutti i luoghi e di tutte le epoche l’hanno cantato e narrato, ma egli, più grande di tutti gli storici e di tutti i poeti, da trecentomila anni, […] ha narrato e rinarra spesso la sua storia d’ire tremende […] e con voce roboante ha cantato la sua fiammeggiante epopea, la sua Titanomachìa che Esiodo ricantò poscia in versi immortali. “Il mistero del fuoco dell’ Etna tormentò sempre i sofi(3) delle antiche età.” E esemplifica con Empedocle d’Agrigento la sua storia di apoteosi. E continua con le diverse interpretazioni che ne hanno dato i dotti delle diverse epoche. Ma asserisce che “gli stessi antichi non prestarono fede alla credenza popolare in una causa soprannaturale dei fenomeni ignei,” elencando da Cornelio Severo, autore del poemetto “Etna, a Dante che sfatò Tifeo […].” E continua con gli aborigeni ai quali “non riuscendo possibile la spiegazione del fenomeno igneo, si presentò naturalmente l’idea di un essere sovrumano, di un Deus absconditus.” Passa quindi ai “Ciclopi omerici dall’occhio rotondo che stanno sulle cime dei monti, a cui gli uomini non ardiscono accostarsi, […] e che corrispondono ai molti crateri sulle spalle dell’Etna. E meglio che Omero nella Odissea, Esiodo nella Teogonia(4) rappresentò […] con figurazioni fantastiche e grandiose, un’ eruzione dell’Etna, forse quella del 693 a.C. […] con questa ultima frase: “Il fuoco dell’immenso fulminato si rinserrava negli aspri gioghi del monte Etna e l’ampia terra ivi ardeva con vapori ingenti, si liquefaceva come il ferro, lo stagno fortissimo fuso.” “Pindaro, Eschilo e gli altri poeti venuti dopo ricantarono il mostro Tifeo mezzo uomo e mezzo serpente, fulminato da Giove con le folgori fabbricate nella fucina dell’ Etna dai Ciclopi: Bronte, Sterope, Arge e l’immaginarono disteso sotto la Trinacria […] con sul volto sovrapposto l’Etna, sotto cui giace supino e scaglia arene ed erutta fiamme dalla bocca orrenda. I Titani quindi, i Ciclopi, al pari dei Giganti e di Tifone delle leggende posteriori, tutte queste divinità ignee non rappresentano che forze telluriche, vulcaniche, sismiche. […] “[…] Il mito della Gigantomachìa non è solamente greco, è concezione universale. Ogni nazione ebbe i suoi giganti, come ogni nazione ebbe i suoi Iddii indigeni, dei quali gli antichi scrissero ed eternarono il nome nella volta celeste. Allegoria, favola e storia è il mito di Proserpina […] e tutte le altre leggende non sono che ricordi simbolici di antichissime eruzioni. [..] “Ma quante volte ha egli, il gigante, manifestato la collera sua tremenda? Chi lo sa? La storia non era ancora nata. Vulcanisti e Nettunisti discutono di tre eruzioni nelle grandi epoche della natura; di cinque nell’età mitologica, di sedici di probabilità storica fino al 340 a. C.. E continua elencando e descrivendo eruzioni fino ad arrivare alla “bellissima leggenda, umana dei fratelli Pii: Anfinomio e Anapia da Catania, […] riferita […] forse a quella del 693 in cui mentre tutti i cittadini pieni di spavento erano intesi a portare in salvo le loro cose più preziose, i due fratelli […] caricaronsi sulle spalle i loro vecchi genitori […] quando improvvisamente, quasi a rispetto filiale, le fiamme si bipartirono, lasciando incolumi i due fratelli […] e divorando gli ingordi e le loro masserizie.” “Non c’è vulcano in Europa che uguagli in celebrità l’Etna, Mongibello come con voce arabo sicula lo chiamano gl’indigeni. […] Questa celebrità però, oltre alla natura sua vulcanica, è dovuta alla consacrazione che ne fecero i primi uomini, i quali, spauriti immaginarono e credettero l’ Etna un Dio. […] Esso stesso era già Dio ed altare di fuoco magnifico, tremendo che i popoli Etnei […] tremando adoravano. A Giove Etneo, reggitore del monte, cantò inni Pindaro.(5) […] “Ma Adrano e Vulcano erano la stessa divinità? Erano due i tempii dedicati a loro? Io penso che la dotta argomentazione dell’Holm e del Freeman non toglie nulla all’ affermazione di Eliano che vi fossero stati due tempii dedicati allo stesso dio del fuoco, in due città diverse: Adrano ed Etna Inessa o, come altri vogliono, a Catania. Dopo questo sono vane tutte le altre congetture. La nostra mente irretita in tanti forse, non potendo approdare a nulla, lascia ad altri il farneticare. “Un sentimento di fede dominava la vita pubblica e privata degli antichi. Tutto aveva principio da Giove. […] Tutta era religiosa la vita. La religione pagana, scrive il Tommaseo, era seria e severa cosa. Niente senza gli Dei giunge di perfetto bene agli uomini. […] “La fede nel Dio, la cui volontà, il cui giudizio si manifestava dando mente divinatrice e giudicatrice agli animali, era attribuita dagli antichi anche alle cose materiali, nelle quali essi scorgevano il cenno, la volontà del Nume. […] “Roma repubblicana mandava ambasciatori a sacrificare sull’ altare di Giove […] per appagare l’ira del Dio Vulcano […]. Furono altresì le eruzioni ritenute segni d’infausti avvenimenti, come tuttora il popolino li crede castighi di Dio. […] Secondo Virgilio, l’ eruzione avvenuta ai tempi di Cesare fu presagio della sua morte. […] Quando gli uomini sentirono in cuore la pietà, non sacrificarono più vittime per placare la cieca ira del Dio nascosto nelle viscere della montagna e i credenti della nuova religione opposero nuovi esseri divini per arrestare e deviare le fiamme. “Nell’ alto medioevo non mancarono impostori come Il mago Eliodoro ritenuto e venerato come Dio, eresse a Catania, dirimpetto all’ Etna, una statua per salvare la città. […] L’arte magica però di Eliodoro, che, a volo, era andato a Costantinopoli e ritornato a Catania, non lo salvò dalla santa ira del taumaturgo vescovo S. Leo che lo fece gettar vivo nelle fiamme dell’ Etna. […]” Si passa ora alle leggende, iniziando da “quella antichissima dell’Egitto che narra che i giganti venivano tormentati in oscurissimi luoghi sotto le acque e che i crateri dei vulcani fossero le porte dell’inferno. Questa leggenda passò in Grecia e poscia presso gli Etruschi e i Romani. […] All’avvento del Cristianesimo disparvero i tempii a Giove, a Vulcano, ad Adrano. La concezione pagana del fuoco eterno tormentatore degli empi, si fece cristiana. L’Etna fu battezzato, santificato dalla nuova religione […] Sulla costa del monte si rizzarono altari e croci, sorsero conventi e monasteri. Preghiere e inni, fra rombi sotterranei, fiamme sulfuree e rossi bagliori del Titano adirato, s’ innalzarono al novello Crocifisso. […] “La filosofica leggenda si confuse con i demoni del Vangelo; la novella religione confermò, consacrò il mito […] tutte le religioni hanno qualcosa di comune che le rende venerabili e temute: il mistero dell’oltre tomba.” E seguono parecchi riferimenti storici da Tertulliano a Gregorio Magno. “Fra le leggende di origine schietta siciliana è nota questa di Lucifero, narrata dal mago Pitrè, andato da poco nel regno delle fate. Quando Lucifero fece guerra a Gesù Cristo, l’Arcangelo Michele l’inseguiva per l’aria e Lucifero […] si lasciò andare verso la Sicilia e andò a nascondersi in Mongibello. […] ma la testaccia gli usciva fuori […]. San Michele […] con un colpo di spada, gli fa saltare un corno, il quale andò a cadere a Mazzara, […]. Lucifero, vista la mala parata, spicca un salto e con un morso gli porta via una penna dell’ala […] che è tutta di perle finissime […] e che cadde a Caltanissetta, ma non vi è più […]. “La leggenda della pantofola della regina Elisabetta d’Inghilterra è nota tra i pastori brontesi. Detta pantofola, caduta dal cadavere della regina sulla rocca Calanna, tra Bronte e Maletto, pervenne miracolosamente all’Ammiraglio Nelson, creato duca di Bronte, e gli servì come talismano in tutte le battaglie; ma dimenticatala quando combattè a Trafalgar, vinse la battaglia, ma vi perdette la vita. I pastori brontesi narrano un’altra leggenda che parla di una cagnolina nera dagli occhi di brace che guaisce per i sentieri del bosco. Alcuni dicono essere l’anima del “maestro Ignazio Cereprino, magnano; altri dicono essere l’anima di un prete […]” che i diavoli buttarono nel cratere dell’Etna.(7) |
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