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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

Le carte, i luoghi, la memoria

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Pasta e lattuca

Il nomignolo Pasta e lattuca(1) gli era stato affibbiato dai soliti maldicenti senza la abituale cattiveria, ma perché il soggetto faceva spesso l'elogio sperticato di questo piatto mediterraneo, povero ed insipido, ma che rispecchiava bene il carattere bonario e affatto spiritoso del suo panegirista.

Questi era don Peppino Sofia, Agronomo, ma chiamato Ingegnere, come era solito a Bronte, e non solo lì, ap­pellare i geometri-agrimensori. Egli apparteneva a una rispettabile famiglia di artigiani ferrai, specialisti in ser­rame e in particolare in serrature e chiavi, prima dell'avvento della chiave tipo Yale. Egli era l'ultimo di quattro figli, perciò quello che aveva potuto studiare; i primi due avevano continuato il lavoro paterno, raggiungendo un certo primato nel loro mestiere, la donna aveva una tabaccheria e l'ultimo, come detto, era diventato professio­nista.

Io lo conoscevo bene perché era zio del mio amico Gregorio con il quale sono tuttora in continui e affettuosi rapporti, benché egli viva lontano tra Casalmaggiore e Milano.

Con Gregorio ci davamo appuntamento al tabacchino (sta per tabaccheria) per poi andare a passeggio o al caffè per giocare con altri amici a carte, precisamente a scopone; gioco che io riuscivo a sostenere discretamente solo per qualche partita: poi infilavo errori uno dopo l'altro per cui Gregorio, specie se ero suo compagno, mi redarguiva, dicendomi: «Tu sei come l'uovo: che più sta sul fuoco, più duro diventa!»

Al tabacchino trovavamo quasi sempre la zia che ci colmava di gentilezze, ma spesso incontravamo anche lo zio Peppino il quale ci intratteneva in conversari non proprio piacevoli che finivano invariabilmente con la domanda: Cosa avete mangiato? per concludere con l'elogio di qualche piatto mangiato da lui, ma che si assomigliava sempre alla pasta e lattuca: digeribile, rinfrescante e calmante.

Dalla cura con pasta e lattuca et similia l'Ingegnere Sofia aveva acquisito, oltre che da madre natura, quella calma paciosa che non a tutti piaceva, per non dire che veniva a noia, specie ai giovani tutto pepe, ai quali piacevano invece i piatti piccanti e le buone bevute.

E sì, quelle buone bevute che non piacevano affatto all'Ingegnere Sofia il quale beveva solo acqua, magari del pozzo della Genia (mia nonna materna) che vantava l'acqua più leggera del paese, quando ancora non c'era l'acquedotto né tanto meno quella del Bosco Etneo.

Una volta una compagnia di buontemponi volle giocare uno scherzo al mite Ingegnere Sofia: organizzarono un finto lavoro di agrimensura e lottizzazione di una masseria della durata di due giorni e, siccome la masseria era molto lontana dal paese e non conveniva andare e tornare due volte, stabilirono di pernottare sul posto, dove avrebbero consumato la cena che sarebbe stata il pasto principale.

Mentre l'Ingegnere era al lavoro con i contadini che lo coadiuvavano, i buontemponi prepararono una cena panta­grue­lica a base di antipasti di salumi locali molto piccanti, e formaggio pepato (tipico siciliano), di maccheroni caserecci al sugo di salsiccia e spuntature di maiale, di costolette di castrato a scottadito con contorno di olive nere e sott'aceti; il tutto innaffiato con il genuino e forte vino della contrada «Serra», e seguito da frutta secca e dolci caserecci inzuppati con moscato siciliano doc.

Rigorosamente bandita dalla tavola l'acqua che, a detta degli organizzatori, era destinata solo per lavarsi le mani.
L'ingenuo Ingegnere Sofia, rientrato stanco e affamato dopo un intero giorno di inutile lavoro, solleticato dai forti odori di tutto quel bendidio, eccitato dall'insolita allegra baldoria che lo aveva accolto a tavola, dimenticando la sua dietetica pasta e lattuca, al grido, per lui inusitato, semel in anno licet insanire!, si abbandona per una volta tanto alla generale crapula, durata fino a notte fonda.

Notte che per il nostro ingegnere proseguì in incubi prima e poi in malesseri che lo ridussero uno straccio. Ma ben peg­giore fu l'epilogo della trasgressione quando, fra le risate e i lazzi dei buontemponi, i quali non avevano risentito per niente della prolungata e pesante bisboccia, perché adusi, don Peppino venne a sapere che era tutto uno scherzo, compreso il lavoro del giorno precedente e per il quale, naturalmente, non avrebbe percepito alcun compenso; tiro che gli era stato teso proprio per fargli capire che c'erano anche i piaceri della gola, ma che sortì l'effetto contrario, perché lo confermò nella predilezione della sua mitica pasta e lattuca.

Simpatico il ricordo dell' Ingegnere Sofia e delle conversazioni con lui, le quali davano la stessa calma della lattuca da lui tanto usata e decantata. Ricordo che vuole essere anche un omaggio al mio amico e alla sua famiglia d'origine.(2)


Il «Casino dei civili»

Così veniva chiamato una volta a Bronte quella che poi fu la Casa del Fascio ed ora, credo, Circolo Culturale Enrico Cimbali, in contrapposizione a quello del Pubblico Impiego e del Dopolavoro Operaio.

Il Casino dei civili o dei nobili era formato da ricchi proprietari terrieri e da liberi professionisti dai nomi veramente illustri, come i De Luca, che diedero i natali ad un Cardinale, i Cimbali, i Pace, i Saitta, i Radice, i Fernandez, i Tovez, i Grisley, ecc., che diedero Sindaci, Deputati, Podestà, storici ecc. e poi medici, avvocati, notai e farmacisti. Gli altri (come impiegati, commercianti, artigiani e piccoli professionisti) non potevano farvi parte, e i contadini, che spesso la sera dovevano conferire con i loro padroni, non potevano neppure oltrepassare il cancelletto che immetteva alla terrazza sulla quale si affacciava il Circolo stesso. Il quale era formato da sei vasti locali intercomunicanti e che si affacciavano con tre grandi porte a vetri sulla terrazza suddetta.

In un secondo tempo il Circolo fu acquistato per una lira dal Fascio che ne fece la sua Casa che aprì ad una più larga schiera di soci, purché si iscrivessero volontariamente o per imposizione, al Partito fascista.

Dopo la cadu­ta del Fascismo e la proclamazione della Repubblica i locali passarono ai pristini proprietari, o meglio ai loro discendenti, i quali ne hanno fatto un Circolo Culturale, aperto a tutti coloro che per attività o propensione ne faces­sero richiesta, nonché alle donne le quali vi hanno portato una ventata di novità effettiva e di gentilezza.

Io naturalmente parlerò di alcuni personaggi della mia gioventù e, quindi, dell'era del Casino dei civili o dei nobili e comincerò da quelli che facevano gli onori di casa o che scacciavano gli indesiderati, e cioè gli inservienti, dei quali ne ricordo due in ordine di tempo: il primo, di cui non mi sovviene il nome, era un vecchio forestiero, forse profugo dopo la sconfitta di Caporetto, rimasto celebre per la frase che rivolgeva alla moglie, più giovane di lui e ancora vogliosa: «Fatti più in là, Carmela! Ma non vedi che non c'è mpiù mpolvere?!»

A questi successe u Mutu, cioè Vincenzino Rappazzo, Cimigghiella, persona gentile e intelligente, il quale, malgrado la sua menomazione, riusciva bene a svolgere le sue delicate mansioni di portiere e d'inserviente. Egli solo in un caso perdeva la sua calma sorridente, quando qualcuno, maliziosamente, gli lanciava la frase: «Pira, pumma e pèssichi!» alludendo alle rotondità di una sua prosperosa sorella; allora diventava veramente cattivo e quasi pericoloso.

Ma veniamo a personaggi più importanti, di quelli che facevano la storia del Circolo e la ironica critica dei suoi maggiorenti. Uno di questi era l'avv. Vincenzo Pace, il più sorridentemente ironico personaggio di quel luogo per altri versi lugubre. Egli era il maggiore di cinque fratelli: tre femmine nubili che tenevano lustra la grande casa che si affacciava sulla piazzetta adiacente alla Chiesa della Catena, e un altro maschio, il più giovane, Totò, chiamato il Signorino, celibe come il fratello, impiegato all'Ufficio esattoriale, gestito allora da un privato fore­stiero e poi da un Calì.

Il pomeriggio l'avvocato Pace, che non viveva certo dei cespiti della sua professione, ma dai raccolti delle sue vaste proprietà, date a mezzadria, e dagli incassi della cantina familiare dove si vendeva il vino sempre in con­correnza con quelli dei Cimbali, dei Saitta, degli Interdonato il Messinese, dei Suggi Castiglione, dei Patìnchia, della Bellameggioia ecc., vino che, in tempo di elezioni amministrative o politiche, veniva messo gratuitamente a disposizione degli even­tuali elettori e che costituiva, quindi, l'unico e quasi innocente (se paragonato a quelli moderni) mezzo di scambio per il voto, l'avvocato, ripeto, se ne andava al Circolo dove sfogliava il giornale, fissato ad un bastone, munito di adeguata fessura, che ne permetteva la lettura e ne impediva l'asportazione, e poi si intratteneva in conversari, più o meno vacui, con gli altri soci del Circolo.

Quando in esso capitava qualche giovane che dimostrava di apprezzare la di lui sapida e a volte acida conver­sazione, però sempre azzeccata all'argomento, l'avvocato Pace faceva gustosi e coloriti quadretti di vita civile brontese.

Una volta riferì nei minimi particolari una discussione svoltasi fra personaggi dai nomi altisonanti, ma estre­ma­mente rozzi e presuntuosi. L'argomento della discussione verteva sulle esperienze sessuali, extra coniugali, dei partecipanti, i quali, dopo aver disquisito degli amori ancillari o con contadine, piegate alle loro voglie con le buone o con il ricatto, passarono addirittura alle esperienze sessuali con gli animali. Quando tutti avevano am­messo di essersi in qualche modo accoppiati con qualche animale, più o meno domestico, venne su uno, il più infoiato di tutti, con l'apodittica affermazione: «Ma il più fresco è quello della capra!»

Di tutti i suoi compagni di Circolo o suoi conoscenti l'avvocato Pace sapeva vita e miracoli, come si dice, e ne faceva una descrizione sempre ironica, a volte benevola, ma tal'altra fortemente satirica. Ma per la legge dantesca del contrappasso, l'avvocato Pace fu vittima dell'ironia sardonica di un altro avvocato, Renato Radice, il quale raccontava che il suo vecchio collega aveva anch'egli qualcosa da essere evidenziata con lo stesso spirito che aveva usato per gli altri.

Infatti raccontava l'avv. Radice che il Pace, mentre più o meno benevolmente parlava degli altrui difetti, suscitava il disgusto degli astanti pulendosi il naso con le dita e, fatta dell'estratto una pallina, se la buttava in bocca (che schifo!). Ma ciò dimostra la veridicità del detto popolare: «Chi di spada ferisce, di spada perisce!»


Mangiatabaccu

Una volta il barbiere era, come dimostra anche Il Barbiere di Siviglia di Rossini, un factotum, cioè uno che, oltre al suo mestiere vero e proprio, eseguiva molte altre mansioni e altri incarichi.

A Bronte ai miei tempi conoscevo un barbiere indicato come Mangiatabbaccu. Il soprannome potrebbe far pensare ad uno di quei masticatori di tabacco che si vedevano in alcuni films americani in bianco e nero, invece indica solo un fiutatore di tabacco, sempre sporco di detta polvere sul largo labbro superiore, sulla camicia, sul gilè, sulla giacca, nonchè sul pollice e l'indice della mano destra.

Detto soprannome aveva fatto dimenticare a tutti le sue vere generalità, nonchè la sua congenita avarizia, perchè nell'offrire il tabacco da fiuto era veramente splendido e sempre primo anche con i frati questuanti che, proverbial­mente, erano sempre pronti a dire "pace e bene" e ad aprire contemporaneamente la tabacchiera per offrire una “presa”.

Il nostro "mangiatabbaccu" era un uomo dalla statura superiore alla media dei siciliani, dalla corporatura solida ma senza un filo di grasso, occhi freddi come di ghiaccio e dalla barba sempre poco rasata pur essendo bar­biere. Egli aveva sposato una vedova con quattro figli, dei quali due erano andati in Argentina, uno (il più ribelle che lo odierà per tutta la vita) negli Stati Uniti, mentre la più piccola era rimasta con la madre e col patrigno al quale si era affezionata perchè era dolce e remissiva.

Il nostro barbiere aveva fatto un affare a sposare la vedova, perchè essa aveva una bella casa con piano terra, dove avrebbe sistemato la sua barberia, e primo piano per abitazione. Inoltre aveva alcuni appezzamenti di terra abbastanza vicini al paese nelle contrade di "Rinazzu","Maronna 'a vina" e "Fiteni", i quali gli avrebbero permesso di dedicarsi, come molti artigiani del suo stesso mestiere, al secondo lavoro di agricoltore del lunedì, giornata di festa per i barbieri.

Nell'espletamento del suo mestiere in senso stretto era abbastanza ruvido a giudicare dal modo come trattava i suoi clienti che erano contadini, carrettieri, carbonai o gente che in genere andava dal barbiere prima di rientrare a casa per lavarsi.

Una manifestazione fa­scista dal terrazzino del Cir­colo di Cultura (il Circo­lo, un tempo deno­minato Casino dei Civili fu requisito dal Fascio e diven­ne la sede del Dopo­lavoro del Littorio) e (sotto) il Circolo oggi.








 

Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo
Parliamo brontese


 

Oltre che barbiere era il mastro di casa, una specie di maggiordomo dei poveri. Infatti, oltre a curare non più di tre volte la settimana la barba del capofamiglia, i capelli di lui e dei ragazzi una volta al mese, applicava le san­guisughe alla madre e alla suocera che soffrivano di ipertensione, ma non facevano nessuna dieta, tirava i denti guasti, perché poco lavati e curati, di tutti i familiari e poi faceva gli onori di casa nelle feste di matrimo­nio e di battesimo, che si svolgevano sempre in casa, con tutti i dolci caserecci dell'occasione: i coszaruci, le fillette, i biscotti enormi accompa­gnati da vini e rosoli fatti in casa.

Alla fine della festa nuziale il barbiere-maggiordomo, con voce stentorea salutava gli ospiti con la frase di pram­matica: «Il padrone di casa ringrazia; fra nove mesi ci rivediamo!». Al che la sposa di solito arrossiva o ne face­va le mosse.

Come si dice? Dalla culla alla tomba. Perciò compito del barbiere-mastro di casa era anche quello di preparare la salma di tutti gli uomini di famiglia, rasando per l'ultima volta la barba e passando sul viso l'ultimo talco che era anche l'ultimo belletto.

C'erano anche le prestazioni di pronto soccorso sia in paese che in campagna; il più frequente bisogno del­l'aiuto del barbiere in campagna avveniva nella stagione dei fichidindia di cui, secondo un nobile Podestà degli anni Quaranta, il dott. Placido De Luca, i brontesi avrebbero potuto vivere anche sei mesi.

Allora avveniva che alcuni contadini, per indigenza, mangiassero davvero solamente fichidindia per intere gior­nate, met­tendo a dura prova la loro possibilità di evacuazione; e quando questa diventava impossibile, era necessario il ricorso al barbiere il quale, divenuto cerusico accorreva armato di una grossa siringa metallica, che serviva normal­mente per gli animali, e che conteneva almeno un litro d'acqua, e, fatto mettere in posa l'im­paziente paziente, gli praticava senza complimenti un violento clistere che provocava quasi subito una tale esplosione che, qualche volta, investiva anche il povero samaritano (incerti del mestiere!).

Direte voi: «Mestiere ricco, per tutte queste prestazioni, quello del barbiere!». Macché: per le prestazioni isti­tuzionali il pagamento era in natura e secondo il raccolto, per le altre solo regalie di primizie e di verdure selvatiche; per tutto il resto era un onore! Ma il barbiere era anche un coltivatore diretto: infatti il lunedì, solo giorno libero per detta catego­ria, oltre il pomeriggio della domenica, egli andava a curare il suo orticello più o meno vicino al paese, dal quale ricava­va frutta, verdura e legumi da consumare freschi.

Tutto sommato, però, quello del barbiere era anche un mestiere allegro se quasi tutti, a tempo perso, suona­vano mandolini, chitarre e fisarmoniche e, conoscendo la musica, facevano parte della banda comunale. Questa attitudine e pratica della musica con strumenti a corda e a tastiera rendevano il barbiere adatto e disponibile alle serenate che i giovani organizzavano o commettevano per le loro belle, inavvicinabili. E ciò mi ricorda Felice D’Andrea.

Se la serenata era ritenuta gradita non solo dalla destinataria ma anche dai suoi genitori, lo spasimante vi pren­deva parte, magari cantando, per riceverne un segno di gradimento e di ringraziamento; se, invece, le previsioni erano negative, si mandavano solo i musici i quali, spesso, come segno di gratitudine ricevevano, generalmente dal padre della ragazza, secchiate d'acqua, con la speranza che fosse pulita. Altro incerto del mestiere che spesso era quello del mezzano!

Mangiatabbaccu, a questo proposito, cioè come musico, era una eccezione, perché non suonava strumenti musicali, ma sapeva “suonarle” con la cinghia dei pantaloni, come ben sapeva il figliastro Giuseppe che perciò lo odiava anche dalla lontana Nuova York.

i coszarùci

I coszaruci e, sotto,
 i filletti








 


MESTIERI E FIGURE D'ALTRI TEMPI
(di F. Cimbali)

 


NOTE
(1) lattùca, proprio così, alla latina!
(2) Gregorio, dopo aver letto il mio racconto sullo zio, mi telefonò per dirmi che non era al corrente del nomignolo affibbiato a suo zio Peppino dalle male lin­gue brontesi, ma in base ad una sua "storica frase". Ora anche Gregorio ci ha lasciati nel 1997, ma resto legato da antica amicizia alla moglie Cisa e alla fi­glia Mariuccia, medico, sposata a Milano, e con due meravi­gliosi figli di cui Gregorio mi parlava sempre con amore­vole orgo­glio, allegandomi foto a colori scattate e stampa­te da lui che era diventato un esperto.


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Nicola Lupo: "Fantasmi"