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Nicola Lupo

Fantasmi - Storiette paesane

422 FOTO DI BRONTE, insieme

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'A bàlia

Quando finalmente nel 1928 in casa mia nacque, dopo quattro maschi, la tanto sospirata bambina la quale doveva rinnovare il nome della nonna patema, Maria, morta quando mio padre aveva solo tre anni, mia madre, depau­pe­rata dai precedenti parti a scadenza biennale, perdette completamente il latte e quindi fu la tragedia!

Perché allora il latte in polvere era per lo più mal digeribile dai lattanti e quindi bisognava ricorrere alla bàlia che in quel momento non si trovava. L'emergenza nei primi giorni fece scattare la solidarietà delle vicine che allat­tavano e quindi a turno ognuna di loro dava una poppata a mia sorella la quale, però, doveva saltare quella not­turna e quindi cresceva a stento, seppure cresceva! Ci mettemmo alla ricerca di latte di asina che è il più simile a quello umano, ma anche quello fu un problema quasi inso­lubile.

Intanto mia madre dal balcone della sua camera vedeva passare tutte le mattine una popolana prosperosa e rubi­conda con una bella bambina di pochi giorni in braccio, anch'essa paffuta e piena di salute. La madre sotto le abbondanti vesti faceva intravedere due seni enormi e pieni di latte, tanto che mia madre, con una punta di invidia, si rivolgeva al Signore con una rimostranza che era una preghiera: «Perché non dai anche a me un pò di quel latte per la mia bambina che se ne muore di fame?»

Il Signore l'ascoltò: dopo qualche giorno mia madre vide passare la donna senza la bambina e con uno scialle nero, segno di lutto. Subito la fece interrogare e seppe che la bella bambina era morta per una di quelle tante malattie infantili che una volta decimavano i neonati.

Mia madre subito ne fu sconvolta, temendo che quella bambina fosse stata vittima della sua invidia, ma poi, con­fortata da mio padre il quale in quella occasione si servì della consolatoria frase latina mors tua vita mea! si tran­quillizzò e cercò subito di contattare la donna per assumerla come bàlia.

Anche questa cosa non fu facile, perché il marito della donna era partito da poco per l'America e lei non si sentiva di prendere una decisione senza il di lui consenso. Poi, però, l'ostacolo fu superato per l'intervento di amici e parenti della donna che la convinsero facendo notare che il marito non avrebbe fatto obiezioni sentito il nome della famiglia in cui la moglie prestava un servizio umanitario ben retribuito.

Subito mia sorella rifiorì e in famiglia tornò l'allegria e la tranquillità. Quando mia sorella(1) fu svezzata, 'a sign(or)a Annitta (questo era il nome della bàlia) rimase affezionata sia alla bam­bina, che aveva salvato dalla morte per fame, che a tutta la nostra famiglia, che le serbava grata riconoscenza. Dopo alcuni anni un'altra disgrazia per la donna: il marito dall'America non aveva più dato sue notizie né tan­to meno aveva mandato soldi per il sostentamento della moglie e della figlia maggiore; intanto nasceva un'altra bambina nella nostra già numerosa famiglia, il che fece riavvicinare Annitta a noi, ma questa volta come bàlia asciutta e come cameriera.

lo, cresciuto, ero in quella età in cui i sensi cominciano a farsi sentire prepotentemente e Annitta, che era un pò sfiorita e mortificata dalla sua ormai lunga vedovanza bianca era, però, ancora piacente e ai miei occhi di gio­vane assatanato appariva come un'ideale maestra di sesso.

Perciò cominciai a fare i miei progetti di conquista, che, però, come tutte le prime azioni e per giunta dettate dall'emo­zione della passione, risultarono maldestre.

Un giorno di ottobre eravamo 'o Rinazzu, una nostra piccola campagna dove eravamo andati con mia madre, Annitta e noi giovani per fare la mostarda: dolce di succo di fichidindia cotto con farina, che poi si versava in certe formelle di cera­mica raffiguranti pesci o altri animali, e, una volta rassodata, si faceva essiccare al sole. In inverno questo dolce povero ma caratteristico, costituiva la nostra abituale merenda.

Una volta raccolti i fichidindia e sbucciatili e messi a cuocere, c'era da andare a prendere l'acqua in un pozzo poco distante e mia madre pregò me di accompagnare Annitta per la bisogna.

Io ne fui felice, perché vedevo l'occasione buona per iniziare a realizzare il mio progetto di conquistatore, cominciando magari con l'ottenere un bacio che avrebbe aperto la porta per successive tappe che, mi illudevo, potessero e dovessero far piacere anche ad Annitta. Quindi arrivati al pozzo, mentre la donna immergeva il secchio per tirare su l'acqua, io cominciai a fare le mie avances più con le mani che con le parole, al che la reazione della donna fu inequivocabilmente negativa, anzi lasciava presagire una rimostranza con mia madre.

Subito non ci fu nessuna reazione, ma qualche giorno dopo, mentre uscivo, mia madre, cercando di tratte­nermi, mi apostrofò con un «Mastro Nicò!» molto significativo al quale io mi sottrassi dimostrando di avere capito l'ammonimento, ma senza però impegnarmi né con lei né tanto meno con me stesso.

Infatti, tempo dopo, facendo capire con occhiate e sorrisi ad Annetta che i miei sentimenti nei suoi confronti né tanto meno il mio desiderio di lei non erano affatto cambiati malgrado la sua dura repulsa e il significativo rim­brotto di mia madre, durante le vacanze estive che trascorrevamo in una nostra casetta alla Cisterna, sulla strada Bronte-Maletto, e lei dormiva su un materasso in sala da pranzo, io notte tempo, sfidando il pericolo di essere scoperto da mio padre e da tutta la famiglia, sgusciavo dal mio letto e, carponi, scivolavo in sala da pranzo e cercavo il corpo fragrante di Annitta, sperando che lei, per non fare almeno uno scandalo, si adat­tasse alle mie giovanili pretese, anche con suo piacere (pensavo io con una certa presunzione).

Ma lei, forse terrorizzata da una possibile gravidanza (questa era allora la vera remora ai rapporti pre ed extra matrimo­niali!) mi respinse per la seconda volta e a calci, per cui io dovetti battere in ritirata con le pive nel sacco!

Peccato! Perché Annitta avrebbe potuto essere una buona insegnante di sessuologia pratica e mi avrebbe risparmiato tanti solitari!


Jachinu e Ninu

A quei tempi, anni Trenta-Quaranta, l'omosessualità era considerato un vizio, di cui si parlava poco o niente e sempre a bassa voce, e che si contraeva nei collegi o nelle comunità di soli uomini o sole donne, di cui, poi, quando si poteva avere contatti con l'altro sesso, la maggior parte si riscattava, divenendo normale, cioè eterosessuale.

Tuttavia a Bronte c'era una coppia che era lo zimbello di noi giovani studenti, perché erano i sagrestani di due delle chiese del paese: la Matrice e la chiesa del Rosario.

Il primo, Jachinu, era il sagrestano del Rosario e apparteneva ad una buona famiglia. Egli era basso, segaligno e forte­mente miope e camminava con la testa piegata da un lato, il che lo faceva assomigliare a certe statue di santi di carta­pesta. Per la sua origine piccolo- borghese credo avesse frequentato il Seminarietto di Bronte che allevava i giovani che in seguito andavano al Seminario arcivescovile di Catania. Ma per le sue scarse qualità intellettuali non aveva potuto continuare gli studi e si era accontentato di fare il sagrestano, protetto da qualche prete amico di famiglia.

Il secondo, Ninu era il sagrestano in seconda della chiesa Madre e apparteneva ad una famiglia contadina. Egli era alto e allampanato, una faccia da ebete non cattivo, che era succube di Jachinu, al quale riconosceva la superiorità degli studi fatti, anche se interrotti per scarso rendimento.

Il duo, che poteva far ricordare personaggi donchisciotteschi, andavano spesso insieme e, formando il classico il, erano quel che oggi si direbbe una coppia gay alla quale, però, non si attribuiva potere di scandalo, perché suscitava in tutti quella compassione che si riserva ai mentecatti. Nelle cerimonie esterne, come processioni o accompagnamenti, andavano sempre insieme, e sempre oggetto di lazzi e allusioni da parte dei ragazzi che in essi trovavano un loro rozzo divertimento che spesso diventava sadismo.

Un giorno uno dei soliti maldicenti venne fuori con una notizia scoop: aveva trovato nella sagrestia del Rosario il corto che sodomizzava, con reciproco piacere, l'allampanato.
Come è naturale nei piccoli centri, la notizia bomba fece il giro di tutti i caffè e circoli, compreso il Casino dei Civili, dove c'erano gli esegeti di tutti gli avvenimenti cittadini, e arrivò anche alle orecchie dei preti dai quali i due amanti erano dipendenti e che si affrettarono a prendere i provvedimenti del caso: il primo dei quali consisteva nella più assoluta proibizione ai due di frequentarsi e tanto meno in chiesa.

Da allora essi divennero tristi e sconsolati e suscitarono compassione anche in chi, prima, li dileggiava e prendeva in giro, costretti a vedersi addirittura fuori dal paese, in campagna, dove c'era sempre qualche capanna che poteva accogliere e proteggere le loro effusioni amorose, semprecché qualche contadino, scandalizzato, non li allontanasse a legnate di cui il giorno dopo, durante le funzioni religiose, si vedevano gli effetti.

Tempi duri, quelli, per due poveri omosessuali che non solo non potevano chiedere di unirsi in matrimonio o ottenere una casa popolare, ma dovevano vergognarsi della condizione che avevano avuto da madre Natura, per essi matrigna... Oggi, invece, ne vanno addirittura orgogliosi, ma di che?


Graziano Moraci

Un uomo grande e grosso, quasi atletico, era il facchino del paese che lavorava da solo o in coppia con Peppino Nasca Storta il quale possedeva uno di quei carri bassi, lunghi e larghi, utili per il trasporto di qualsiasi masserizia o merce: il suo nome era Graziano ma per tutti don Graziano o solamente Graziano.

La sua aitante mole e i grossi muscoli, sempre in esercizio per il suo mestiere, avrebbero potuto trarre in inganno chiun­que, ma in effetti egli era un pusillanime, oggetto di continui scherzi da parte dei più impuniti burloni. Uno di questi raccontava che un giorno un ricco commerciante di legname e altro materiale per costru­zioni, soprannomi­nato Muscioru (termine di cui non conosco né significato né etimo), mandò a chiamare il Graziano per affidargli un lavoro di trasporto e consegna di certa merce e, mentre questi si era allontanato per eseguire il lavoro commessogli, il Muscioru andò a far visita alla moglie di lui della quale si era invaghito essendo sua vicina di casa.

Lo “storico” narratore continua dicendo che il Graziano, vuoi per una necessità impellente, vuoi per un certo tarlo di gelosia, rientrò inopinatamente a casa sua dove trovò la moglie e il suo datore di lavoro in una posa boccaccesca: al che, senza né urlare né minacciare e neppure menare le sue grosse e callose mani contro la moglie e il suo ospite, chiese semplicemente conto di quella presenza in casa sua e di quella posizione che non avrebbe dovuto avere bisogno di alcuna spiegazione, tanto era evidente e inequivocabile.

La moglie, conoscendo la virtù del marito, con la più candida sfrontatezza e appoggiata da don Ciccio (questo il nome di battesimo del Muscioru), rispose che questi era andato da lei solo per chiederle cortesemente di attaccargli un bottone ai pantaloni (allora non era stata ancora inventata la cerniera lampo, oggetto di tante altre storielle boccaccesche!)

Il Graziano, non sapendo reagire adeguatamente e, forse, per non farsi una sgradita pubblicità, accettò la scusa e tutto tornò tranquillo tra i nostri tre personaggi come in tutti i triangoli! Ma la cosa non restò segreta, come avrebbe dovuto essere, e, o per la vanteria del don Ciccio o per l'abuso che ne fece la moglie, si diffuse ad opera di quella agenzia forbici che serviva a divulgare tutte le notizie del paese, ma specialmente quelle che mettevano alla berlina i più indifesi malcapitati.

Ma il bello fu che Filippo Scagghitta, gran burlone e maggiore maldicente del paese, riuscì a fare raccontare il fatto pro­prio al nostro doppiamente burlato in un caffè e in presenza di gran pubblico che, poi, lo avrebbe divulgato con tutte le varianti che in questi casi vengono apportate da ciascun testimone-tramandatore.

Il Graziano raccontò con il grande candore dei vigliacchi l'episodio con l'intento di convincere il suo uditorio della rispet­tabilità di don Ciccio Muscioru e della illibata fedeltà della moglie.

Lascio alla immaginazione del mio lettore (se mai ce ne sarà uno) la reazione di quel pubblico che si dette ad ogni tipo di lazzi e commenti e che confermò la figura del cornuto contento che esiste da quando esiste l'uomo e la sua fedele metà, sempre riconoscente a lui per la costola che obtorto collo egli donò per fare creare lei. Come si vede la donazione di organi è nata con l'uomo il quale, però, non ne ha tratto grandi benefici né materiali né morali.


I Paratore


(1) Maria è morta nel Dicembre del 1984 a Ro­ma, lasciandoci un caro ricordo nei figli Nunzio e Lydia Azzia.








Dolci tipici brontesi
La mostarda, tradi­zio­nale dolce natalizio rica­vato (come il "vino cotto" o i "mastazzòri") dal gu­stoso ficodindia delle scia­re brontesi, che recentemente ha avuto il riconoscimento “dop” del­l'Unione europea.

Di fronte alla casa di mio nonno paterno, ubicata quasi all'inizio dell'abitato, sulla via principale che era la strada provinciale che collegava Adrano a Randazzo, attraversando Bronte e sfiorando Maletto, c'è ancora un bel palazzotto a un piano che apparteneva alla famiglia Ciraldo il cui capo, ai tempi della mia fanciullezza, era il fratello maggiore, prete, soprannominato, chissà perché, Patri Mangiammedda, e da alcune sorelle, di cui una monaca di casa, indicate come le Signorine.

Prima di questo palazzo, ma da esso distaccato, c'era un fabbricato, con cortile antistante, detto il quartiere, perché una volta, prima che io ne avessi memoria, era la sede di un distaccamento militare e, poi, adibito a pastificio, gestito da un forestiero di nome Valenza che aveva due belle figlie, oggetto delle brame dei giovani del luogo e prese di mira anche con la parodia della canzoncina ironico-satirica Valencia, ma non offensiva.

Il piano terreno del suddetto palazzo Ciraldo era diviso da un bel portone che dava in un vasto androne dal quale si innalzava lo scalone che portava al primo e unico piano. A destra e a sinistra del portone c'erano locali adibiti a soggior­no, uffici e altro, a disposizione della famiglia, mentre agli estremi laterali c'erano due apparta­menti affittati uno alla famiglia Botta, commercianti di tessuti, e l'altro alla famiglia del guardaboschi Paratore.(2)

I due appartamenti si estendevano dalla via principale alla parallela, ma sottostante, via Giotto, la quale, essen­do molto più bassa della prima dava accesso alle stalle e ai depositi del palazzo.

La famiglia del guardaboschi era formata da cinque persone: il padre era impiegato alla forestale ed aveva tutte le caratteristiche tipiche di questo mestiere: alto, robusto e marziale, ma con una faccia rassegnata, dominata da un grosso naso gufesco, sovrastante lunghi baffi spioventi e illuminata da occhi sbiaditi e spenti; la madre, donna ancora giovanile e piacente, dai modi molto liberali, almeno per quei tempi, come quasi tutte le donne di una volta, era casalinga, ma non troppo; tre figli: due femmine e un maschio, come tale principale erede e, quindi, vezzeg­giato e viziato.

Le due figlie seguivano l'esempio della mamma e, siccome erano belline, facevano le pupattole in cerca di aggan­ciare il buon partito. Mentre il cocco di mamma faceva sport, giocando al pallone, e andava a scuola, ma senza sprecare molte energie nello studio e, quindi, non progredendo nella carriera scolastica.

Siccome il padre, a causa del suo lavoro, partiva la mattina all'alba e tornava a tarda sera, quando non per­nottava addi­rittura in montagna nelle capanne della forestale, i rimanenti quattro facevano una vita libera, perché priva della neces­saria ferma guida paterna che si affievoliva sempre più man mano che i figli cresce­vano e la moglie si stancava di quel marito, spesso assente fisicamente, ma sempre privo della necessaria autorità di capo famiglia.

Quella era, perciò, una famiglia quasi allo sbando, di cui si mormorava molto in paese con storielle delle quali veniva rego­larmente informato dai soliti amici anche il guardaboschi che, a poco a poco, si era talmente abituato che ne era diven­tato indifferente.

Un giorno, tornando mio fratello maggiore ed io da Giarre con la Circumetnea, trenino che da Catania porta a Giarre toccando tutti i grossi centri intorno all'Etna, a Fiumefreddo vediamo salire il guardaboschi il quale si avvi­cina a noi, ci saluta e si siede di fronte. Mio fratello Nino, che era un tipo di spirito un poco pungente, ai necessari convenevoli, con malizia, aggiunse questa frase: «La trovo veramente bene! E’ come un toro!».

Al che il guardaboschi, senza scomporsi e come se non parlasse di sé stesso, ma di altri, risponde: «Sì, sto bene, grazie; non come un toro, ma come un porco; perché toro, o meglio bue, lo sono stato sempre!».

A questa risposta molto più feroce, contro sé stesso, della frase di mio fratello che voleva essere solo un tantino ironica, noi restammo interdetti, ed io anche mortificato, di fronte ad un uomo anziano il quale con due giovani ammetteva la sua condizione di uomo sconfitto, succubo della famiglia sulla quale non aveva più alcuna autorità e per la quale era diven­tato anche lo zimbello dei soliti cattivi maldicenti del paese.





Il Centro storico di Bronte





(2) Nessuna parentela con Ettore Paratore mio pro­fessore di Latino al­l’Uni­versità di Catania negli anni ‘39/’42.





 

Piccolo vocabolario brontese di N. Lupo
Parliamo brontese





 


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