Ma questa attività lavorativa, messa in pratica con i mezzi moderni industriali e commerciali adeguati, affonda le sue radici in una tradizione secolare precedente, che cercherò di descrivere sull’onda della memoria e dei ricordi, che dovrebbero trovare dei documenti nel Museo Lombardo. Negli anni 1920/30, nelle belle giornate, si vedevano lungo le vie del paese le donne anziane e non, sedute davanti alle porte delle loro modeste abitazioni a pianterreno, intente a filare lana o cotone, chiacchierando nel contempo, con le vicine o dirimpettaie. Tenevano una massa di lana o cotone sulla “rocca o conocchia”(11) e, filandolo con mani esperte e veloci, quanto consentiva l’apertura delle loro braccia, col “fuso”(12) lo torcevano, successivamente, imprimendogli un moto rotatorio; il filato, quindi, veniva raccolto nell’”arcolaio.”(13) Mentre le comari lavoravano chiacchierando, all’interno della casa spesso si sentiva il rumore del “telaio a mano”(14) a cui di solito lavoravano le più giovani, perché comportava maggiore destrezza e forza. Con questa attrezzatura e con grande professionalità, anche se ancora rusticana, si producevano tessuti di vario tipo, come tela per biancheria, coperte per vari usi, fra le quali ricordo una, tessuta con filati di varii colori, che mi fanno pensare ai tessuti di Missoni(15), e la stoffa speciale di peli di capra, per confezionare le “capucce“(16) che ricordavano l’“orbace”(17) delle divise fasciste. Questa attività manifatturiera era praticata certamente in tutto il paese, che allora era compreso fra questi quattro punti: “‘a santa cruci” o “sciarandru“, S. Vito, la chiesa dell’Annunziata e “‘a barrera” o l’incrocio tra la strada che dalla stazione va a Maletto e quella che dal paese sale verso lo stesso, tranne che lungo “‘a chiazza” che andava dalla chiesa dei Cappuccini alla casa di “gabburazza”, cioè poco dopo l’incrocio con via Santi, mentre adesso, come vedo continuamente dalla foto di “Bronte e l’Etna di giorno”, che ho trasferito sul monito del mio computer, si estende oltre S. Vito per tutta la collina, sparsa di case moderne, e dalla mappa dello stradario 1996, che mi dice che si è estesa sia verso Maletto, che verso Cesarò, nonché verso la Masseria Lombardo. Ma la “zona industriale”, secondo me, era ‘ndo cuttigghiu, di fronte al pozzo di San Bastianu, ora piazza Leone XIII: in quel cortile, con unica via di accesso, a pianta circolare, vi erano tante case, senza finestre sul retro, come usava nelle antiche case romane, per ragioni di sicurezza, tutte uguali, come quelle odierne che si chiamano a schiera, nelle quali c’erano tante filande e tanti telai che lavoravano continuamente per uso locale, ma anche per la vendita ai forestieri che venivano dai paesi vicini per la fiera del bestiame che si svolgeva in contrada “cazzirabò“. Quelle case-laboratorio erano costituite da un sottano che fungeva da deposito, da stalla e da pollaio, ma anche da gabinetto; una scaletta esterna con relativo ballatoio, portava in alcune stanze, forse due o tre, nella prima delle quali c’era il telaio, mentre la filatura si effettuava possibilmente sul ballatoio, da dove si vedevano le altre “cummari” (perché spesso si tenevano a battesimo i figli delle vicine) con cui si parlava sempre del più e del meno, ma sempre della famiglia, del lavoro e della salute, nonché del tempo che, spesso condizionava la vita e l’economia della comunità. La stanza più importante era la cucina, grande e munita di focolare, il moderno caminetto, che fungeva anche da sala da pranzo e soggiorno: in inverno il focolare era sempre acceso, perché fungeva da riscaldamento, e vi era sopra un paiolo con acqua che poteva servire a tanti usi, ma in particolare per fare “i frascaturi“; questa polenta, a Bronte, era fatta anche di ceci e “chiècchiru” o cicerchia che dava, quest’ultima, un odore poco gradevole a questo piatto. Il quale,di solito, era condito con olio di oliva, versato, con molta parsimonia, “ca stagnata“, un utensile da cucina di latta con un’imboccatura per versarvi l’olio e un beccuccio, molto stretto in punta, per spanderlo sui cibi. La polenta certe volte veniva condita anche con sugo di “srattu“, conserva di pomodoro fatta in casa nella stagione di produzione, e “spuntaturi“, costolette di castrato o di maiale. Quando ne rimanevano si friggevano la sera o la mattina dopo, ed erano la delizia dei ragazzi perché interrompevano la solita cena a base di “minestra”, cioè verdura, che, quando era varia e selvatica, veniva chiamata “minesra maritata”; o variava la colazione a base di latte. Per chiudere la breve descrizione della “industria tessile” primitiva a Bronte devo aggiungere che non solo essa costituisce la radice dell’industria moderna ma è, nello stesso tempo, la riprova della laboriosità delle nostre genti, alle quali va il nostro pensiero grato e beneaugurale per un futuro sempre migliore nella tranquillità di una pace, purtroppo precaria, che dobbiamo sostenere con la nostra fede nella democrazia solidale e condivisa. Bari, 26 dicembre 2004 Nicola Lupo |