Il Venerdì Santo (1887) Il Cristo alla colonna di Giuseppe Cimbali Il cielo è tristo, l'anima è trista, tutto è tristo come la giornata più tragica della settimana santa. Le campane legate tacciono: Bronte sembra affogato in un mare di silenzio. Siamo al venerdì, il venerdì del crucifige e della morte di chi venne a riscattare col proprio sangue, il genere umano, fin allora soggetto alla schiavitù del demonio. Tutto il paese, la mattina, s'è riversato nella chiesa madre. La folla immensa, schiacciantesi, opprimentesi, piange, singhiozza, freme, delira secondo i vari atteggiamenti immani del predicatore, che, col crocifisso schiodato, dinoccolato nelle braccia, arrivando al punto più culminante e più meraviglioso del quaresimale, racconta in sette parti, furibondo, fuori di sè, esasperatamente, come iena ferita, la passione di Nostro Signore. Ora, però, nelle ultime ore del giorno, centro d'affluenza è la chiesa dell'Annunziata, da dove, tra breve, uscirà in processione il Cristo alla Colonna. Lunga, interminabile la processione. Mai nelle altre feste solenni, tutte le altre confraternite accorrono così numerose, così compatte, con tanta devozione e compunzione. E pure non sfoggiano le loro mute fastose, una vera orgia di colori; non sfoggiano le belle mantiglie, i belli stendardi dorati; i grossi ceri intorno a cui, come intorno al tirso leggendario, s'inerpicano mazzi odoranti di rose, garofani e viole. Vestono, invece, come vestono tutti i giorni, in segno di lutto: cogli abiti d'albaggio o di velluto, secondo i ceti; con una corona di spine… incruenta sul capo; in mano portano una disciplina leggera d'acciaio, colla quale si percotono le spalle. Anticamente moltissimi, con pezzetti di vetro rotto e tagliente, si dilaceravano a sangue il petto scoperto. Cosi anche i preti, senza pompeggiarsi nei loro paramenti lussureggianti, nelle loro cotte ricamate, nelle loro stole ricchissime. Questa volta vanno nel loro nero e severo abito talare, semplicemente. I giovanetti delle scuole, sloggianti le ultime glorie delle divise, de' cheppì, delle sciarpe e delle sciabole della guardia nazionale, aprono il corteo preceduti dal rullo continuo, insistente, urtante, de' tamburi: rappresentano, poveri innocenti, i giudei tiranni ed assassini. Lungo il corteo, di tanto in tanto e nell'intervallo di due confraternite, appare un mistero in perfetto costume orientale. Prima Gesù incatenato e languente in mezzo ad una quantità di giudei, davvero giudei perchè rappresentati dalle facce più patibolari e vestiti di rosso scarlatto. Più in là, un altro Gesù ricurvo sotto il peso della grande croce, che sale il Calvario: il Cireneo, pietoso, lo aiuta a portarla per la punta di dietro. Più in là ancora l'Ecce Homo, rappresentato da un ragazzone magrissimo, nudo, soltanto coperte le parti pudende da una striscia di tela rossa, a piè scalzi, qua e là macchiettato di carminio nelle carni vive - le ferite sanguinolenti - con la famosa canna stretta tra le braccia e il petto. In vari punti per l'aria greve risuona il mestissimo Stabat, cantato dalle voci delle confraternite e del clero. Meglio di tutti cantano i villani. Che slancio! Che strazio! Ch'e vellutamento! Che sentire profondo! Da lontano, intanto, s'ode qualche squillo della marcia funebre, sonata dalla banda pur essa senza divisa, in segno di lutto. Il santo Cristo si avvicina. Un sommesso bisbiglio s'alza dalla folla stipata lungo le strade, nelle piazze, nelle finestre, nei balconi, nei ballatoi: tutti, come elettrizzati, si rivoltano in fondo, ansiosamente. Le donne, in particolare, si commuovono o fingono di commuoversi fino alle lacrime: qualche vecchio o qualche vecchia piange davvero. - Viva la misericordia di Dio! Vivaaaa… Ancora da lontano comincia a distinguersi la bara slanciata sur una massa di teste ondeggianti: di quelli che la portano sulle spalle appajono solo le teste dimenantisi e consperse di sudore. Qualcuno distingue il Cristo alla Colonna sotto l'ampio padiglione di legno dipinto e sostenuto da quattro assi a spirale, ai quali stanno attaccate e pendono, gloriose primizie, le prime spighe di grano e le prime corna di fave verdi: ringraziamento cotesto per le beneficenze usate da Dio sino allora alle messi, e preghiera e voto insieme di usarne maggiori fino ai raccolto. - Viva la misericordia di Dio! Vivaaaa… Quando il Cristo alla Colonna s'è avvicinato quelli che piangevano davvero piangono di più, e quelli che piangevano per burla piangono davvero. - Nostro Signore s'è ridotto a quello stato per noi, per noi miseri mortali è peccatori! Dateci almeno la grazia di piangervi, o Signore Iddio. E piangono e gli mandano baci devoti colle mani e colle mani agitano i fazzoletti bianchi in atto di volergli toccare e sanare le carni illividite. Un'onda accalcata di popolo, dopo la magistratura in coda di rondine, segue ansimante la bara. Il Cristo alla colonna è miracoloso. Lo scolpì un pastore ignorante su un vecchio tronco di quercia schiantato dal fulmine. Non tornii egli usò, non pialle, nè scalpelli, nè lime. Usò solamente la piccola accetta, che portava sempre appesa alla cintura, e il coltello con cui tagliava quotidianamente il suo pane nero e durissimo. Bella la Pasqua gioconda della Risurrezione, quando si passa in seno alla famiglia, col padre colla madre, colla moglie, co' fratelli. colle sorelle, coi figli. Brutto segno quando necessità vuole che si passi lontano: qualche disgrazia piomberà sulla casa propria; o per lo meno, per quell'anno, questo dolore indimenticabile disabbellisce, al solo pensarci, qualunque gioia. Quell'anno - un duecento anni fa – toccò fra gli altri, a quel pastore il non muoversi nelle feste di Pasqua dalla foresta. Il padrone fu inesorabile. Del resto potevano lasciarsi soli a pascere gli armenti? […] [Da “Terra di Fuoco – Leggende siciliane”, di Giuseppe Cimbali, Euseo Molino Editore, Roma 1887] La Processione del Venerdì Santo, Le foto di Rosalba Proto & Dario Audisio, | Le fave nel Venerdì Santo a Bronte L'uso di piante come addobbo è frequente nelle feste popolari religiose. Esse possiedono, in modo più o meno occulto, un carattere simbolico. Nella cittadina di Bronte, il giorno del Venerdì Santo, alcuni fercoli, che sono portati in processione, sono sfarzosamente parati con grappoli di baccelli di fave. In questo lavoro si esplicita la simbologia di questo paramento. In Sicilia, ogni città, paese, borgo o quartiere sente la necessità di partecipare alle festività pasquali con riti derivati da usi e costumi locali. Cerimonie queste che discendono da antichissime tradizioni di cui non sempre è possibile risalire all'aspetto originario ed alle motivazioni profonde che le hanno generate. In particolare è la Settimana Santa che viene espressa dai fedeli secondo un comune copione: la rappresentazione del Calvario di Cristo. A questo momento liturgico, che viene manifestato con processioni e rituali mesti, segue la Resurrezione, che segna il momento della gioia e della festa vera e propria. Come è noto, tutti i rituali della Pasqua giudaico cristiana, richiamano una ritualità simbolica precristiana dove la parola pasqua, dall'ebraico pesah = passaggio, è sintesi di rinnovamento; di transito di una fase di morte della natura (l'inverno) ad una fase di vita e di risveglio (la primavera). In altri termini si ha la sovrapposizione di certi rituali religiosi con le celebrazioni laiche legate al risveglio della natura, a cui gli uomini desiderano parteciparvi coralmente perché avvertono la sacralità del momento, in quanto ciclico e rituale, che scandisce il ritmo vita/morte/vita. Nella cittadina di Bronte la rappresentazione del Calvario, il giorno del Venerdì Santo, viene celebrata con una processione che, per certi aspetti, si rifà a modelli presenti in numerose realtà siciliane (ad esempio: Caltanissetta, Trapani, Aidone, Pietraperzia, eccetera), cioè una serie di fercoli (vare) che sorreggono statue lignee, effigianti sacri personaggi oppure scene del Calvario; mentre per un altro aspetto mostra un particolare significante pressoché unico. Le vare, portate a spalla dai fedeli, che sfilano durante la processione del Venerdì Santo, sono quattro e raffigurano: Cristo morto, Cristo flagellato, il S.S. Crocifisso e l'Addolorata; ad esse si aggiungono dei figuranti che rappresentano soldati romani, giudei e Cristo carico della croce. Tutte le vare sono adornate con ricchi addobbi fiorali, ma due di essi - il Cristo flagellato e il S.S. Crocifisso - recano, accanto agli infioramenti, traboccanti grappoli di baccelli freschi (faviane) di Fava(1). Analoghi ciuffi di questo prodotto vegetale perdono dai bracci della croce portata a spalla da un figurante. Chi assiste per la prima volta a tale rito si meraviglia della presenza di siffatti dimessi ortaggi posti accanto ad una raffinata ornamentazione fiorale. A ciò si aggiunge uno strano particolare; nel periodo della festa mobile anzidetta (che cade fra marzo ed aprile), le fave nel Brontese non sono, in genere, in fruttificazione; infatti, essendo il territorio posto intorno agli 800 metri di altitudine, la invaiatura si ha a metà maggio. In conseguenza di tale carenza, i baccelli delle fave devono essere reperiti in un luogo più a valle; questo luogo è la Piana di Catania. Stando le cose nei modi sopraccennati - disarmonia estetica fra ricca infiorata e poveri baccelli, non che reperimento degli orpelli vegetali in un territorio lontano - i grappoli di faviane devono possedere uno o più significati simbolici(2). E così è. Innanzi tutto esse costituiscono un omaggio alla divinità con fine propiziatorio. Nel Brontese le coltivazioni di leguminose (fave, piselli, ceci, lenticchie), hanno avuto un peso economico importante, almeno fino ad un'epoca recente. Secondariamente occorre precisare perché, all'interno dell'anzidetto omaggio, siano proprio le fave a svolgere tale ruolo. Il fatto è da attribuire soltanto ad una questione volumetrica; il loro baccello è il più grande, perciò più appariscente, fra quelli degli altri ortaggi consimili. Infine occorre chiarire la scelta della Piana di Catania come luogo di reperimento dell'ortaggio. Essa discende da motivazioni antiche, legate alla vita dei pastori che nel Brontese hanno avuto ed ancor hanno larga presenza. Dalla Piana, proprio nel periodo pasquale, essi ritornavano ai pascoli montani dopo aver concluso la transumanza e, nella occasione, portavano alla divinità il dono di una primizia costituita dalle faviane. A margine di questa usanza religiosa vi è un' altra appendice devozionale. Alla fine della processione i portatori delle vare manifestano l'antichissima credenza magico religiosa della legge del contatto; secondo la quale ciò che è stato vicino al divino diventa elemento di protezione contro ogni avversità e apportatore di benessere spirituale e materiale. Essi allora si accapigliano per impossessarsi del baccelli che sono stati appesi alle vare e li consumano sul posto. Salvatore Arcidiacono Docente di Scienze Naturali (Per gentile concessione dell'Autore) Note
(1) La Fava (Vicia faba) è una pianta soggetta a coltura da millenni, la sua presenza in una trattazione etnobotanica sarebbe fuori luogo; qui la citiamo in quanto considerata per un impiego ben lungi da quello agricolo. (2) Una festa religiosa in cui compaiono le fave che adornano un sacro simulacro si ha a Modica per la festività di San Giorgio; in quella occasione la statua del santo viene adornata di doni e di piante di fave. |
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La Pasqua Tradizioni - Pennellate di memoria di Nicola Lupo Quest’anno la Pasqua[1] viene “bassa”, come si dice, e precisamente il 27 Marzo, quindi nello stesso mese in cui si festeggia S. Giuseppe e, quindi, si fanno “i vigginelli”, ma di questa usanza c’è già un articolo in questo stesso sito, perciò mi esimo dal ripetere il già detto, ma a questo proposito voglio ricordare un episodio poco edificante, in verità, ma in linea con le normali debolezze umane, che potrei definire “pennellata di memoria“. Nel periodo in cui mio padre era segretario della Confraternita di Maria SS. della Misericordia, in base alle finalità della confraternita che comprendevano opere caritative, fu deliberato di fare, in concomitanza della festa di S. Giuseppe, come di consuetudine, i tradizionali “vigginelli” e, quindi, dal Comitato organizzativo, presieduto dall’assistente ecclesiastico, che allora era Padre Rubino, fu dato incarico a mio padre di organizzare il tutto: reperire i soldi necessari e, in base alla somma raccolta, fare l’elenco degli invitati e del menu, che era standardizzato dalla tradizione: pasta (meglio se “tagghiarini”) e ceci, baccalà fritto, una “minnitta”, una arancia e un bicchiere di vino, e naturalmente acqua; il tutto servito a tavola da alcuni confratelli volontari, in un locale scelto a seconda del numero degli ospiti. Quando tutto era stato definito e si era alla vigilia della festa, dall’Amministrazione della Ducea Nelson, arrivò in ritardo un’offerta ad hoc di cento lire; e a questo punto avvenne l’episodio che sto per riferire: il Padre Rubino subito avanzò la proposta che detta somma, dato che tutto era stato definito e la relativa spesa coperta, venisse devoluta alla Chiesa. Mio padre, naturalmente, fece osservare che quei soldi erano stati offerti per i poveri e, pertanto, propose che si offrisse loro anche il dolce. Il sacerdote, fermo nella sua richiesta, obiettò che non era il caso perché “i poveri non erano abituati al dolce”; il Comitato scandalizzato dal ragionamento del p. Rubino, votò unanime la proposta di mio padre e, quindi, quell’anno i poveri di Bronte fecero il primo peccato di gola! Ma, come ho detto sopra, vi ho raccontato questo fatto non per scandalizzarvi, ma per dimostrarvi che certe debolezze umane si riscontrano in qualsiasi ceto sociale. Ed ora, con la buona pace di tutti, passiamo alle tradizioni pasquali. La Pasqua è la festa della resurrezione, quindi della gioia, e questa si manifestava nella primavera incipiente, nel risveglio della natura, nei primi nuovi frutti della terra, e si vedeva anche negli addobbi che si mettevano sui quarti di vitello e degli agnelli appesi ai ganci delle macellerie fuori delle porte: bandierine, fiori e piselli o fave, infilzati nelle carni fresche delle bestie pronte per essere, non sacrificate agli dei antichi, ma cucinate nelle case della gente, anche la più umile, e coccarde tricolori appese al collo degli agnelli e dei capretti. Ed io ricordo le quattro macellerie concentrate al centro, come le farmacie,: quella di Meli (u guaddarrutàru) all’angolo di via prof. Placido De Luca, quella di Nicola “pinnicuni” un pò più giù, di fronte alla chiesa del Sacro Cuore, quella dell’altro Meli, Pasqualino, sotto le Logge, e infine, all’altezza di piazza del Rosario, quella d’ “u pillaru” (Gangi), che gareggiavano a chi faceva la più bella mostra delle proprie carni. E questa era la prima festa degli occhi! Per quanto riguarda la festa religiosa, raccontata egregiamente in altra parte di questo sito, voglio aggiungere un particolare: per i sepolcri la gente più umile di campagna, un mese prima della Pasqua seminava in piccoli vasi, che spesso erano i grandi piatti di terraglia in cui le famiglie mangiavano, il frumento, ma lo faceva germogliare e crescere non alla luce dove, per il processo della fotosintesi clorofilliana, sarebbe diventato verde, ma nel buio di una cassapanca, dove cresceva giallo; e questo (il buio) per simboleggiare la morte e poi la resurrezione; ma di questo simbolismo le povere donne di allora non sapevano nulla, ma eseguivano quello che avevano visto fare ai loro antenati e in cui credevano ciecamente. Tutto quel giallo ai piedi dell’altare in cui era custodita l’ostia del giovedì Santo, giorno dell’istituzione dell’Eucaristia, in me ragazzo, suscitava non solo sentimenti di pietà per la morte di Gesù Cristo, ma anticipava anche la speranza della Sua resurrezione. Infatti nelle processioni dei Santi del Venerdì tutte le statue, che erano dolorose, erano adornate dai primi frutti della terra, come ad esempio, fave e piselli freschi che, se non erano ancora delle nostre campagne, erano state portate dalle “marine”, quelle masserie che alcuni brontesi avevano nella piana di Catania, o dove molti “junnatari” andavano a lavorare perché in paese non c’era ancora occupazione, e ciò per propiziare o ringraziare la Divina Provvidenza per quei frutti che ricompensavano il loro lavoro. Anche nella settimana di Pasqua c’era una sacra rappresentazione itinerante che adesso si è ridotta alla processione dei Sacri Misteri; allora, invece, le statue erano sostituite da persone che, abbigliate adeguatamente, rappresentavano Gesù e gli altri personaggi. Ricordo che, forse l’ultimo anno di quella sacra rappresentazione, avvenne un piccolo incidente: l’uomo che doveva rappresentare l’Ecce Homo, dato il freddo che faceva quel Venerdì Santo, non voleva spogliarsi, ma uno degli organizzatori gli intimò: - “I soddi t’i pigghiasti, ora’nbozza e fa’ u Cristu”; al che il poveraccio non potè fare altro che correre il rischio di prendersi una bronco-polmonite. Un’altra consuetudine era quella del sabato Santo, quando suonavano le campane di tutte le chiese di Bronte per annunziare la Resurrezione: tutte le mamme di qualunque ceto sociale, sospendevano quello che stavano facendo in quel momento (e c’era tanto da fare in quei giorni di festa) e, presi uno alla volta i propri figli, a cominciare dal più grande, e sollevandolo verso il cielo, gridavano, ripetutamente, di gioia: “Crisci e nubbirisci!” e li baciavano sulla bocca[2], ed era una commozione ed un augurio generale. Spesso, quanto detto sopra, avveniva mentre la mamma, aiutata da qualche amica vicina, stava facendo le “cullure“ che consistevano in un impasto di farina, acqua e sale (senza lievito, perché dovevano ricordare il pane azzimo dell’antica tradizione ebraica, passata poi in quella cristiana dell’ostia ), modellata in diverse forme, per esempio di cestino, sul quale si inserivano delle uova che si cocevano al forno insieme all’impasto. La “cullura” si mangiava o come antipasto assieme alla “supprissata “, che per lo più veniva confezionata in casa quando si uccideva il maiale, o si comprava in macelleria e in salumeria; oppure si mangiava il lunedì dell’Angelo o “pasquetta“ durante la scampagnata che si faceva in campagna, “o rinazzzu”, dove si arrostiva su una tegola arroventata l’agnello o la salsiccia. A Bari ho trovato qualcosa di simile alla nostra “cullura”, chiamata “scarcella” ma dolce e ornata con confettini multicolore. Il giorno di Pasqua si mangiava dal nonno col tradizionale menu di “maccarruni” col sugo di “spuntature” di maiale e agnello a forno con patate e i classici cannoli di zio Nunzio Isola, il tutto innaffiato col buon vino della “Serra-Gullìa”. Prima di iniziare il pranzo si facevano gli auguri al nonno col tradizionale “baciamano” e si otteneva “‘a fera”, cioè il regalo, in soldi, che si faceva alle feste[3]. Altra tradizione familiare era quella di fare il Precetto Pasquale tutti insieme la domenica in Albis alla Chiesa Matrice che era la nostra Parrocchia, anche se nostro padre l’aveva fatto con la confraternita, mia madre con le parenti e noi ragazzi con la scuola. Bari, 5 marzo 2005 Nicola Lupo NOTE
[1] Termine che dall’ebraico “pesah” è passato al greco “pasca” e da questo al latino “pascha”, dal quale è giunto a noi; per gli Ebrei ricorda la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, per i Cristiani, invece, commemora la resurrezione di Cristo. Essa si celebra nella domenica successiva al plenilunio di marzo, quindi non è a data fissa. [2] A proposito di baci sulla bocca, almeno nell’ambito familiare, questa consuetudine, che secondo me deriva dai Musulmani venuti nel territorio di Bronte con il protospatario Maniace nel 1042, nella mia famiglia cessò nel 1936 quando mio fratello Nino, tornato da Venezia, dove studiava Economia e Commercio a Ca’ Foscari, ci disse che non dovevamo baciarci più sulla bocca, ma sulle guance, come facevano al Nord. [3] Secondo me questo termine “fera“ per indicare il regalo che si faceva in occasione di festività, deriva proprio dal latino “feriae“ che vuol dire festa |
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