“Un paese del Sud – realtà e fantasia” di
Pino Firrarello, è stato
ripubblicato e distribuito gratis certamente in vista delle prossime, anche se
non tanto, elezioni, come giustamente ipotizza qualcuno; ma a prescindere da
questo fine non dichiarato, ma legittimo, un uomo politico dalla ormai lunga
carriera, avrebbe potuto e dovuto scrivere qualcosa di più e di meglio per
rendere conto, ai suoi elettori in continua crescita, e a chi vorrebbe
conquistare alle sue idee, di quanto ha realizzato per la comunità in campo
sociale. Ma venendo al libretto in sé, di cui si prevede la ristampa fino al
2008, e se dobbiamo condividere la realistica ipotesi dell’autore della
Premessa, G. Giarrizzo, secondo la quale “il testo, pubblicato negli
anni ’80, sia stato redatto negli anni ’60 […] e che le interpolazioni, se tali
sono, appartengono invece agli anni ’80, una volta che Firrarello scelse di
pubblicare lo scritto”, si potrebbe dire che l’autore avrebbe fatto meglio
se, utilizzando tutti gli elementi oggettivi, frammisti alle “fantasie”
che cita nel sottotitolo, avesse riscritto il tutto di sana pianta, adattandolo
alla realtà degli anni ’80 e aggiornandolo oggi a quella attuale, alla luce
delle molteplici esperienze politiche che ha fatto in un quarto di secolo. Il testo è suddiviso in otto capitoletti, seguiti da Colloqui d’emigranti, che
dovrebbe essere la parte riferentesi alla “fantasia”, del sottotitolo.
Il primo capitoletto, Il paese, vorrebbe gettare le basi storiche dello
stesso, che ha origini recenti ed è praticamente “la corte” che si
sviluppa attorno al castello del feudo del marchese Trigona: quindi, a fine
‘700, siamo ancora in pieno medioevo! |
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Un paese del Sud è stato
presentato a Bronte il 30 Dicembre 2004 |
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Interessante il secondo, Il cittadino, dove parla anche di “quella
mafia rurale, ignorante, impenetrabile” […], che, dice bene il Firrarello,
veniva da fuori; esattamente dalle province occidentali della Sicilia, tanto che
io ricordo che la nostra provincia di Catania veniva definita “‘a provincia
babba”, nel senso di babbea in quanto incapace a imporsi con la forza e con
la prepotenza.
Ora, grazie a Dio!, la mafia si è civilizzata e specializzata:
non è più quella “di campagna” che era nata per coprire la mancanza di
Stato, ma quella di città e delle metropoli, e si è infiltrata in tutte le
attività umane, dalla politica ai lavori pubblici, dalla finanza allo spaccio di
droga, dalla prostituzione al commercio dei bambini, come possiamo constatare
ogni giorno dalla lettura dei giornali e dalle cronache giudiziarie.
Il terzo capitolo, La scuola, dice praticamente che essa non esisteva
tanto che all’inizio dell’ ‘800, sapevano leggere e scrivere solo sei cittadini
su 900 abitanti, che costituivano la classe intellettuale a cui doveva
rivolgersi il popolino analfabeta. In seguito fu mandato un maestro che ebbe il
compito di istituire solo una prima per insegnare a leggere e scrivere perché “bastava
che riuscisse ad apporre la firma sulle cambiali, ritenute già lo strumento
necessario del futuro.”
“La medicina ufficiale non ebbe per molto tempo diritto di cittadinanza a
S. Cono” e questo incipit al quarto capitolo, titolato appunto La
medicina, riassume quanto verrà esposto in seguito a proposito della salute
o meglio delle varie e infettive malattie che venivano curate empiricamente o
con la preghiera. “Nessuno aveva notizia di medici e medicine […] Intorno
agli anni trenta (di quale secolo il Firrarello non lo dice, ma si presume
che sia il ‘900 ) arrivò a S. Cono un medico…” del quale “le persone
diffidavano…” ma che col tempo “riuscì a penetrare profondamente
nell’animo popolare e somministrare i primi farmaci prodotti dall’industria
chimica. Tra questi, uno dei primi e certamente il più famoso fu il chinino,
rimedio efficacissimo contro la malaria.”
La donna, argomento del 5° capitolo, racconta che all’epoca per essere
rispettata “doveva essere madre: la donna senza figli equivaleva ad un albero
senza frutto.” Il matrimonio “significava famiglia e rispetto sociale […]
il resto era sacrificio.” La gravidanza ed il parto erano gestite da “altre
donne abili per esperienza propria”, onde nacque il termine mammana.
“Al medico fu precluso di occuparsi delle gestanti.”
La donna doveva
essere sottomessa e rispettosa, doveva considerare le fatiche piacevoli, non
doveva avere conoscenze e seguire le massime: “sbagliando si impara e
la vita è maestra.” Vigevano i più assurdi principi morali secondo i quali
l’onore di una famiglia e in primis del suo capo, era “profondamente nascosto
sotto la gonna della figlia” e da questo principio scaturiva il cosiddetto
delitto d’onore, (ora cancellato dal codice!) “con morte finale e poca
condanna”.
L’autore riferisce diversi casi e infine parla della prima
studentessa, una certa Rosaria, la quale dopo le elementari, riesce ad ottenere
dal testardo padre il permesso di continuare gli studi. Manca, però, l’
indicazione del fatidico anno scolastico.
Il 6° capitolo parla de I pettegolezzi che si svolgevano nella
“bottega del fabbro ferraio Don Tano…che ferrava i cavalli e aggiustava
gli arnesi, …ma sostituiva anche il veterinario.” I temi dei
pettegolezzi erano le donne, le guerre e l’ agricoltura. E vi erano personaggi
specializzati nei diversi argomenti, i quali raccontavano a ripetizione le loro
esperienze amorose, belliche o lavorative nei campi.
Il terrore, argomento del
7° capitolo, parla della seconda grande guerra
‘40/’45, “la cui inutilità, prima a livello di dubbio, diveniva ogni giorno
realtà” e in particolare parte dal giugno del 1943, quando “per la prima
volta si vedeva circolare un automezzo (la jeep di un colonnello tedesco)
e per la prima volta, oltre le domenicali prediche sacerdotali, una persona
intendeva rivolgersi ad una moltitudine. Il discorso si “concluse al
grido di Viva il Duce, viva la patria, viva il Re, al quale si associarono
Pasquale, il podestà, e il gruppetto dei dirigenti del partito fascista,
capeggiato dal suo segretario sig. Costantino La Cola. La folla era muta,
perplessa, sgomenta, non capiva […]
Ma da allora ci furono le riflessioni
che cominciarono a criticare il fascismo, che, però, reagiva con arresti e
“olio di ricino”. Ma nel ’43 era finita la stagione dell’olio di ricino che
veniva somministrato all’inizio del ventennio, quando esso doveva ancora
affermarsi. Quei discorsi prepararono gli animi ad accogliere gli Americani come
liberatori e distributori dei terreni dei feudatari.
L’8° capitolo parla de La delusione che seguì alla disastrosa guerra e
alle prime riforme, specialmente quella agraria, che fecero sorgere il
separatismo siciliano e l’affermazione della mafia, entrambi
contrastati dai sindacati. E qui l’autore si diffonde nel racconto dei fatti e
dei personaggi locali che portarono alla delusione, appunto, e alla fine della
civiltà contadina e al risorgere del fenomeno emigrazione degli anni trenta.
Nei Colloqui di emigranti, infine, narra, forse con molta fantasia,
dell’emigrazione di cinque giovani irrequieti e schizzinosi, i
quali, dopo le loro esperienze sessuali “nel casino di Caltagirone”,
partono per l’ America in cerca di libertà e benessere. Dopo una traversata
lunga e disagiata, Nicola scompare nel grande porto di New York,
gli altri quattro vengono mandati in Pensilvania, dove lavorano in miniera e la
sera nelle loro baracche di legno devono prepararsi il pasto e fare tutte le
altre faccende di casa. Santo, che era scapolo, dopo un po’ di tempo la
sera si eclissava perché aveva conosciuto una ragazza francese, Anne;
Raffaele conobbe Evelin e, dopo tormentate notti al ricordo della moglie e
dei figli, la seguì; Cataldo, che era un fatalista, soffrì per la
decisione dell’amico, ma si costruì una casetta di legno per richiamare
la famiglia; ma un triste giorno morì sotto una valanga assieme ad altri operai;
Orazio, che era l’unico superstite, curò le misere esequie dell’amico e,
passati i cinque anni previsti dal contratto d’ingaggio, ritornò al paese. “Il
gruppo non esisteva più. Ognuno aveva vissuto la sua realtà.”
Segue un
affastellamento di riflessioni, poste in bocca a quella povera gente di paese,
che culmina con “corsi e ricorsi” posti in bocca alla vecchia Rosalia la
quale vuole dissuadere l’unico figlio Rocco dall’ emigrare, ma che finisce col
dire: “Non insisto, so di non avere il diritto, vai avanti, Rocco mio,;
soprattutto è importante credere nelle proprie scelte e non oscillare come le
spighe di grano al vento di maggio.”
Che dire della edizione? L’editore Greco, con un buon proto, avrebbe
potuto rabberciare il tutto. Ma la propaganda non va per il sottile: tanto chi
riceve l’omaggio, che non legge, è orgoglioso che quel politico si sia ricordato
di lui e, quindi, lo voterà se non altro per riconoscenza, et hoc erat in
votis!
Nicola Lupo
Dicembre 2004 |