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I FRATELLI CIMBALI

I personaggi illustri di Bronte, insieme

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Relazione su Enrico Cimbali

Enrico Cimbali nasce a Bronte nel 1855 e, nel pur breve arco della sua vita – muore infatti appena trentaduenne nel 1887 – lascia un’impronta non effimera nella storia giuridica italiana. Studioso di diritto civile, è tra gli esponenti più significativi della scuola del “socialismo giuridico”, fautore di un rinnovamento radicale degli studi della civilistica, all’insegna di una riforma dei metodi, dei contenuti e degli obiettivi che ne fondano la teoria e la pratica.
di Paoladele Fiorentini


Un grande italiano, esponente di punta del socialismo giuridico

Sono particolarmente lieta di questa bella occasione che ci permette di parlare di un grande siciliano, di un grande italiano, quale fu appunto Enrico Cimbali. Ringrazio quindi di cuore il pre­si­dente che si è fatto promotore di questa meritoria iniziativa, per avermi invitato e tutti i soci che, in modo così numeroso, hanno aderito per onorare e ricordare il loro illustre concittadino.
Lo dico con cognizione di causa, da storica e studiosa della cultura siciliana ed europea, per­ché per prima cosa va detto, ancora una volta, che questa Sicilia dell’Ottocento e i prestigiosi figli che ha partorito appartengono alla parte più fertile e ricca della storia della cultura e della società moderna.

E’ un luogo comune, un’immagine stereotipata e deformata quella che fa della Sicilia una terra povera ed emarginata, arretrata ed isolata.

Terra di cafoni e di mafia, di arretratezza culturale e sociale; quanto fa comodo questa leggenda ad una ideologia che ne fa la palla al piede, il fanalino di coda di un’Italia ricca che altrove, cioè al Nord, ha i suoi prodotti migliori e la sua vera anima, economica, politica, intellettuale.

Niente di più falso e menzognero, un’immagine strumentale che però ormai fa parte di uno stereotipo che si è fissato e sedimentato, è diventato un luogo comune, una distorta carica­tura, a volte anche tragica, e sempre penalizzante, di questa terra straordinaria, definita dagli antichi, non a caso, l’isola benedetta dagli dei.

Potremmo discutere a lungo dei motivi di questa lettura deformata. Senza dubbio essa risale a un siciliano illustre quale fu Giovanni Gentile e a un libro, da lui scritto nel 1916, dal titolo significativo Il tramonto della cultura siciliana.

Gentile, attaccando tutta la cultura positivista e materialista le cui radici si collocano nell’illuminismo, parlava appunto di una terra che si era isolata dalle correnti vitali della cultura e della filosofia europea, lo spiritualismo e l’idealismo.

Egli costruiva il topos dell’isola separata e sequestrata, minoritaria e subalterna, che, anche in contesti molto diversi, avrebbe poi avuto tanta fortuna nell’immaginario collettivo.

La moderna storiografia ha fatto giustizia, ormai da qualche decennio, di questa prospettiva e parlo della grande storiografia meridionale, uno dei cui maestri è senza dubbio Giuseppe Giar­rizzo, che ha giustamente e correttamente studiato la cultura siciliana sette e ottocentesca, inserendola nel contesto europeo, di cui essa fu parte attiva ed integrante, dinamica e propulsiva.

Occorre quindi capovolgere la teoria inerente l’arretratezza e la subalternità dell’isola, eviden­ziando come, insieme a contraddizioni e ritardi, siano presenti anche elementi di strutturale e profonda dinamicità.

Non quindi la Sicilia medievale e “immobile”, nei suoi aspetti più retrivi, quale anche l’inchiesta parlamentare di Franchetti e Sonnino accreditava, ma una terra piena di fermenti, un vero laboratorio sperimentale dove anche sul piano politico, non dimentichia­molo, erano nate le condizioni per l’unificazione italiana. E il siciliano Crispi ben lo aveva capito, spingendo in modo determinante Garibaldi ad attaccare in Sicilia la monarchia borbonica.


VERSIONE IN

  

La relazione è stata tenuta nel corso della riunio­ne conviviale organizzata a Bronte il 2 Aprile 2011 dai soci del “Circolo di Cultura En­rico Cimbali” nel no­van­tesimo anni­versario del­l’in­tito­lazione ad Enri­co Cimbali del loro so­da­lizio, l’an­tico Casino di Conver­sazione de’ Civili.

Alla riunione, moderata dal presidente del soda­lizio dott. Aldo Russo, hanno partecipato moltis­simi soci con le rispettive consorti ed anche rap­presentanti di altre associazioni e circoli bron­tesi per un totale di quasi 150 persone.

Oltre alla Prof. P. Fiorentini sono intervenuti an­che l’avv. Lucia Pecorino laureatasi in Giuri­spru­denza con una tesi su E. Cimbali, che ha trat­teggiato alcuni cenni sulla vita e le opere del giu­rista bron­tese, il sindaco di Bronte sen. Pino Fir­rarello ed il pre­sidente della Provincia regionale di Catania (nonché socio del Circolo) Giuseppe Castiglione.

Paoladele Fiorentini, docente di Storia moderna presso l'Università di Catania, ha  recentemente pub­blicato “Enrico Cimbali e la funzione sociale dello stato moderno” (Giuseppe Maimone Edito­re, Cata­nia 1987) contenente due mano­scrit­ti inediti di E. Cimbali (“La funzione sociale dello Stato moder­no” e ”Le prime due fasi dell'azione dello Stato”).

Fra le altre sue opere ricordiamo "Nel regno delle Due Sicilie" - Intellettuali, potere, scienze della so­cie­tà nella Sicilia borbonica, Edizioni del Prisma, Collana Biblioteca siciliana, 2008, Pagi­ne: 262, Prezzo: € 32.00; Augustin Thierry: Sto­riografia e politica nella Francia della Restau­razione, Catania, Edizioni Del Prisma, 2003.

Compiuta l’Unità, la Sicilia era stata ancora una volta protagonista, con i suoi quadri intellet­tuali, del profondo rivolgimento politico che aveva portato al potere la Sinistra, nel 1876, e promotrice, sul piano culturale, di un profondo rinnovamento, che partecipava dei fermenti del migliore positivismo europeo, nei settori filosofico, letterario, pedagogico, sociologico e giuridico.

Era una vera rivoluzione che investiva il diritto, sia civile che penale, costituzionale, amministrativo ed ecclesiastico, basti citare grandi perso­nalità come, nella Sicilia occidentale, Scaduto Orlando e Mosca e, in quella orientale, Giuseppe Vadalà Papale e appunto Enrico Cimbali.

Fu il grande poeta Mario Rapisardi a farsi interprete di questo fermento in una prolusione accademica del 1879, auspicando che Catania potesse diventare una capitale della scienza in una società ormai così trasformata e cambiata tanto da assomigliare ad “un vulcano che minacci eruzione”.

Rapisardi era un convinto fautore dell’evoluzionismo, si faceva paladino di una concezione laica e materialista, dove la nuova scienza doveva essere applicata anche al diritto e prioritario gli appariva il problema della questione sociale: “L’iniqua distribuzione delle ricchezze, il crescente squilibrio tra bisogni e mezzi di sussistenza, il dissidio tra capitale e lavoro... - egli scriveva - hanno portato la società a tali strette che una conflagrazione tra le classi alte, che sono i borghesi tiranneggianti, e le classi infime, che sono le classi operaie tiranneggiate, potrà essere per ventura ritardata, non evitata”.

Erano queste posizioni e teorie largamente condivise da Enrico Cimbali, che era diventato uno degli esponenti di punta del socialismo giuridico e si era fatto portavoce della necessità di riformare profondamente, sul piano del metodo e dei contenuti, il diritto civile.

Il socialismo giuridico fu un movimento che si sviluppò in Italia nell’ambito della cultura positivista, collegandosi all’opera scientifica di Anton Menger il quale, sulla base della teoria del diritto come diretta espressione degli interessi della classe borghese, sosteneva la necessità di promuovere riforme a favore delle classi lavoratrici, riforme che ponessero fine alla lotta di classe e alla cosiddetta “questione sociale”.

Il giurista austriaco, seguace delle teorie di Lassalle, auspicava la nascita di uno “Stato democratico del lavoro”, che ponesse quale scopo primario dell’attività dello Stato la conser­vazione e l’evoluzione dell’esistenza dell’individuo, la tutela della vita e dell’integrità fisica e psichica e dei diritti fondamentali di ogni singolo componente della società.

Era stato Achille Loria a coniare l’ossimoro di “socialismo giuridico”, riconoscendo alla nuova scuola di giuristi il merito di avere sottoposto il diritto ad una critica rigorosa, pur conte­stan­dolo sul piano di un’analisi di stampo marxista, che propugnava la necessità delle riforme sociali a partire dalla struttura economica e non da quella giuridica della società.

La defini­zione di Loria aveva scatenato molte polemiche, da parte di coloro che la contesta­vano da posizioni opposte, come, ad esempio, Vidari e D’Aguanno, riformatori non socialisti, o Claudio Treves, che si faceva critico severo del movimento sull’organo ufficiale del partito socialista “Critica sociale”.

Il socialismo giuridico fu un movimento composito, non una scuola dal carattere unitario, ave­va al suo interno molte anime, la cui caratteristica principale non era certo rivoluzio­naria, ma riformatrice. Esso fu, come nota bene Paolo Grossi, più una presenza culturale, una tendenza politico-ideologica che attraversò scuole e momenti diversi della riflessione giuridica.

I suoi esponenti, per lo più, distinguendosi dalla linea di ortodossia marxista e socialista, non miravano alla rifondazione di una nuova società, ma avevano come obiettivo di riparare ai mali del sistema capitalista, modificando, secondo le nuove istanze scientifiche, le istituzioni giuridiche, modernizzandole e meglio adattandole alle nuove istanze poste dalle classi lavo­ra­trici e dai soggetti sociali più deboli e meno tutelati.

Quando queste polemiche scoppiavano negli anni ‘90 Cimbali era già morto, ma era stato lui, giovanissimo docente, nel 1881, a Roma, nella prolusione ad un Corso libero di Diritto civile, a proclamare per primo la necessità del cambiamento, della “rivoluzione”, tanto nei conte­nuti che nel metodo, del diritto civile.

A questa prima presa di posizione del giovane giurista, che aveva creato molto scalpore nel mondo accademico, erano seguite, nell’ambito della civilistica, le prolusioni di Chironi e di Cogliolo, gli scritti di Gianturco e di Vadalà Papale.
Nell’ambito del diritto penale era stato invece Enrico Ferri, nella celebre prolusione bolognese del 1880, a farsi promotore della riforma, auspi­cando l’applicazione del nuovo metodo speri­mentale “allo studio dei delitti e delle pene”.

La necessità della riforma propugnata da Cimbali e dagli altri aderenti al movimento si radi­cava nella consapevolezza che il diritto civile doveva essere lo specchio in divenire, ma vivo e congruo, di una società in profonda trasformazione, concetto che si poneva in aperta po­le­mica con la scuola esegetica formalista, ove era totale la dipendenza dal modello romano, che determinava la struttura di un codice asfittico, vincolato alla tutela dell’utilità del sin­golo - jus privatum est quod ad singulorum utilitatem spectat - , dove però il singolo risulta essere un modello astratto, del tutto fuori dal contesto sociale e storico in cui opera e vive.

I civilisti richiamavano l’attenzione verso la necessità di una riforma che tenesse conto delle scienze che analizzano l’uomo e la società, proprio al fine di procedere ad una riforma della legislazione che, partendo da una base scientifica e sistematica, fosse organica ed inte­grale.Era dunque un atteggiamento nuovo e fecondo, teso a comprendere la complessità della realtà sociale e a fornire risposte adeguate alle nuove domande ed ai nuovi bisogni in essa emergenti.

I vecchi codici precedenti, nel regolare gli istituti di diritto privato, avevano mes­so in secondo piano i problemi delle classi lavoratrici e si erano fatti portavoce soltanto del­l’interesse delle classi abbienti, producendo profonde lacerazioni, che diventava improro­gabile, sotto l’urto della questione sociale, ricomporre, tenendo conto di un contesto econo­mico e sociale ormai profondamente mutato.

La società che aveva basato la propria economia sul settore agrario nel XIX secolo aveva conosciuto trasformazioni radicali e irreversibili, la realtà era diventata sempre più complessa e articolata, segnata dallo sviluppo della grande industria, del commercio, del credito e delle nuove tecnologie.

I soggetti del diritto si erano di conseguenza modificati e moltiplicati, mutando la loro posizione e il loro ruolo sociale. La questione sociale diveniva perciò uno dei campi di indagine preferito del dibattito civilisti­co, soprattutto per l’esigenza della nascita di un codice privato-sociale, che potesse supe­rare il confine tra il diritto pubblico e quello privato, rompendo la chiusura astratta e nega­tiva di una codificazione rivolta al singolo per conquistare un piano più ampio ed integrale, collettivo e, appunto, sociale.

L’attenzione verso il diritto al lavoro e alle classi che di esse sono portatrici faceva emerge­re il problema del lavoro femminile, e più in generale della riforma del diritto di famiglia, all’in­segna di un’emancipazione della donna che vedeva la difesa dei suoi diritti e della sua libertà.

Da qui le proposte caldeggiate da Cimbali, e poi anche da molti altri, favorevoli all’istitu­zione del divorzio, e quindi alla relativa trasformazione dell’istituzione matrimoniale in un contratto di natura civile e favorevoli ad una riforma della divisione dei beni, e all’annul­lamento dell’impossibilità della ricerca della paternità naturale, che penalizzava pesan­temente la maternità femminile al di fuori del matrimonio, garantendo al contempo l’impunità per i maschi dei ceti più abbienti.

Erano dunque sul tappeto questioni fondamentali di carattere teorico e pratico, che implicavano una capacità di analisi e di individuazione dei problemi, sia sul piano storico che su quello più strettamente giuridico, oltreché notevoli capacità di sintesi.

11 maggio 1883
Caro avvocato,
Dovrei darvi un incarico.
Se poteste venire un momento da me , vi sarei grato
aff.mo vostro

Francesco Crispi


Enrico Cimbali, lasciata Napoli, era arrivato a Roma da appe­na tre anni  e già si era affer­mato tanto da ottenere prestigiosi incarichi.

In questo caso Francesco Crispi gli affidava la reda­zione di una me­moria da scriversi in difesa del Duca D'Aumale (Henry d'Orléans duca di, grande fautore dell'indi­pen­denza italiana) davanti la Cas­sa­zione di Roma a Sezio­ni unite.

Due anni prima Enrico Cimbali aveva pubblicato "I par­titi politici in Italia" (Roma, Forzani e C., 1881), una lettera aperta diretta a Francesco Crispi nella qua­le denunciava la corruzione e la contemporanea dissoluzione dei partiti politici.

Tutte qualità che Cimbali dimostra­va di possedere alla grande già nel 1881, con la prolusione romana cui prima accennavo, che aveva i significativo titolo Lo studio del Diritto Civile negli Stati moderni e che ebbe un effetto dirompente nel mondo accademico italiano e che diede al suo giovane autore poco più che venticinquenne, fama nazionale, accendendo un dibattito che, per tutta la seconda metà del secolo avrebbe dominato la cultura italiana.

Cimbali si era laureato da appena cinque anni e a Napoli, sotto i magistero di Monsignor Mirabelli aveva approfondito gli studi filosofici, giuridici e letterari, e si era avviato alla professione dell’avvocatura presso lo studio di Luigi Landolfi.

Il suo primo libro, che aveva dedicato al padre dal titolo “Del possesso per acquistare i frutti” gli aveva già guadagnato fama di dotto cultore del diritto civile, del diritto romano e della filosofia del diritto. Di solo quattro anni successiva è la pubblicazione del saggio, nel 1885, “La nuova fase del Diritto civile”, scritto in occasione del concorso per la Cattedra di Diritto civile dell’Università di Torino, che Cimbali non riuscì ad otte­nere, anche per la portata eccessivamente innovativa delle sue concezioni ma che comunque consolidò la sua fama anche sul piano interna­zionale.

In Spagna, dove si stava elaborando la stesura di un nuovo codice civile, l’avvocato Giovann Crespo Herrero gli chiese l’autorizzazione alla traduzione e le opere di Cimbali ebbero vasta diffusione nel mondo spagnolo, oltre che in quello francese.

Cimbali auspicava e teorizzava la necessità di dare vita ad un codice privato- sociale che correlasse la vita civile con quella commerciale, all’in­terno di una piena accettazione dell’evoluzionismo che gli permetteva una ricostruzione a tutto campo delle dinamiche dello sviluppo umano, che egli tripartiva in “tre età del codice sociale”, direttamente collegate al diverso grado di sviluppo di tre periodi storici differenti: quello romano, quello medievale e infine quello moderno.

Pur attingendo e comparando con vasta dottrina e grande capacità di analisi le varie esperienze degli altri stati europei, con particolare atten­zione al modello francese e a quello tedesco, Cimbali perveniva ad una concezione autonoma ed originale, dove il sistema del diritto avrebbe dovuto essere costruito come lo specchio di una “visione unitaria e fisiologica della società data dalle scienze sociali”.

Egli elaborava quindi una via italiana e nazionale che conducesse ad un ordine sistematico in grado di ricondurre ad unità, tramite l’impiego di rigorosi criteri metodologici, le norme giuridiche, dove il diritto veniva ad essere come un tessuto connettivo, col fine specifico di riunire in un compiuto organismo tutti i singoli istituti giuridici, garantendo l’armonia e la sintesi delle parti.

Sono questi i grandi temi della riflessione cimbaliana e anche i due manoscritti, da me rinvenuti nella biblioteca del collegio “Capizzi”, grazie alla competenza e all’aiuto del dott. Franco Cimbali, che ancora qui ringrazio, si inseriscono a pieno titolo in questo quadro. I due manoscritti risal­gono proprio a quel 1881, che tanto fu demarcante e importante nella vita del nostro giurista e furono da lui consegnati per la pubblicazione su una prestigiosa rivista fiorentina la “Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti”, pubblicazione che poi non avvenne per le vicende editoriali del periodico, che fu trasformato in un giornale politico quotidiano.

Ciò che costituisce il maggiore interesse dei due scritti è il loro oggetto specifico, in quanto essi focalizzano l’analisi sull’azione e sui compiti dello Stato moderno. Nel contesto di uno schema interpretativo di carattere evoluzionista, secondo una conce­zione ottimista, lineare e pro­gressiva e rigorosamente organicista dello sviluppo, l’individuo da un lato e lo Stato dall’altro rappresen­tano “i termini essenziali nei quali si sostanzia e si integra il concetto completo dell’umanità”.

Cimbali costruisce una teoria che analizza l’umana evoluzione storica a partire dal mondo antico, individuando la contrappo­sizio­ne tra la società fondata sull’accentramento e sull’organizzazione militare, tipica appunto del mondo antico, e l’altra, individualista e fondata sulle arti della pace, quale si è progressivamente manifestata nel mondo moderno.

Questa contrapposizione, che, come è noto, comportava l’esaltazione del moderno rispetto all’antico, aveva caratterizzato la cultura liberale francese ed era alla base delle teorie liberali e liberiste di Constant, in piena sintonia con l’affermazione della borghesia nell’età della Restau­razione. Ma, riprendendola, Cimbali ne faceva il punto di partenza per un attacco frontale alle tesi del liberalismo classico.

L’esaltazione dell’individuo, tipica dell’età moderna, ha comportato infatti la concezione di uno Stato visto solo come “mutua associazione di diritti e di interessi legati insieme dalla libertà e dall’arbitrio”, sviluppando una teoria di tipo contrattualistico, che si compendia nel celebre motto del Laissez faire laissez passer, la cui ultima conseguenza è quella di “lasciar passare l’arbitrio, l’ignoranza, l’immoralità e la miseria”.

Cimbali dunque si oppone e contesta con fermezza e ampiezza di argomenti la funzione puramente negativa dello Stato, ridotto a spettatore neutrale ed impotente nella lotta spietata degli interessi, che ha, come inevitabile conseguenza, non solo la sconfitta dei più deboli, ma anche la crescita esponenziale dell’arbitrio dei vincitori, che si fanno “arbitri altresì dei poteri e delle sorti dello Stato medesimo”.

L’aprirsi di una nuova fase storica, legata allo sviluppo inarrestabile del capitalismo e delle tecnologie, implica necessaria­mente la necessità dell’armonizzazione di individuo e Stato, in cui “senza negarsi il valore e la libera iniziativa dell’uno, possa esercitarsi provvidamente l’azione moderatrice, integratrice e civilizzatrice dell’altro”.

Nel mondo moderno, segnato da inarrestabili ed epocali cambiamenti, è quindi imprescindibile trovare e realizzare nuove risposte ai problemi posti dall’industrializzazione e dall’organizzazione capitalistica ed è all’azione dello Stato che, proprio per questo, deve essere data la massima rilevanza, nelle forme giuridiche più opportune, per la migliore organizzazione ed il progressivo miglioramento della società nel suo complesso.

Non credo ci sia bisogno di sottolineare quanto questa posizione fosse innovativa allora, sull’onda delle teorie più avanzate delle scienze giuri­diche e sociali europee, e quanto sia più che mai attuale oggi, giacchè indica una strada obbligata eppure ancor disattesa, dove moltissimo resta ancora da fare.

Cimbali e con lui tutta la sua generazione, dopo la nascita dell’Italia unita, assunsero il compito di costruire una società giusta e moderna, civile e progredita.

Voglio concludere queste mie riflessioni rimarcando non solo la grandezza di questi intellettuali siciliani, ma anche la loro appartenenza a presti­giose famiglie della migliore borghesia che in provincia, in taluni casi, diedero vita a vere e proprie “dinastie intellettuali” (è questa la definizione di Giuseppe Giarrizzo a proposito dei Majorana).

E’ così per Salvatore Majorana Calatabiano e per il padre di Cimbali che crearono le basi di una crescita e di una formazione intellettuale dei loro figli che li ha resi protagonisti, veri maitres à penser della cultura italiana.

E’ la Militello dei Majorana, è la Bronte dei Cimbali (e mi corre qui l’obbligo di citare il libro, curato dall’amico e collega Saitta, sui “Ricordi e let­tere ai figli” del padre di Enrico Cimbali). E’ una grande lezione di etica, di sprone verso la realizzazioni di mete alte, fondate sullo studio, sulla dedizione ad una missione nel mondo che è portatrice dei più nobili valori umani, politici e sociali.

Non è il successo come meta immediata di poveri appetiti individuali, ma la conquista di obiettivi di realizzazione e di perfezionamento delle proprie qualità migliori, messe in atto non per il proprio banale e immediato profitto, ma per il bene della collettività, fonte di progresso comune, culturale e civile.

Mi piace rimarcarlo, per rendere onore a Bronte, che in Italia e nel mondo è giusto che non sia nota solo per i suoi pistacchi, e onore ad Enrico Cimbali e a tutta una generazione di intellettuali che, dopo l’unificazione dell’Italia, si è adoperata con generosità e slancio, straordinaria capa­cità e intelligenza, e assoluta onestà per costruirne le fondamenta e renderla migliore.

Per questo mi sembra più che opportuno chiudere questa relazione citando la lettera aperta che Enrico Cimbali inviò ad un altro grande siciliano, che egli molto ammirava e stimava, Francesco Crispi, sul tema de “I partiti politici in Italia”. In essa si eviden­ziano il disprezzo e la polemica nei confronti di una politica povera e asfittica, chiusa nella deludente ed esecrabile prassi del trasformismo.

“Quello che avrebbe dovuto essere un giorno di rigenerazione sostanziale per la sinistra ha aggravato i suoi mali che oggi l’hanno ridotta a sepolcro... - scriveva il giovane Cimbali - Il governo è sfuggito dalle mani della Sinistra, senza che sia passato decisamente nelle mani della Destra... Forse giammai come oggi si è avvertito urgente il bisogno d’imprimere un novello indirizzo più conforme al prestigio della nazione, nella politica dello Stato...”

Non è quella di Enrico una rinuncia di stampo qualunquistico anzi egli esprime l’esigenza di un avvicinamento alla politica “per studiarla e quindi professarla”, ma lucidamente, nel valutare quei primi decenni di vita del Parlamento italiano, egli non può non denunciare “che la fede non ho saputo trovarmela, o meglio non ho sentito di poter legare la mia mente a nessuna delle due Chiese militanti che si contendono la direzione dello Stato... Per me il quadro, qualunque siano i suoi colori, può dirsi completo: dissoluzione a Destra, dissoluzione a Sinistra, eclissi al centro”.

Eppure non demordeva, si faceva paladino dell’allargamento del suffragio, nel dichiarato intento di colmare il divario tra paese legale e paese reale, ai fini di dare un nuovo impulso alla politica ed alla rigenerazione dei partiti. Nei fatti la riforma elettorale era stata varata con criteri contradditori e disordinati, favorendo gli interessi dei grandi elettori e dei comitati locali.

Dopo aver vinto la cattedra a Messina, con un’altra opera mirabile “Sulla capacità di contrattare secondo il Codice Civile e di Commercio”, nel 1886 Cimbali ribadiva, in merito alla sua candidatura nel secondo seggio di Catania, a seguito della morte di Romeo, ancora una volta un rifiuto che si radicava in una concezione alta e nobile della politica. Egli si era fatto paladino della necessità dell’unione e della coesione, in nome dei bisogni reali del paese, denunciandone appunto la corruzione e la divisione.

“Fu vana illusione la mia - scriveva nella lettera Agli amici del secondo collegio di Catania -” aggiungendo ancora “cresce la certezza che nulla di sano vi sia e che coloro che concorrono all’onere della rappresentanza nazionale, siano tutti indistinta­mente guidati dal pungolo di soddisfare una volgare ambizione...”.

Parole profetiche, parole amare, eppure nate da una forza, da una nobiltà di intenti, da una capacità progettuale che ci addita ancor oggi, e forse, oggi più che mai, la strada giusta da percorrere.

Enrico Cimbali è per me l’emblema di tutta una generazione, le cui generose illusioni ancora possono e devono nutrire la parte migliore dell’Italia. Guardare indietro ai grandi maestri, e Cimbali lo è stato - e la sua morte precoce lo ha ancor di più, se possibile, consegnato alla storia -, guardare indietro, dicevo, è talora il modo migliore per guardare avanti, attingendo dalla lezione del passato la forza e la speranza di costruire il nostro futuro.

Paoladele Fiorentini


    

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