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I FRATELLI CIMBALI

I personaggi illustri di Bronte, insieme

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Un saggio inedito di Enrico Cimbali

La funzione sociale dello Stato moderno

di Enrico Cimbali

La lunga esperienza fatta a traverso il corso dei secoli e l'alternarsi delle generazioni ha portato con sé l'affermazione dell'individuo e dello Stato come i due termini essenziali nei quali si sostanzia e s'integra il concetto completo dell'umanità.

Ma la semplice affermazione astratta della loro rispettiva personalità non basta, quand'essa non sia seguita da un ordine corrispondente di relazioni armoniche fra queste due potenze che, dopo aver combattuto disperatamente per demolirsi a vicenda, hanno dovuto finire col riconoscere di essere la loro mutua esistenza una condizione primitiva di necessità pel mantenimento e lo sviluppo della convivenza sociale.

Uscite entrambe salve dalla feroce battaglia per la vita è d'uopo ora si intendano fra loro perché trovino il modo più adatto di vivere in armonia, essendo il vivere insieme divenuto necessità indeclinabile per ciascuna.
La pace dopo la lotta non può dirsi sicura né durevole, se allo stato di mutua affermazione non risponda uno stato di cordiale ed amichevole relazione, se lo stato di diffidenza reciproca sin oggi accentuata non ceda il luogo allo stato più adatto di deferenza e di benevolenza reciproca, e se infine questi due elementi, oggi entrati in una nuova fase di amicizia, anziché trovare cagione di debolezza e di sgomento, non trovino nella loro coesistenza una sorgente inesauribile di forza e di conforto.

Tutto annunzia ormai che un nuovo periodo di rapporti pacifici tra lo Stato e l'individuo possa inaugurarsi, se pur non siasi di già, anche ad insaputa di coloro che se ne rendono necessario strumento, cominciato ad inaugurare.

Della quale legislazione fin soltanto il nome suol destare un sacro orrore nei più timorati di coloro che per lunga consuetudine si sono abituati a ravvisare un elemento di oppressione e di tirannia nello Stato; mentre altri più moderati, ma meno logici, senza nutrire l'avversione dei primi contro l'ingerenza dello Stato, si sforzano virilmente per giustificarne l'azione nelle materie sopra enumerate, dicendo che in esse lo Stato non eccede il limite del suo ufficio ordinario di tutela, il cui esercizio è riconosciuto legittimo universalmente da tutti. Credono con questa pietosa finzione di tranquil­lare i mesti risentimenti della loro coscienza.

Ma il certo è che un nuovo campo fecondissimo, prima ignoto ed inesplo­rato, si dischiude all'azione dello Stato di cui è vano sofisticare sul nome, quando nel fatto essa non è che il prodotto di una recente evoluzione compiutasi nell'organismo dello Stato.

È d'uopo quindi vedere in che consista siffatta evoluzione e quale sia la natura e il valore della funzione corrispondente che il compiersi di essa ha reso necessaria nell'organismo trasformato dello Stato.

Come nel mondo fisico, anche nel mondo sociale due grandi forze si contendono il dominio dei fenomeni molteplici che si svolgono nella vastità del tempo e dello spazio; le quali forze, mentre nel primo campo prendo­no il nome di attrazione e di ripulsione, nel secondo invece vogliono deno­minarsi egoismo ed altruismo. Queste due forze hanno dominato e domineranno sempre nel mondo, ma la loro azione si spiega in senso perfettamente opposto.

La tendenza egoistica si esercita nel trarre la maggior somma di utilità e di vantaggio a spese del tutto, in beneficio della parte, dalla quale muove come punto di partenza ed alla quale ritorna come punto di arrivo.

La forza altruistica invece segue il processo opposto esplicandosi in modo da racco­gliere, con danno e perdita evidente delle parti, la maggior somma di utilità e di vantaggio possibile in beneficio del tutto.

La natura provvida però ha mirabilmente disposto che ciascuna di queste due forze non debba agire isolatamente e senza correttivo, poiché ciò renderebbe inevitabile la rovina e l'annullamento completo della forza contraria.

 

Il saggio di E. Cimbali "La fun­zione sociale dello stato moder­no" è di poco posteriore alla prolusione al corso di Dirit­to civi­le tenuta nel 1881 dal Cimbali nella Regia Università di Roma.

Fa parte dei manoscritti con­servati nella biblioteca del Real Collegio Capizzi e doveva esse­re pubblicato su la “Ras­segna settima­nale di politica scienze lettere ed arti”, prestigiosa rivi­sta nata a Firenze nel gennaio del 1878 sotto la guida di Fran­chetti e Sonnino, ma non vide mai la luce, probabilmente a causa delle difficoltà del perio­dico che qualche mese dopo la consegna degli articoli sospendeva le pubblicazioni.

Unitamente ad un altro saggio dal titolo “Le prime due fasi dell' azione dello Stato” è stato recentemente pubbli­cato e com­men­tato da Paoladele Fiorentini dell’Uni­versità di Ca­tania (“Enrico Cimbali e la funzione sociale dello stato moder­no”, Giusep­pe Maimone Editore, Catania 1987, euro 9,00).

In questo saggio Enrico Cim­ba­li – scrive la Fiorentini - «ap­pli­ca rigidamente uno sche­ma di tipo evoluzio­nisti­co, i cui due termini di riferimento, nello sviluppo dell'uomo e delle socie­tà umane, sono rappresentati da un lato dall'in­dividuo, dall'altro dallo Stato, “termini essen­ziali nei quali si sostanzia e si integra il concetto completo dell'umanità”.

A questo impianto di tipo dicotomico, che di fatto costituisce il fondamento di ogni struttura sociale, Cimbali applica una in­ter­pretazione rigorosamente organicistica, che mutua dalla realtà fisiologica i propri concetti esplicativi e li estende al mon­do so­ciale, ana­liz­zato secondo le forze che in esso si manife­stano, e che è tesa soprattutto a riconoscere e iden­tificare gli ele­menti determinanti che sono alla base della mol­teplicità dei feno­meni.

E come nel mondo fisico le due forze principali sono quelle di attrazione e di repulsione, così in quello sociale le due forze elementari e fondamentali sono rappre­sentate dall'egoismo e dall'altruismo, principi di fondo che agiscono in senso oppo­sto e conflittuale, le cui manife­stazioni storiche si concre­tiz­zano nelle forme del­l'autoritarismo e del liberalismo, l'uno vol­to alla sola conservazione del tutto e della collettività, l'altro alla difesa esclusiva del solo interesse privato.»

E così, studiando attentamente tutte le fasi graduali dell'evoluzione sociale, vediamo come, in ogni tempo ed in ogni luogo, siasi sprigionata con perfetta regolarità una somma di forze proporzionale e al principio egoistico e all'altruistico, quant'era necessario per la conservazione ed il progresso ordinato dell'umanità.

Questi due principii, nelle loro manifestazioni storiche, si sono rivelati con la forma concreta di autoritarismo e di liberalismo, compendiandosi nell'uno di essi l'azione esercitata dallo Stato in servigio esclusivo dell'intera convivenza, mentre nell'altro si compendia l'azione contraria esercitata dall'individuo nel suo interesse esclusiva­mente privato.

La loro potenza però, nei primordi dell'umanità, del pari che in ogni altro ramo della vita, anziché distinta si è mostrata confusa ed involuta; e la medesima sorte è toccata di necessità alle singole azioni nelle quali la medesima si è incarnata.

È agevole difatti l'osservare come nei gruppi primitivi elementari della convivenza sociale (famiglia tribù) l'interesse privato si identifichi mirabilmente coll'interesse collettivo e come si mostri là più, imponendo a tutti i membri della convivenza una cooperazione decisamente obbligatoria.

A questo tipo di società organizzata militarmente, dove lo Stato è tutto e l'individuo nulla, si contrappone, come antitesi, il tipo della società industriale, a cui si giunge per una serie graduale di evoluzioni, quante ne sono necessarie perché dallo stato di completo accentramento si passi a quello opposto di discentramento non meno completo.
E tali evoluzioni successive nell'organismo dello Stato non sono che la conseguenza immediata di una evoluzione corrispondente per cui, con ordine graduale, il sistema e le arti della guerra cominciano a cedere il luogo al sistema e alle arti della pace.

Col declinare del militarismo, che determina la struttura politica di accentramento dello Stato, comincia a formarsi la struttura politica di discentramento determinata dal regime industriale e dalle arti della pace, che ne sono causa ed effetto nel medesimo tempo.

Cessando la forza di compressione onde tutti i membri della convivenza sociale trovavansi violentemente stretti e soggiogati in servizio del tutto, quelli cominciano ad acquistare un valore personale proprio, per cui rivendicano progressivamente una parte di autonomia che prima trovavansi d'aver perduto intieramente in beneficio dello Stato.

Questo perciò si trova costretto a ritirar mano mano una parte della sua ingerenza dalle materie dove si sperimenta più e più incompatibile colla cresciuta libertà degli individui, i quali acquistano gradatamente quella sfera di potere che lo Stato trovasi costretto ad abbandonare.
Anzi la fonte stessa del potere che prima riconoscevasi, senza contrasto, intera nello Stato, poscia viene a riconoscersi anche intera negli individui medesimi dei quali lo Stato comincia a considerarsi come un semplice mandatario e depositario della sovranità.

Quel che prima s'impone coattivamente per autorità dello Stato, comincia a compiersi ora spontaneamente per libera iniziativa dei privati; e così l'associazione libera pren­de il posto dell'associazione forzata in tutte le faccende che trovavansi devolute al potere centrale, cercando nel proprio interesse il movente, e nel proprio diritto la giustificazione degli atti che si compiono.

Così il moto che già veniva a raccogliersi tutto nel centro si spande e si diffonde nelle diverse parti del corpo sociale, le quali dopo aver rivendicato la propria auto­nomia, divengono la causa determinante di qualunque impulso e di qualunque iniziativa.

La compagine primitiva onde i molteplici elementi della convivenza trovavansi, per vincolo esterno di coesione legati nell'unità di una forza e di una volontà comune, si rompe; ma si creano invece, con lento e graduale lavorio di spontanea cooperazione, dei legami intimi tra gli elementi più prossimi e più affini che si trovano in contatto, da costituire il primo tessuto cellulare, da cui dee sorgere in seguito la formazione dei vari ed effettivi organi del corpo sociale.

S'invertono quindi le veci: allo Stato onnipotente nel cui seno trovavasi involuto ed annullato l'individuo si contrappone l'individuo onnipotente che, detronizzando lo Stato, si colloca al suo posto, ne riveste tutte le prerogative ed esercita tutte le funzioni.

L'unità del potere centrale dispotico ed esorbitante si risolve nella immensa varietà del potere individuale non meno dispotico ed esorbitante; l'autorità cede il luogo alla libertà. E tutto quel che prima veniva compiuto per necessità di comando, si compie ora per libertà di elezione.

Allo Stato non restano altre funzioni da esercitare che quelle soltanto che gli vengono affidate dall'arbitrio degli individui, funzioni meramente negative le quali si riducono alla semplice tutela del diritto, quand'anche non sono gl'individui che provvedono direttamente loro alla difesa dei propri diritti, come nel Medioevo, epoca burrascosa in cui la sovranità dello Stato venne ridotta completamente a zero.
Dallo svolgersi realmente e praticamente di tali rapporti nella vita trasformata dello Stato trasse origine una teoria corrispondente in perfetta antitesi a quella dello Stato antico, la quale fece dello Stato una mutua associazione di diritti e d'interessi legati insieme dalla libertà dell'arbitrio.

E lo Stato apparve fondato sul contratto di diritto nell'ordine giuridico, sul contratto di scambio nell'ordine economico, contratto in ambi i casi di cui gl'individui, com'erano stati liberi nel determinarne le clausole fondamentali, dovevano reputarsi parimenti liberi nel modificarle alla loro realtà.
Teoria questa non ancora bandita dal campo della scienza e della pratica; la quale compendiandosi nella famosa massima: lasciate fare, lasciate passare, ha finito, quando si vollero trarre le ultime conseguenze, col lasciar passare l'arbitrio, l'ignoranza, l'immoralità e la miseria.

Sotto l'impero di tale teoria tocca allo Stato lo sterile ufficio di rimanere spettatore freddo ed impotente nella lotta spietata ed in uguale di tanti interessi e di tante pretensioni, la quale risolvendosi inevitabilmente colla sconfitta dei deboli, lascia i forti vincitori non pure arbitri dei loro debellati rivali, ma arbitri altresì dei poteri e delle sorti dello Stato medesimo, non potendo questo vietare che si organizzi, sotto i suoi occhi e suo malgrado, la resistenza legale contro gli atti più elementari della sovranità, il cui esercizio desta sospetti e diffidenze inaudite.

Le due fasi percorse sinora dallo Stato nell'esercizio delle sue funzioni in rapporto all'individuo non sono che due fasi storiche di preparazione e di avviamento di un assetto più normale e più adatto alle trasformate condizioni della vita sociale, di cui i primi elementi, imposti dalla necessità stessa delle cose a misura che si annunziano nella pratica, vengono raccolti ed elevati a sistema dalla nuova scienza sociale che è ancora in via di formazione.

Uno alla volta si sono affermati fin oggi, nel corso dei secoli, tutti e due gli elementi costitutivi della vita sociale, l'individuo e lo Stato: ma la coesistenza simultanea di entrambi come termini necessari nei quali s'integra l'essenza dell'uomo reale, non ha trovato ancora le condizioni favorevoli d'adattamento.

Onde l'affermazione dell'uno ha portato con sé la negazione recisa dell'altro di questi due elementi.

Da capo il processo storico però, non essendo arbitrario, ma essenzialmente fondato sulla necessità inesorabile delle cose non potea svolgersi altrimenti.

Nel primo periodo era la forza soltanto che, di fronte al pericolo di una catastrofe comune nella battaglia per la vita con forze rivali, potea determinare la coesistenza e la cooperazione obbligatoria di tanti elementi omogenei e perciò ribelli, autonomi, incoerenti, sdegnosi così d'imperio come di servitù.

La forza però, imponendo coattivamente i primi vincoli sociali, servì a determinare la formazione di legami più intimi e più caldi fra quegli stessi elementi che sotto l'azione della necessità si trovarono costretti a vivere insieme a misura che, cessando l'imperio della necessità, trovarono nella convivenza comune, in seguito alle felici esperienze fatte, il mezzo più adatto per conservarsi e progredire.

Fu perciò che nel secondo periodo la cooperazione volontaria potè prendere il luogo della cooperazione forzata, elaborando così isolatamente gli organi rudimentali di una vita più alta e più completa.

Nel primo periodo si affermò l'autorità dello Stato, nel secondo la libertà degl'individui, il primo imponendo l'associazione forzata, per vincolo esteriore di coesione, servì di punto necessario di passaggio perché nel secondo periodo potesse, per vincolo più intimo di elezione, generarsi la possibilità di una associazione libera la quale avendo provato, per lunga esperienza, i vantaggi della convivenza sociale, si sentisse poi liberamente disposta a mantenerla e svolgerla con gara feconda di volontà e di azioni coordinate nelle serie progressive dell'evoluzione.

Però come avviene in tutte le cose l'azione esorbitante ed onnipotente dello Stato nel primo periodo, per cui venne ridotto a nulla il valore dell'individuo, fu causa di una reazione non meno esorbitante ed onnipotente per parte dell'individuo, onde nel secondo periodo venne ridotta alla più completa impotenza, dopo dispendiose lotte secolari, la forza dello Stato.

Ma finalmente quando cominciaronsi ad avvertire i pericoli opposti derivanti da un esagerato individualismo, sorse col bisogno, il desiderio di fare appello nuovamente allo Stato per temperare, colla sua azione moderatrice ed imparziale, l'azione interessata ed egoistica dei privati.

Si delinea così la terza fase di evoluzione nei rapporti dell'individuo collo Stato; ma di essa si annunziano appena i primi segni, con progressivo movimento, nell'ultimo mezzo secolo. E già si aprono gli animi alla speranza di veder cessata una lotta secolare, che ha consumate molte forze, fra due elementi che dovrebbero vivere in pace ed in armonia fra di loro.
La coesistenza armonica dell'individuo e dello Stato in cui, senza negarsi il valore e la libera iniziativa dell'uno, possa esercitarsi provvidamente l'azione moderatrice, integratrice e civilizzatrice dell'altro costituisce il carattere differenziale della nuova fase nei rapporti tra l'individuo e lo Stato.

Elementi entrambi nei quali si reintegra mirabilmente l'essenza completa dell'umanità, l'individuo e lo Stato hanno già acquistato irrevocabilmente, nella lotta dei secoli, il diritto alla vita: bisogna che trovino ora il modo di poter vivere armonicamente.

La soluzione di questo problema però si connette nuovamente alla soluzione di un problema ancora più arduo, la questione sociale, che è chiamata quando si sarà costituita, nelle sue basi, a risolvere la nuova scienza sociale.

Enrico Cimbali

  

Ricordi di Roma, Enrico Cimbali (1885)

Un ritratto a tutto tondo di Enrico Cimbali fatto un anno prima della sua morte dal giornalista Mira Fiorenza Giuseppe. E’ stato pubblicato dalla Gazzetta del Popolo (Giornale politico bisettimanale, anno III, n. 4, Catania 15 Gennaio 1886):

Enrico Cimbali, di Natale Attanasio«Io conoscevo il Prof. Cimbali da Catania, quando ancora gio­vanetto Egli faceva il suo corso univer­sitario. Ma non ebbi mai occasione di parlargli; soltanto, quando mi trovavo in biblio­te­ca, io il vedeva occupato in mezzo ai sa­pien­ti libri dell'an­tichi­tà e dal suo parlare e dal suo sguar­do penetrante, ben si poteva pre­vedere che uomo doveva diven­tare quel giova­netto.

Mancante di amici e di relazioni, stordito dal possente umore di quest'alma Città, mi avvicinai al signor Cimbali. Egli mi rico­nobbe per suo concittadino ed è così che ho po­tuto ammi­ra­re e confessare nell'animo mio la meritata fama che si è acqui­stata nella scienza e nel foro.

Figuratevi un uomo che non ha ancora trent'anni, robusto, dal­la fronte spaziosa, dall'occhio nerissimo e vivace, dai forti linea­menti, direi quasi ruvidi, tutto fuoco, tutto nervi, tutto vigo­re. Che dirvi dell'ingegno e della sua dottrina? Ma, Enrico Cimbali non è solo un dotto professore che inse­gna dalla cattedra, Egli insegna dal suo gabinetto coi suoi libri; è il pensatore profondo, è lo scrittore originale che vuol dare nuovo impulso alle leggi sociali, poichè «la società pre­sente, Egli dice, ha nuovi bisogni, e però nuove leggi deb­bono governarla.»

E questo Egli ha fatto colle sue opere: «Lo stu­dio del Diritto Civile negli stati moderni» - «La nuova fase del Diritto Civile» ed altre molte che io non rammento, tutte am­mirate, studiate e discusse dai migliori giuristi italiani e stranieri. L'ingegno di questo scienziato é multiforme: lo trovate anali­tico, sintetico, astratto, sperimentale. In Lui è mara­vigliosa la rapidità del pensiero; la parola è vibrata, è ner­vosa, insi­nuan­te, persuasiva.

Ed é curioso - Egli, avvocato, alla cattedra si trasforma; le sue lezioni scorrono limpide, chiare, precise; pare di sentire un professore di matema­tica, tanto é misurato e circo­spetto. Nel foro invece trovate l'oratore al quale nulla manca per affascinare anche i più grandi magistrati. La ragione che mette il Prof. Cimbali nelle cause è qualche cosa di commovente. Pare che difenda se stesso; il diritto conculcato gli dà una forza e un calore insupe­rabili. I dolori, le ansie i disinganni sono da Lui sentiti più che dai suoi clienti. Ecco l'uomo di cuore - E cuore, e ingegno - senti­mento e dottrina, fanno del Professore Cimbali, non un uomo, ma un principio, Virtù e sapere.
Che dirvi poi della sua straordinaria attività? Egli non ha un momento di riposo: nuota in un pelago di affari. Consigliere di codesta provincia, avvocato e profes­sore, presta l’opera sua indefessa alla Provincia, difende le sue cause e detta le sue lezioni.
E ciò non basta. Quando annotta e si dovrebbe riposare, eccolo nella solitudine del suo gabi­netto, a meditare le importanti pubblicazioni che dà succes­sivamente alla scienza. In altre parole il Prof. Cimbali è l'incarnazione del pensiero e dell'azione. » […]

Roma 10 Dicembre 1885
Mira Fiorenza Giuseppe

Nella foto sopra a destra Enrico Cimbali in un quadro di Natale Attanasio; il dipinto si con­ser­va a Bronte nei locali del Circolo di Cultura a lui intitolato e venne com­missionato al pittore dallo stesso Cimbali.
 


Luigi Natoli ricorda E. Cimbali (1910)

«Per una gloria nostra

Io amo Giuseppe Cimbali, oltre che per il suo ingegno e per la sua cultura e per la bontà dell'animo, anche pel suo ardore di fede e per la sua tenacia nel sostenere difendere, far trionfare una nobile idea, ma più ancora per la venerazione che egli ha verso la memoria del suo grande fratello Enrico, del quale non soltanto ha curato nuove edizioni di opere che hanno meritata fama, e raccolto gli scritti sparsi; ma ha cer­cato di ravvivarne la memoria (non spenta in verità nè oscu­rabile), e celebrarne, dopo quasi un trentennio della morte, la gloria.

Ed è veramente pia e commovente questa testi­mo­nianza di riverenza e di affetto fraterno vivi, oltre la tomba; resi anzi più vivi da una ammirazione che il tempo non ha affievolito, Ammi­razione di studioso verso un grande; nella quale nessuno oserà dire che l'entusiasmo del sangue prenda la mano e offuschi la chiara e obbiettiva valutazione del merito: chè Enrico Cimbali nel breve corso della sua vita, spentasi repentinamente nel suo più bello e promettente fiorire, seppe affermare la potenza e l'originalità del suo ingegno, e conqui­starsi nel campo degli studi giuridici quel posto al quale molti pur illustri non son pervenuti che dopo lunga e laboriosa vita scientifica.

Se fosse il caso di comporre epigrammi si potrebbe modi­ficare la sentenza dell’antico poeta greco, che muor giovane chi è caro agli dei. Enrico Cimbali mori giovane perché destò invidia agli dei. Egli in verità appariva come uno di quei rari spiriti pre­destinati a rapire una favilla al sole per animare la creta mortale. Giovane pianta, gittava già grande ombra, che parea dovesse oscurare molte luci.

Spirito irrequieto e novatore, era sorto sui campi della scienza del diritto, con l'impeto di un rivoluzio­nario, l'auda­cia di un conquistatore, la volontà di un dominatore. Aveva la piena coscienza della sua forza, e una gran­dissima, fede nell’avvenire. Sentiva di avere in pugno il destino; e la morte gli era alle calcagna, inesorabile. Quante speranze uccise in un attimo quel 25 giugno del 1887, alla vigilia del primo trionfo politico, che doveva schiu­dere a Enrico Cimbali l'ascensione al dominio!...

A ventisette anni, con la sua opera La Nuova fase del Diritto Civile, aveva affermato la sua personalità nella scienza, e destata ammirazione in Europa e in America: a trent'uno si apparecchiava a entrare nel Parlamento per imporvi le sue idee rinnovatrici. La morte glielo vietò. (...) Io sono ignorantissimo di scienze giuridiche, e non posso, ne sarebbe poi il luogo e l’occasione per esa­minare l’opera di Enrico Cimbali, e giudicarne l’im­portanza e l'originalità. Altri, competentissimi l’ha fatto, altri ha, con autorità incon­te­stabile dato il suo giudizio.

Questi uomini si chiamano Pasquale Stanislao Mancini, Lui­gi Landolfi, Enrico Pessina, Antonio Labriola, Fran­cesco Schupfer, G. Carnazza-Amari, Oronzo Quarta, Pietro Nocito, Enrico Ferri, Pietro Cogliolo, Giuseppe Carle, Guido Fusi­nato, Vittorio Emanuele Orlando, G. F. Gabba, Angelo Majo­ra­na, Vittorio Scialoja, Matti­rollo, Barillari, si chiamano Worms, Costejon, Carvalho, Sanchez-Roman, Esteban-Gar­cia, Comas, ed altri ed altri ancora. E tutti convengono nell’affermare che Enrico Cimbali aveva pel primo fatto penetrare «nel meccanismo interno del Diritto Civile» (cito le parole di un professore dell’Università di Recife nel Brasile) «rutilante e feconda la luce delle nuove idee».

(…) …è detto che sulla sua tomba sarà scolpito un leone dormente. No: non mi sembra che il simbolo risponda. Poichè la scultura non può effigiare il vanir di una nave, io imma­ginerei il monumento a Enrico Cimbali, molto più sem­plice. Una lastra marmorea col solo nome, e sotto incisa la terzina dantesca:

E legno vidi già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine all’entrar della foce.»

[Luigi Natoli]
(Giornale di Sicilia, 1-2 Giugno 1910)


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