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Il 1943  di Nicola Lupo

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Il mio 1943

di Nicola Lupo

Premessa - La guerra - I bombardamenti - Mio padre Antonino Gaetano - La deportazione - Le lettere
Il rilascio - Il rettore Mariano Russo - Il testamento


La deportazione

Mio padre era una persona leale, pertanto, iscrittosi al Fascio, si comportò lealmente, ma il Segretario dell’epoca un po’ per diffidenza, (infatti aveva aperto un fascicolo intestato a Gaetano Lupo, maestro elementare di non provata fede fascista,) gli aveva fatto sottoscrivere la domanda di volontario milite, lo costrinse a entrare nel Direttorio del Fascio e, un po’ perché mio padre sapeva scrivere e parlare, lo destinò alla propaganda come commentatore delle “veline” che arrivavano dalla Federazione e che dovevano essere ampliate e portate a conoscenza del pubblico nelle adunate del “sabato fascista” che si tenevano al teatro Comunale.

Questa sua attività politica settimanale forse lo rese inviso agli antifascisti più di quelli che lavoravano sotto sotto e gli valse nel ’43 la denunzia e la deportazione in campo di concentramento. Quanto ho esposto sull’attività politica di mio padre, allora lo scrissi in una lettera indirizzata all’Autorità politico-militare che conse­gnai direttamente all’ufficio competente che a Catania aveva la sede proprio dove fino a pochi giorni prima c’era la Federazione del Fascio, in piazza Duomo, dopo averla fatta leggere all’Avv. Luigi Castiglione, bronte­se, socialista, principe del Foro di Catania e al Sac. Vincenzo Schilirò, già Professore al Collegio Capizzi e amico da lungo tempo di mio padre che faceva parte della Filodrammatica del Collegio.

Entrambi questi signori, che non erano fascisti e conoscevano intimamente l’animo di mio padre, letta la mia lettera, dissero che quanto scritto corrispondeva a verità e mi auguravano che potesse convincere le auto­rità militari a liberare il prigioniero.

Padre Schilirò mi diede la sua ultima pubblicazione “Il fondatore della Compagnia di Gesù” con questa dedica anonima e senza data: “A conforto cristiano dall’Autore”, che portai a mio padre e che conservo ancora.

Quel viaggio a Catania lo feci accompagnato in moto da Zino Bruno, il più piccolo dei figli del mio padrino di bat­tesimo Salvatore, e prendemmo tanta pioggia che ci costrinse a fermarci a Paternò, dove abitava sua sorella Albina, che da ragazza chiamavamo la “Venere di Milo” per il suo lieve strabismo che la rendeva così dolce.

Quella lettera non ebbe nessun esito ed io continuai le mie ricerche.

In quei giorni io comprai una bicicletta per potere andare in cerca di mio padre. La prima spedizione la fece mio fratello Elio col figlio di Sanfilippo, Angelo, e il sac. Meli; il viaggio fu avventuroso, e commovente l’incontro con papà.

La seconda volta andai io con Elio e Luigi Salanitri, cognato del Sanfilippo, e dormimmo nella sagrestia della chiesa di Priolo, ospiti del Parroco.


Le lettere

La prima lettera fu di mio padre e diceva:

“Priolo (SR) Campo di concentramento N. 369 addì 18/8/1943 - Carissimi, siamo qui tutti i sottoscritti. Il presente deve essere girato a tutte le famiglie. Stiamo tutti benissimo fisicamente e molto più moral­mente. Nel campo siamo tanti militari e civili, il trattamento è buono e il vitto sufficiente. Ci sosten­gono e ci accompagnano le vostre preghiere che unite alle nostre ci daranno tutta la forza per riabbrac­ciarvi presto. Tanti cari baci
Gaetano Lupo (Maestro elementare, milite e addetto alla propaganda)
Francesco Sanfilippo (Maestro, Avv., Ten. della Milizia, Presidente dell’ O.N. B. ed ex Podestà)
Placido Faranda (Funzionario Cassa Mutua di Bronte)
Antonino Liuzzo (Impiegato comunale o esattoriale)
Vincenzo Battiato (Maestro e membro del direttorio del Fascio di Bronte)
Attilio Longhitano (Uff. Postale, Segretario del P.N.F. detto “Gerarca”)
Nunzio Saitta (Economo del Comune)
Salvatore Battiato (Barbiere - edicolante, padre di Vincenzo)
Alfio Nicolosi (Dott. Agronomo)
Ignazio Liuzzo (Avvocato, cognato del Longhitano)
Gabriele Liuzzo (Imprenditore e padre di Ignazio)
Salvatore Cicirò (Milite e messo dell’esattoria comunale)
Nunzio Cesare (Avvocato e Segretario del Sindacato fascista)
Nicolò Pernicone (Macellaio)

Seguono tutte le firme; le attività e le qualifiche sono state aggiunte da me.

Priolo era una località vicino Augusta distante da Bronte circa 120 Km. ma oltre la distanza e il dissesto delle strade, c’era la proibizione di allontanarsi oltre 10 Km. dalla propria residenza, per il cui rispetto c’erano posti di blocco in cui eri fermato e, se non in regola, spedito in campo di concentramento. Perciò bisognava fare attenzione ed evitare i posti di blocco con frequenti cambiamenti d’itinerario per i campi e con la bici­cletta in spalla.

 
Luigi Castiglione, avvocato e deputato brontese

L'avv. Luigi Castiglione, acutissimo avvocato del Foro di Catania di cui fu principe a tutti gli effetti, fu il quarto deputato brontese a sedere fra i banchi di Montecitorio.

Vincenzo Schilirò
Vincenzo Schilirò, (7.1.1883 – Catania 3.7.1950) sacerdote, pro­fessore, fu una singo­lare figura di sociologo, critico, letterato e poeta

Francesco Sanfilippo
L'avv. Francesco San­filippo, Tenente della Mili­zia, Presidente dell’ O.N. B. ed ex Podestà.

Di quei viaggi ne feci parecchi anche da solo; una volta Elio, andando verso la Chiesa si sentì chiamare: “Elio Lupo, che ci fai qui?”; era un suo compagno di Liceo, Enrico Bordieri, che volle condurlo a casa sua: il padre, caposta­zione del paese, molto solidale assieme alla moglie, da allora ci ospitò, offrendoci vitto e alloggio che in quei frangenti erano eccezionali.

Il signor Bordieri voleva che papà si rifugiasse a casa sua dove era anche il Comando inglese, per cui nessuno lo avrebbe cercato proprio lì, ma papà non accettò perché temeva un nostro arresto. Quella gente squisita fa parte di quel lungo elenco di persone a cui sono grato per il bene che, in situazioni e tempi diversi, mi hanno fatto.

Il breve incontro con mio padre, sempre in vista di una sentinella armata, era sempre di una commozione contenuta da entrambi; si parlava della famiglia e della situazione, mentre io mettevo mio padre al corrente dei passi che anda­vo facendo per farlo liberare.

Quando seppi che Nunzio Saitta era scappato, andando a rifugiarsi alla Placa, nelle masserie di Lombardo e di Padre Schilirò, gli proposi di fare altrettanto, magari sostituendomi a lui, ma egli non ne volle sapere: “Ne andrebbe della mia dignità!” rispose. Da mio padre, oltre la prima lettera del 18.8.43, riportata, ne avemmo altre due, delle quali voglio riportare alcuni brani.

“Priolo campo di concentramento N. 369 addì 26.8.1943
Carissimi […] Sono rassegnato al mio tristissimo destino e non ho nel mio cuore il minimo rancore verso coloro che mi hanno relegato qui […] nelle mie preghiere […] prego per i miei accusatori. […] Inutile dirvi ciò che ho visto. Non sappiamo se ci fermeremo in questo campo dove siamo circa 6600 tra civili e militari. […] Se Nicola si sente di fare 150 Km. potrebbe venire in bicicletta, ma se non se la sente potreb­be provarci Elio. Avrei bisogno di soldi, biancheria, un cappotto vecchio, un materasso e un cuscino vuoti, ago, filo, forbicine, coltello e qualche libro. Baciate per me mio padre, mio fratello e le mie sorelle. […]
Vostro Tano.”

“Priolo (Siracusa) ore 14 del 25.9.1943 Campo di concentramento n.222 (era lo stesso campo 369, indicato anche col numero 222 del casello ferroviario che si trovava accanto.)
Miei cari, l’amarezza più rivoltante trabocca da più giorni da tutto il mio essere, anima e corpo. […] La mira è una sola: ridurre a brandelli l’ anima nostra prima del nostro corpo. […] Questo è lo scopo di questi campi dove lo zelo di chi senza coscienza ci diede in pasto al più civile popolo d’ Europa.

Da quarantatre giorni cerco di sopportare le sofferenze fisiche con una forza che non mi riconosco. […] quello che all’anima qui vien dato di amaro e di orribile, deprime, scoraggia, abbandona e uccide. […] Ci si astrae spessissimo da tutto e da tutti e ci si sorprende alle volte di sentirsi soli e lontani da questa ciurma che si agita, bestemmia, si sollazza, urla, ride e si pasce come un branco di pecore immonde. […] La mia sofferenza maggiore è dell’ anima e nell’ anima. […]
Ho creduto tanto nell’ amicizia. […] 43 giorni di campo […] mi hanno insegnato più di 50 anni di ama­rezze e disillusioni. […] La mia natura amica e aperta, il mio spirito chiaro e comunicativo, le mie ten­denze altruistiche e disinteressate mi davano il diritto di attendermi in questa mia triste contin­genza, quel conforto che io sempre ho profuso a quanti fra i miei amici hanno sofferto nell’anima e nel corpo.

Mi attendevo solidarietà. […] Dal di fuori non ho avuto un gesto di solidarietà, di fraternità, di genti­lezza. […] Perché questa ingratitudine? Per viltà e per egoismo. […] Avrei potuto e dovu­to sperare un minimo di solidarietà, di sollievo e di attenzione dai miei compagni di sventura. Macchè! […] Credo di avere il giusto concetto dell’ amicizia. Non esagero affer­man­do di non avere qui nessun amico. […] mi ero illuso, nei primi giorni di questa bestiale vita di recluso, di potere almeno contare su di una solidarietà interessata da parte di chi (Attilio Lon­ghitano?) avevo prescelto a starmi vicino nella tem­pesta perché lo ritenevo unico respon­sabile di questo mio naufragio. […]
Qui tutto ci è ostile. Più aumenta il numero degli internati, più aumenta la nostra solitudine. E’ una folla eterogenea e bestiale che […] ti si rivela subito, al primo superficiale esame, nella sua essenza morale, materiale e intellettuale. E’ gente vile che rinnega il suo passato, che tradisce ogni suo senti­mento, che degrada la sua dignità di uomo e di cittadino. E’ gente sozza che nasconde il suo passato e si veste della tunica della vittima. E’ gente priva di ogni sensibilità morale e umana, che non pensa che a se stessa e al proprio tornaconto. […]
Qui l’egoismo è brutalità, animalità, vigliaccheria, saccenteria, schifezza e degenerazione. […] Ma quando questa manifestazione di egoismo animalesco e brutale tu lo constati in coloro che fino a ieri hai onorato del tuo rispetto e ingrandito del tuo affetto, allora, solo allora, un disgusto amarissimo ti assale […] e un senso di annientamento fisico e spirituale ti inonda tutto fino a farti desiderare la morte e la fine. […] Ma a nessuno manifesto il mio disgusto. Ecco perché ho voluto sfogarmi con voi e vi prego di intendermi e compatirmi se vi amareggio.
Conservate questa mia che, se un giorno piacerà a Dio, vi deluciderò a viva voce facendovi allibire. […] Nessuno, credetemi, merita la più piccola delle nostre finezze, che non compren­de, non valuta e non ricambia. Il mio bacio affettuoso a tutti vostro Tano.
27 Settembre. Non siete venuti. Ne soffro e quasi ne godo perché più di me aspettano gli altri. Penso che se Nicola a Catania non ha fatto nulla di quanto mi aveva accennato, sia meglio non tentare di più. Tanto non si otterrebbe nulla, perché son convinto che nulla cambierà questa mia sventura.
Papà.”

Il prof. Nicola Lupo (primo a sinistra) con il dr. Malgioglio, il padre Antonino ed Edoardo Cannata


 

1933, Maletto: il maestro Antonino Gaetano Lupo con una sua classe


Il rilascio

Dai nostri amici di Priolo avevo sentito che l’Arcivescovo di Siracusa si interessava attivamente dei problemi di alcuni prigionieri e ne parlai con mia madre perché presto se ne presentò l’ occasione. Mio padre si era ammalato e lo avevano trasferito all’Ospedale del capoluogo e, poiché si era ripristinato il servizio ferroviario per i civili, sia sulla Circumetnea che sulle Ferrovie dello Stato, decisi di andare a Siracusa con mia madre, per visitare mio padre e cercare di farlo liberare per poterlo curare meglio in casa.

Mio fratello Nino, alla nomina di Sottotenente, nel 1939, era stato mandato alla Capitaneria di Siracusa, dove aveva conosciuto i fratelli Guido che avevano una salumeria in Via Maestranze, ed era diventato amico di tutta la famiglia. Poi era stato trasferito a Fiume, ma aveva mantenuto i contatti con i suoi amici siracusani i quali avevano conosciuto anche me e mio padre in occasione di una nostra visita a mio fratello.

Pertanto ci fu naturale rivolgerci a loro in quella triste occasione ed essi non solo si prodigarono con la loro affettuosa ospitalità e procurandoci i medicinali necessari per mio padre, che dovevamo acquistare noi, perché l’ospedale ne era sprovvisto, ma si dettero da fare per farci ricevere dal Vescovo in cui mia madre aveva riposto tanto fiduciosa speranza.

Fu una delusione: avemmo una accoglienza fredda e distaccata, e quando mia madre lo implorò dicendo che temeva per la salute del marito, il buon porporato le rispose: “Non tema, signora, suo marito non morirà,” e congedandoci con un vago segno di croce, fu come se avesse pronunziato una condanna.

Per non abusare dell’ospitalità degli amici Guido, che però ci volevano sempre a pranzo, dietro loro indicazione ci sistemammo in una pensioncina che incombeva su una stradetta che costeggiava il mare, la cui vista si godeva dalla nostra camera, mitigando l’ angoscia che pesava su di noi. Io, dopo la delusione arcivescovile, cercai di affrontare direttamente il nemico: nel primo ufficio che mi fu indicato trovai un soldato inglese che parlava benissimo l’italiano, il che mi fece subito sperare bene; ma quando esposi la situazione di mio padre della cui malattia non avevano saputo dare neppure la diagnosi, il gelido “albione”, senza neppure prendersi la briga di telefonare all’ospedale, mi rispose: “Un’ altra volta prima di venire qui inventi un’altra favola!” In quel momento, se avessi avuto una pistola, gli avrei sparato in fronte; e questo sentimento, per fortuna, non mi è mai più balenato in mente.

Malgrado questa esperienza, chiesi a quale altro ufficio potessi rivolgermi e, avuta l’indicazione, vi andai e, quasi miracolosamente, trovai un interlocutore completamente diverso dal precedente: mi fece accomodare, mentre l’altro riceveva tutti in piedi stando dietro un ban­cone, mi ascoltò con interesse e, poi, chiedendomi scusa, telefonò al Direttore dell’Ospedale, che era un ufficiale medico italiano, preci­samente di Biancavilla (CT), e, sentito che la mia esposizione era stata veritiera, mi congedò, accompagnandomi alla porta e dicen­domi: “Domani, vada in Ospedale e spero che suo padre possa uscire.” Avrei voluto abbracciarlo!

L’ indomani ci precipitammo all’Ospedale dove aspettammo parecchio la notizia del rilascio di mio padre, dato per spacciato dai sanitari, ma che sarebbe stato accompagnato da un militare. Finalmente sapemmo che detto militare sarebbe stato il Direttore stesso. Il quale, però, se la prese comoda e quando finalmente l’autoambulanza fu pronta con mio padre quasi moribondo ed io e mia madre che lo assistevamo, lui davanti con l’autista, passò da un suo amico a ritirare un bidone d’olio e poi quasi a mezzogiorno partimmo per Bronte, dove avremmo potuto arrivare al più tardi alle 14.
Ma con nostra grande e amara sorpresa a Catania entrammo in città e ci fermammo davanti al portone di un palazzo di recente costru­zione e su una targa leggemmo: “Dott. Prof. Luigi Condorelli.” Per un po’ ci illudemmo che il premuroso accompagnatore fosse andato a chiedere consiglio al famoso clinico riguardo la malattia di mio padre e ci aspettavamo che da un momento all’altro i due medici scen­des­sero per vedere il malato; invece, dopo una mezz’ora ci decidemmo a chiedere spiegazione all’autista il quale, quasi vergognan­dosi, ci informò che lì abitava la famiglia del Direttore che aveva approfittato del viaggio di servizio per salutare i suoi e, data l’ora, per pranzare. Mentre un malato grave e due familiari in angoscia attendevano i suoi comodi.

Dopo un paio d’ore, forse il direttore s’era fatto anche un pisolino con la moglie, ripartimmo senza avere sentito una parola di scuse del nostro alto accompagnatore; ma le fermate non erano ancora finite: ce ne fu una terza a Biancavilla, suo paese d’origine, dove vive­va­no i suoi parenti ai quali lasciò l’olio che aveva caricato a Priolo, perdendo altro tempo prezioso e sempre senza darci spie­gazioni. Arrivam­mo a Bronte col buio: era il 2 dicembre, 50° compleanno di mio padre; bel compleanno!

Ripartiti gli accompagnatori con i nostri più formali ringraziamenti, cercammo il Dott. Biagio Pecorino, nostro caro amico, che era tornato proprio in quei giorni dal servizio militare; egli visitò mio padre e diagnosticò subito edema intestinale inoperabile per sopravvenuta setticemia; quindi mi mandò all’ospedale per chiedere all’infer­miere capo di venire con un sulfamidico e la soluzione per praticargli una flebo.

Il premuroso infermiere si mise subito a nostra disposizione, ma ci disse che in ospedale non c’era nessun sulfamidico e neppure la soluzione per la flebo.

Quindi l’indomani col primo treno andai a Catania per procurarmi quanto occorreva per tentare di salvare mio padre, cosa che non avevano fatto all’ospedale di Siracusa. Trovai il tutto tramite un medico ospedaliero che abitava accanto alla Pensione Abete che io frequentavo dal secondo anno d’Università, ma solo per un giorno, pagando un certo prezzo e portando un pane casereccio, che allora era come l’oro.

Quindi per diversi giorni dovetti ritornare a Catania per avere la dose giornaliera della cura che purtroppo non sortì esito positivo. Infatti la sera dell’11 dicembre, assistito dal dott. Guglielmo Grisley, altro caro amico, e dal sac. Meli, mio padre spirava fra le braccia di mia madre e circondato da quattro dei sei figli e da tanti parenti.


Il rettore Mariano Russo

In quel periodo un nostro buon amico, il dott. Francesco Malgioglio, di sua iniziativa e a nostra insaputa, aveva pregato il Rettore del Capizzi di riassumermi, ma senza alcun esito; quindi per provvedere alle necessità di una famiglia di cinque persone, mi dedicai completamente alla direzione del nostro oleificio, agevolato dagli altri soci con cui mi alternavo nel lavoro che durava per tutte le 24 ore della giornata.

Non ho mai espresso un giudizio sul Prof. Sac. Mariano Russo, perché sarebbe stato dato “ab irato“, ma dopo tanti anni voglio riportare quello di uno storico forestiero: il prof. Sac. Antonio Corsaro, il quale, nel volume “Il Real Collegio Capizzi“, edito da Maimone di Catania, 1994, a pag. 134 dice:

“A reggere il Collegio dal 1941 al 1946 fu chiamato il sacerdote professore Mariano Russo, che risiedeva e insegnava a Catania nelle scuole dello Stato. I convittori non erano più di trenta. Infuriava la seconda guerra mondiale e l’autorità militare italiana requisiva l’Istituto per ospitarvi l’ospedale militare n. 2 di Palermo.

La presenza discontinua del rettore danneggiava il buon andamento dell’attività scolastica che venne affidata ad un sostituto di fiducia. (Chi era? non è da storico lasciare una notizia indefinita e senza fare quel nome!)

Si pensò nello stesso tempo di eleggere come vice rettore il sacerdote Giuseppe Calanna, che volle come ministro della disciplina il sacerdote Giuseppe Zingale e come economo il sacerdote Salvatore Politi.

Biagio Pecorino
Biagio Pecorino

Il sac. Mariano Rus­so, nato a Bron­te il 12 Feb­braio 1882, morì a 74 anni il 15 Giu­gno 1956. Lau­rea­to in let­tere e vinto il con­corso, inse­gnò nelle Scuo­le elemen­tari di Bron­te; ogni mat­ti­na ce­le­bra­va la sua Mes­sa nel­la Chiesa Ma­dre. Fu rettore del Real Col­legio Ca­piz­zi dal 1941 al 1946.

Il consiglio d’amministrazione invitò il Russo a stare in sede o dimettersi, ma senza esito immediato. Però in seguito offrì il rettorato allo Zingale che accettò con l’intenzione di cederlo al Calanna. Il 2 settembre 1946 venne composta una terna con Calanna, Politi e Zingale. Fu eletto a pieni voti il Calanna. L’arcivescovo di Catania, Carmelo Patanè, revocò la nomina dello Zingale che si dimise il 22 ottobre 1946, secondo la progettata intenzione nel momento di assumere la carica di rettore.”

Da quanto riportato sopra si deduce che il Russo, “parce sepolto!”, fu il peggiore dei rettori che hanno retto il Collegio Capizzi dalla sua fonda­zione ad oggi!
E mio fratello Elio mi ricorda: “il lunedì successivo alla morte di papà avrei iniziato il terzo liceo e l’unica parola umana e affet­tuo­sa l’ebbi dalla signorina Zuccarello, nostra professoressa di scienze” e “ Padre Russo pesò molto sulle decisioni del Comitato di Libera­zione.”

 

Prima di Natale morì anche mio nonno e quello fu il Natale più triste della mia vita: quattro posti vuoti a tavola: perché dei miei due fratelli militari non avevamo notizie!

Rileggendo le tre lettere di mio padre, citate, si capisce che egli, leale e fiducioso nell’amicizia, che sentiva come uno dei principi basilari del vivere civile, deluso per il fatto che non aveva trovato quella corrispondenza che si attendeva, forse si pentì di avere tradito la sua prima fede politica e vide, nella sua situazione ultima, come una condanna, e si abbattè al punto da non trovare più la forza di reagire al male che lo aveva colpito, e si lasciò morire, come aveva temuto e previsto nella sua lettera del 25 settembre 1943.


Il Testamento

Accludo, infine, il testamento che mio padre aveva lasciato nel luglio 1940, quando, essendo milite volontario (obbligato) fu richiamato e destinato a Santa Eufemia Lamezia, in Calabria.
Mio padre non aveva fatto il militare e tanto meno la guerra ‘15/’18 e non sapeva usare neppure la doppietta da caccia, quindi, a 46 anni, avrebbe potuto stare solo in fureria. Dopo alcuni mesi fu congedato, mi pare, perché aveva due figli sotto le armi. Forse tutti quei militi erano stati richiamati perché Mussolini aveva dichiarato che avrebbe schierato “otto milioni di baionette”.

“Bronte 2 luglio 1940 XVIII E.F.
Testamento spirituale
Figli miei,
sia fatta la Volontà di Dio. Egli Padrone di ogni nostro atto e della istessa vita nostra, dispone secondo i suoi SS imperscrutabili Fini. E' necessario quindi ed è doveroso da parte nostra, che in Lui crediamo e speriamo, rassegnarci a tutto quanto Egli desidera. E la guerra è un suo castigo. E se la morte dovesse troncare, durante questa guerra, la vita di vostro padre, ciò è perchè così ordina Dio.
Nè io nè tanto meno voi, dobbiamo attribuire quanto ci succede ad alcuno e serbare nel nostro animo l'ombra del rancore. Perdoniamo perchè Dio ci accolga sotto le ali del suo perdono. Per le mie condizioni fisiche avrei potuto, come altri, esimermi dal prestare servizio a questa età. Non lo faccio perchè in questo momento, in cui l'Italia marcia verso la Grandezza, ogni piccola defezione sarebbe delittuosa. Sono quindi fiero di essere anch'io, anche soffrendo, una molecola del grandioso Esercito.
Quanto Vi abbia amati tutti è superfluo documentarlo.
Voi solo lo sapete. Dio mi è testimonio che non ho nulla trascurato per farvi posto nella vita. E altro era il mio sogno!
Ma Dio non ha voluto che si realizzasse. Se alle due femminucce non ho voluto dare una istruzione superiore come ai maschi si è perchè ho ritenuto ciò più utile per loro. Non ho avuto preferenze per nessuno dei sei. Siete tutti uguali nelle mie cure e nei miei affetti. Anche tra di voi, Vi prego, di non avere nè predilezioni nè avversioni. Aiutatevi tutti come io tutti e sempre vi ho aiutati.
E tutti venerate sempre la mamma vostra che tutti vi ha creati, allevati e custoditi con affetto superiore alle sue possibilità. In Lei rispettate anche me perchè sapete e saprete quanto lei mi ha amato. […] Vi prego di usare con i miei Soci dell'Oleificio, senza trascurare i vostri interessi, quella finezza e quella illimitata fiducia che ho sempre loro usato.
Non ho nemici! Non odio nessuno! Non impreco contro alcuno. Se di me si è parlato male perdono tutti, ma sappiate che non si deve cercare il nemico molto lontano da noi. Dio perdoni tutti. Io non ho fatto male ad alcuno. Dio lo sa. Se ne ho fatto l'ho pagato e questa immatura morte ne sarà il più terribile castigo. E' logico che io ho scritto solamente per voi, figli miei. Vi benedico e vi ho sempre nel cuore, Vostro padre Tano
P.S. Se il mio cadavere si troverà e il Governo ne farà il trasporto desidero riposare in Bronte nella fossa che ho acquistato con il mio lavoro.”

Aperto e letto dal notaio Nunzio Azzia che piangeva come un bambino insieme ai testimoni Vincenzo Franchina e Nino Leanza (Scimuni). Come si evince da quest’ultimo documento, mio padre aveva già la premonizione della sua morte durante la guerra e per la guerra!

Concludendo: mio padre avrebbe diritto di figurare fra le vittime civili della dissennata e infausta guerra 1940/45; quindi, provveda chi di dovere! Anche perchè mia madre in seguito ottenne la pensione di guerra e i miei fratelli, Elio e Zina, allora minorenni, ebbero il riconoscimento della qualifica di orfani di guerra, di cui beneficiarono nei concorsi e quant'altro.

Bari, 31 marzo 2004

Nicola Lupo

 

 

       


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