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Lo «strano»

Diario di Sam

di Salvatore (Sam) Di Bella

Storie di vita, ricordi, curiosità, riflessioni, …di un giovane novantenne brontese


XXXVII - A Sassuolo

Quando fui chiamato alle armi (nel Febbraio del 1943), partimmo da Bronte in quattro: io, Nunzio, Peppino, e Gregorio.
A quei tempi a Bronte giocavo molto a poker con alcuni anziani soci del Circolo di Cultura e avevo vinto cosi tanto, da avere un portafogli gonfio di soldi e mentre eravamo alla stazione ferroviaria, pronti a partire, mio padre e mio fratello Nunzio, ignari delle mie vincite, mi davano ancora soldi. Eravamo diretti a Modena e Gregorio, vedendo quanta moneta avevo in portafogli mi chiedeva: “Ma chi ti ‘ndi sta’ jendu a ccattàri scecchi? (Ma che stai andando in fiera a comprare bestie da soma?)

Arrivati a Modena proposi di non presentarci per qualche giorno e spendere un po’ dei miei soldi in alberghi, ristoranti e luoghi di divertimento, cinema e altro… Ci siamo veramente divertiti fino a quando ci presentammo in caserma: fummo tutti consegnati e pare che al povero Gregorio sia toccato di sbucciare un’enorme quantità di patate.

Siamo stati assegnati alla caserma Maida di Sassuolo sotto un sergente siciliano cattivo fino all’inverosimile. In quella città avevo preso in affitto una camera presso una famiglia del luogo di cui faceva parte una ragazza che si chiamava Mafalda. Non era una grande bellezza, ma era piuttosto disponibile e alcuni di noi iniziammo appassionati rapporti amorosi con lei. Da parte mia, non riuscivo a sopportare quell’indemoniato sergente siciliano e, appena possibile, cambiai la compagnia arruolandomi in una nuova unità comandata da un eccellente ufficiale che da civile era stato professore e scriveva libri per bambini: un uomo dolcissimo.

In quel nuovo ambiente mi trovavo benissimo e quando nel battaglione si decise di mettere in scena una rivista teatrale centrata sulla canzone Polvere di stelle, suggerii di chiamarla Polvere di stellette, e partecipai alla stesura del copione includendo alcune battute di un mio paesano, fanatico militare che raccontava: “...eravamo in trincea contro gli austriaci quando mi sento toccare alle spalle. Mi giro ed era sua maestà Vittorio Emanuele III, re d’Italia e imperatore... Scatto sull’attenti e dico: Comandate, Maesta!!! E lui mi risponde: Abbassati Còsimo che ti vedono”.

Qualcuno dice: - Questa grossa è, Don Cosimo! Lui risponde: - Ah, non ci credete? Andate ad informarmi con la buonanima di mio compare don Gaetano che ha fatto il militare con me.

- Ma quello è morto!

- Arrangiatevi!!!

C’era un allievo napoletano che sembrava nato per il palcoscenico, sapeva recitare e raccontare le barzellette con una naturalezza incredibile. La rivista ebbe un grande successo. Fu inscenata anche a Modena alla presenza di pezzi grossi della gerarchie militari dell’epoca.

A Sassuolo, durante le mie libere uscite, constatai che, generalmente, gli abitanti del paese erano generosi e per bene ed ebbi occasione di conoscere ed allacciare tante buone amicizie.

Venerdì, 8 novembre 2013


XXXVIII - ‘U Bùmburu

Quando eravamo bambini, (io potevo avere otto anni e mio fratello Zino appena dieci), avevamo un amico di forse dodici anni che si chiamava Salvatore Androico il quale, all’uscita di scuola veniva nella bottega di falegname di mio fratello Nunzio per imparare il mestiere ma alla fine non faceva altro che giocare con noi.

Nella stessa bottega ci lavorava un uomo alto e magro a noi terribilmente antipatico. Se non ricordo male aveva un nome molto strano, forse Crocifisso o Cristoforo. Egli aveva un orcio biancastro che gli teneva l’acqua fresca e dal quale beveva facendo scorrere l’acqua attraverso un buchetto che aveva fatto nella parte alta del contenitore. Stava molto antipatico a noi bambini perchè non ci lasciava giocare, come noi avremmo voluto, con gli attrezzi da falegname e ci sgridava continuamente, a volte con parolacce, dicendoci di andare a casa ad infastidire le nostre mamme.

Un giorno, Salvatore ci suggerisce di fare la pipi nell’orcio del signor Crocifisso e noi lo abbiamo fatto per vendicarci dei maltrat­ta­menti che lui ci propinava ad ogni occasione. Quando Crocifisso andò a bere da quell’orcio ha cominciato a gridare: “Questi figli di buona donna, ci hanno messo il sale nel mio bùmburu.” Ricordo pure che Salvatore e mio fratello Zino, da bambini, erano molto crudeli. Avevano preso dalla trappola un piccolo topo e dopo averlo inchiodato su una tavoletta di legno gli facevano piccoli tagli con un coltellino e nelle ferite ci mettevano dello spirito. Io andai subito a raccontarlo a mia mamma e lei li ha sgridati.

Quanti ricordi mi vengono adesso in mente della mia fanciullezza… Forse avevo tre o quattro anni quando avevo scoperto che mia mamma teneva gli spiccioli nel cassetto del suo comodino. Io, quasi quotidianamente, prendevo un nichelino, con il quale andavo nella bottega della signora Sposato, vicinissima a casa mia, a comprarmi quattro belle caramelle che mangiavo prima di tornare a casa. A quei tempi è stato coniato il cinque lire di argento che aveva quasi la stessa misura e colore del nichelino.

Un giorno, invece del nichelino, presi una di queste nuove monete e andai dalla signora Sposato a comprare le caramelle. Mi chiese subito se mi avesse mandato la mamma. Dissi di si. Versò sul banco una montagna di caramelle e le mise in una grande busta di carta. Pensai che fosse diventata matta, ma presi le caramelle e tornai sotto casa mia, mangiandone quanto più potevo e nascondendo la busta ancora gonfia di caramelle in un buco del muro contro il quale misi un sasso. Fatto ciò, salii a casa come se niente fosse. Mia mamma era lì ad aspettarmi con una verga con cui picchiarmi e io piangendo andai a nascondermi dietro una cassapanca nella camera di mia sorella Rosa.

Lascialo stare, - diceva a mia mamma la zia monaca - è solo un bambino!” Ma mia mamma rispondeva: “Non è un bambino è un ladro e adesso quando vengono gli zingari, che sono ladri come lui, lo darò a loro...

Il mio pianto divenne inconsolabile: non volevo andare con gli zingari, ma da allora non andai più ad aprire il cassetto del comodino.

10/11/2013


XXXIX - Il tenente Santangela

Tra i tanti amici incontrati a Sassuolo ho avuto la fortuna di conoscere la famiglia Casali. Con me c’era pure il mio vecchio compagno d’armi Nunzio, anche lui un ex allievo ufficiale della caserma Maida.

Andavamo insieme nelle case di campagna di Sassuolo cercando qualche lavoro in cambio di cibo. Quando giungemmo alla grande cascina del signor Casali, un omone di due metri di altezza e del peso di molto più di un quintale, lui non solo ci fece mangiare del meglio che aveva, ma ci offerse di andare ad abitare lì da lui, non tanto per lavorare ma per fargli compagnia.

Amava ascoltare le nostre avventure e, credo, considerava noi due piccoli siciliani come degli alieni. Rideva molto delle mie barzellette e mi chiedeva nel suo forte dialetto emiliano: “Ti vo danar?” (hai bisogno di soldi?).

Io ero diventato piuttosto popolare nell’ambiente di Sassuolo e avevo tanti amici e amiche che mi compravano regali e cose da mangiare. Eravamo tantissimi gli ex allievi a Sassuolo ma un giorno venne fra noi quel tenente Santangela che comandava la mia compagnia a Fornacette e ci disse: “Ragazzi, i rastrellamenti fatti dai Tedeschi e dai fascisti cominciano a preoc­cupare. Forse è tempo per noi di andare sulle montagne e unirci ai partigiani.

“Va bene, - gli dissi- dato che tu ci hai comandato da militari, potrai comandarci pure come partigiani”.

 Notai tuttavia che l’avergli dato del tu, forse non gli è piaciuto molto. Alcune settimane dopo, le armate di Mussolini vennero davvero a Sassuolo a rastrellare i disertori e alcuni vennero alla cascina del Casali a cercare me. Eviden­temente qualcuno cui davo fastidio mi aveva denun­ziato.

Ero fuori di casa e a un certo punto incontro la nipote del Casali che mi dice piangendo che dei militari erano venuti a cercarmi e non trovandomi avevano portato via suo zio.

Mi feci prestare la sua bicicletta e andai alla caserma dei carabinieri di Sassuolo dove si erano insediati i militari. Mi presentai a un tenente che si chiamava Stanzani dicendogli: “Signor tenente, ho sentito che qualcuno dei vostri soldati mi cercava, io sono Salvatore Di Bella”.

Lui guarda in una lista e dice: “Si, qui mi risulta che tu sei un ex allievo ufficiale…

Mi son messo a ridere dicendo: “No, io ero solo il barbiere della seconda compagnia. Ma alle ragazze di Sassuolo ho raccontato sempre di essere un allievo, solo per darmi delle arie.

Il tenente l’aveva quasi bevuta, senonché un altro ufficiale seduto vicino a lui dice: “Aspetta, se lui dice che era della seconda compagnia noi abbiamo il tenente Santangela che la comandava. Lui saprà se era il barbiere o un allievo. Lo chiamo subito.

Intanto il signor Casali era stato rilasciato ed io ero lì ad aspettare. Quando arrivò il Santangela, mi avvicinai a lui sussurrandogli: “Signor tenente, guardi che ho detto che io ero il barbiere...” Ma lui senza ascoltarmi va subito da Stanzani e gli chiede: “In che cosa posso esserti utile?

Scusami se ti ho disturbato, – gli risponde Stanzani - ma qui c’è un certo Di Bella che dice di essere il barbiere della seconda compagnia…

No, no - risponde il Santangela - era un allievo e mi sorprende come mai non si sia ancora presentato”. Il tenente Stanzani mi guarda e mi dice: “Allora devo proprio arrestarti”.

11 Novembre 2013

Carissimo Mister Di Bella,

sono Angelica la ragazza che si occupa della zia Roset­ta, ho avuto in regalo dalla sua caris­sima nipote Zina il suo libro, che ho letto con grande entusiasmo e atten­zione.
Non pensavo di trovare così piacevole ogni pa­gina da Lei scrit­ta, ma posso assicurargli che è un libro che aiuta a ri­flet­tere tanto infatti la mia riflessione mi ha spinto a far leggere que­ste pa­gine ai miei figli una ra­gazza dicias­set­ten­ne e alla piccola che gli e lo leggerò io, visto che i suoi occhi non le permettono di farlo.
Grazie. Lei è un esempio per tutti i giovani che facil­mente si scoraggiano alle difficoltà della vita, aspet­tando che qual­che uomo politico gli offre un posto di lavoro, recludendo la propria libertà e creatività.
Lei è un uomo da imitare perché è riuscito a lavorare otte­nen­do i suoi obiettivi lavorativi senza scendere a compro­mes­si usando la sua creatività e volontà.
Nelle pagine del suo libro si nota bene quanto ha amato la sua famiglia perché ne parla con dolcezza e amore, ma anche le sue avventure amorose mi hanno fatto sorri­dere.
Lei afferma che non è credente ma Angeli nella sua vita ne ha incontrato tanti una è accanto a lei che si chiama Zina la sua meravigliosa nipote.
Grazie perché alla sua maestosa età riesce ancora farci sor­ri­dere, riflettere e sopratutto a non scoraggiarci.
Con infinito affetto
Angelica

PS. Le raccomando continui a tenere il suo grande cervello attivo
Maggio 2015


XL – In prigione a Modena

Dopo l’arresto a Sassuolo ci hanno portato a Modena e imprigionati nelle celle di una grande caserma militare. Come allievi ufficiali rastrellati a Sassuolo e paesi vicini, eravamo in più di venti e dodici o tredici aderirono subito alla repubblica di Salò e furono liberati e arruolati.

Otto, tutti meridionali, c’eravamo messi d’accordo di non aderire e rimanere prigionieri. Il tenente Stanzani che mi aveva arrestato e che sembrava una brava persona e non un fanatico fascista, cercava di convincermi ad aderire al nuovo esercito di Mussolini, perché pensava che se avessi aderito io, molto probabilmente, gli altri sette o otto mi avrebbero seguito. Ma io rimanevo fermo nella mia decisione di rimanere prigioniero fino alla fine della guerra che ormai sembrava vicina.

Un giorno il tenente mi dice che il colonnello voleva parlarmi e mi porta da lui. L’ufficiale che aveva il comando di tutto il reparto, mi accolse con gentilezza e mi chiese il perché del mio rifiuto ad arruolarmi. Gli spiegai di essere siciliano e che probabilmente il generale Badoglio aveva già arruolato i miei fratelli a combattere contro i tedeschi e che io non intendevo essere messo in condizione di combattere contro di loro. Gli dissi anche che personalmente desideravo una possibile vittoria della Germania ma che non intendevo partecipare ulteriormente a questa guerra.

Il colonnello cominciò a irritarsi e mi disse che queste erano scuse e che ero un vigliacco e un traditore… Gli feci notare che non potevo essere definito un traditore se non intendevo rinnegare al mio originale giuramento. Senza rendermene conto ho accusato lui di essere un traditore. Diventò livido. Il suo mento cominciò a tremare per la rabbia: “Lo sai - mi disse - che ti faccio fucilare di fronte a tutti i militari di questa caserma?”

Chiamò un suo subordinato, gli disse di preparare un plotone di esecuzione e mi fece portare nell’ampio cortile della caserma vicino a un muro. Ero terribilmente confuso: non credevo che mi avrebbe veramente fatto fucilare. Un grande numero di militari fu schierato nel cortile. Io, intanto, mi preparavo a dire qualcosa nel caso volessero procedere con l’esecuzione. Ho avuto tanta paura ma non vidi mai il plotone di esecuzione.

Dopo circa mezz’ora mi riportarono in cella ed cominciai a ridere senza potermi fermare. Si trattava di una risata isterica e quasi dolorosa, tant’è vero, che mentre ridevo pensavo di essere diventato pazzo. Dopo alcuni giorni mi fecero indossare una divisa di sergente allievo ufficiale e mi portarono in Toscana vicino a Firenze, in un campo di raccolta di militari rastrellati, che formavano una specie di reggimento in in cui ufficiali, sottufficiali e soldati erano preparati per essere inviati a lavorare dietro gli eserciti tedeschi in Russia, Polonia o dovunque.

20/11/2013


XLI - Nel 1948 a Torino

Un giorno, mentre rappresentavo la ditta OFEI in Veneto, il ragioniere Contorni mi fece tornare a Milano per dirmi che voleva che io andassi a Torino dove il rappresentante faceva, a sua insaputa, operazioni piuttosto contrarie agli interessi dell’azienda. Voleva addirittura licenziare il dott. Caretti e mettere me a gestire la filiale di Torino. Mi chiese anche di trovare qualcuno che potesse sostituirmi nelle tre Venezie.

A Milano allora c’era un mio caro amico, laureato in chimica, e in cerca di lavoro che si chiamava Nunzio Pozzi. Presentai questo giovane al ragioniere e fu subito assunto sotto la mia responsabilità.

A Torino rilevai tutti i contatti del dott. Caretti, il quale non era per nulla dispiaciuto di staccarsi dalla OFEI e aveva già un suo personale ufficio dal quale vendeva prodotti ferrosi di altre fonti. Diventammo persino amici. In quella città Torino ebbi la fortuna di trovare tantissimi paesani tra i quali un signor Ciraldo che mi fece conoscere un cospicuo numero di persone importanti nel settore industriale Torinese. Avevo un ufficio in via Bogino n. 9, a due passi da Piazza Castello, e abitavo proprio all’angolo di Piazza Castello e via Roma.

Vendetti tanta lamiera decapata e altri prodotti ferrosi a diverse ditte che lavoravano per la FIAT e a costruttori di automobili fuori serie come Pininfarina, nonché tondini per cemento armato a tantissimi costruttori edili piemontesi. Attraverso Caretti compravo rottami di navi che erano demolite da una ditta di La Spezia.

Di norma, il materiale che arrivava a Torino da quella ditta, e che controllavo prima di farlo procedere per Milano, era di ottima qualità. Dopo i primi trasporti, però, non controllai più la merce che andava direttamente a Milano e un giorno mi arrivò una telefonata dal ragioniere Contorni che mi avvisava di aver ricevuto un carico di ruggine invece di rottami. Evidentemente Caretti, tornando ai suoi vecchi trucchi, mi aveva imbrogliato. Quando andai a reclamare nel suo ufficio mi buttò praticamente fuori.

Ero molto arrabbiato e raccontai l’accaduto a un mio dipendente che si chiamava Barone. Mi disse di non preoccuparmi. Ci avrebbe pensato lui a sistemare quel farabutto: dopo qualche giorno gli mandò due finti compratori che gli proposero di voler comprare da lui un’enorme quantità di ferro a un prezzo molto vantaggioso. Caretti acquistò, per quest’ordine, tantissimo ferro a prezzi fuori mercato pensando di poter realizzare un forte guadagno, ma non riuscì più a contattare quei compratori fantasma che gli avevano dato falsi recapiti. In altre parole si è trovò in una situazione quasi fallimentare e mandò persino sua moglie nel mio ufficio a chiedere il mio aiuto che io non gli concessi.

A parte questo, di Torino ho meravigliosi ricordi. Ho vissuto un paio d’anni in quella bellissima città che mi è rimasta nel cuore.

21/11/2013


XLII – Il pianoforte di Portland street

Nel 1959 abitavo in Rose Bay, uno degli eleganti sobborghi di Sydney, ma nella parte più lontana dal centro e dalla visione del mare. Un giorno mia moglie mi dice di aver visto una casa in vendita al numero 13 di Portland street, a Dover Heights, il sobborgo che sovrasta Rose Bay. Durante uno dei pomeriggi seguenti andammo a vederla assieme alle nostre piccole figliole (Sandra poteva avere tre anni e mezzo e Marilyn due).

La casa, di legno, apparteneva a una vecchietta che ci viveva da tempo immemorabile con la sola compagnia di due cani i quali, alla morte della padrona, erano stati portati via, lasciando però nelle loro cucce una quantità indescrivibile di pulci. La nostra piccola Marilyn a un certo punto cominciò a strillare e a piangere. Era letteralmente coperta di pulci.

Siamo subito scappati via senza però non notare che il terreno su cui era stata costruita quella miserevole struttura, aveva meravigliose vedute sulla baia di Sydney ed era vicina a delle nuove e costose abitazioni di lusso.

Decisi di comprarla immediatamente e, dopo aver demolito la struttura esistente, misi in vendita la mia casa di Rose Bay e cominciai a costruire un’elegante residenza a due piani, con un piccolo giardino di variopinte azalee davanti e uno spaziosissimo giardino dietro l’abitazione. In questa casa abbiamo felicemente vissuto per molti anni, fino a quando le mie figliole si sono laureate e in parte abbandonato la casa paterna.

Mi ricordo di tante cose circa questa casa… le feste che facevamo al piano di sotto, in quell’enorme ambiente che era dedicato proprio alle feste… Quando mia figlia Sandra aveva tredici o quattordici anni studiava anche musica ed avevo comprato per lei un pianoforte a coda su cui fare pratica. Bene, tutte le mattine, mentre ero ancora a letto, (non sono mai stato mattiniero), lei suonava sempre lo stesso pezzetto di musica: “Per Elisa” di Beethoven e il mio piccolo cane Timmy, un bassotto di un’intelligenza straordinaria, cominciava a ululare in assonanza con la musica. Dopo parecchie settimane di questa tortura, dissi a mia figlia di voler regalare quel pianoforte alle suore della sua scuola e loro inviarono due uomini a ritirarlo.

Le suore mi ringraziarono molto per la mia generosità. Pensavo che spettasse a me ringraziarle per avermi liberato dal mio quotidiano incubo mattiniero.

2/12/2013


XLIII - In prigione alla Casa del Fascio

Quando avevo diciotto anni a Bronte dovevo, con i miei coetanei, andare regolarmente alle esercitazioni pre-militari che si svolgevano, ogni sabato pomeriggio, nei locali del campo sportivo di allora che si chiamava Colleggetto.

Un giorno, durante una sosta delle esercitazioni, io, il mio amico Nunzio Ponzo e un altro studente chiamato Trazzera abbiamo posato i moschetti per terra e, seduti per terra, ci siam messi a giocare con i sassolini. Il nostro comandante, un emerito idiota del fascismo brontese, ci accusò di avere abbandonato le armi e al ritorno in paese ci fece rinchiudere in uno sgabuzzino della casa del Fascio di Bronte con altri sette o otto giovani, che probabilmente avevano commesso qualche altro atto improprio.

Dopo di che, tutti gli ufficiali capitanati dal nostro segretario politico don Attilio, andarono al cinema. I ragazzi rimasti nel locale ci beffeggiavano attraverso la gattaiola e uno dei giovani diede un calcio alla porta per spaventarli rompendo una piccola scheggia della vecchia e fragile porta.

I ragazzi corsero al cinema a informare che i prigionieri avevano rotto la porta e volevano fuggire. Il gerarca, arrivato di corsa al locale con tutti i suoi prodi aiutanti, fece uscire uno dei giovani e gli chiese: “Chi ha dato il calcio alla porta?” Quando il giovane rispose di non saperlo, lo colpì parecchie volte con una frusta, lo fece andare in un angolo del locale chiamando fuori un altro giovane. Fa le stesse domande, lo picchia di santa ragione e continua a fare la stessa cosa con tutti i sette giovani manovali o artigiani che erano nella cella con noi.

Infine chiama fuori il mio amico Nunzio e gli fa la stessa domanda. Nunzio non rispose ma lo guardò indignato. Lui, adesso veramente inferocito, lo colpì alla faccia con la frusta. Allora, io sono uscito dalla cella come un gatto selvatico. Avevo gli occhi fuori dalle orbite, ho afferrato una sedia e gridando come un forsennato dicevo: “Non si permetta di colpirmi… ha capito? Non si permetta!!!”

Il gerarca disse a un suo aiutante: “Questo davvero spiritoso è” e l’altro risponde: “E loro di famiglia sono”.
Intanto gli altri giovani che erano in un angolo della sala avevano tutti preso una sedia ed erano pronti ad attaccare se necessario. Il gerarca ordinò a tutti di tornare in cella. Chiamò fuori, uno per volta, quei giovani, gli disse che a lui non piaceva picchiare la gente: lo faceva solo per il loro bene, gli regalò una sigaretta e li mandò a casa.

Rimanemmo solo noi tre studenti: ci chiamò fuori tutti insieme e cominciò a recitare la solita ramanzina. Nunzio e Trazzera non hanno aprirono bocca. Io gli dissi: “Senta, don Attilio, io per lei ho avuto sempre una grande stima ma il suo problema è che lei si circonda di un gruppo d’imbecilli che, accecati da un incomprensibile zelo militare, fanno delle cose assurde. Il non ho ancora capito perché noi tre siamo stati puniti.”
“Ma voi avete abbandonato le armi! Nel vero esercito un’azione del genere comporta la fucilazione”.

“E lei crede che sedersi per terra con il moschetto accanto vuol dire abbandonare le armi?” Il gerarca cambiò discorso ci fece dare una sigaretta e ci licenziò. Queste erano le cose che succedevano durante il fascismo ed ecco il perché io allora ero antifascista.

4/12/2013


XLIV – Le capre d’angora di Burraga

Mentre costruivo appartamenti in Sydney e guadagnavo una montagna di soldi, pagavo in tasse delle cifre indecenti e il mio consulente fiscale mi consigliò di comprare una proprietà agricola poiché le spese, fatte in essa per miglioramenti, sarebbero state dedotte dalle tasse e m’inviò lui stesso un agente immobiliare che propose parecchie proprietà rurali nell’arco di trecento chilometri da Sydney. Scelsi una proprietà di oltre mille ettari a uguale distanza tra Oberon e Blainy e di circa 200 Km da Sydney.

Apparteneva a un ex allevatore di pecore merino che aveva venduto i suoi greggi e si era ritirato. C’era ancora una casa e un enorme capannone, dove erano custoditi tutti gli attrezzi per tosare le pecore e trattare la lana. Il terreno era collinoso, piuttosto simile a quello del mio paese a circa ottocento metri dal livello del mare, e un importante numero di ettari era stato disboscato, recintato e piantato con erbe da pascolo. Conteneva due dighe con sorgenti naturali e un fiumiciattolo che attraversava quasi tutta la proprietà e che raramente si asciugava. Il resto era coperto da boschi di eucalipti e alberi di legni duri e pregiati.

Ero veramente innamorato di questa meravigliosa e riservata proprietà e ci andavo spessissimo con i miei amici a caccia di conigli, fagiani e piccioni selvatici. Feci preparare una trentina di ettari di terra da lavoratori locali per piantare un castagneto ma non continuai con la piantagione perché la ditta che doveva fornire le piante aveva quadruplicato il prezzo delle piante rispetto a quello che mi aveva dato come preventivo. Meno male, perché alcuni anni dopo un incendio distrusse tutto, incluso la casa.

Nella proprietà c’erano mandrie di canguri e ogni tanto I miei amici ne uccidevano qualcuno ma io non ero capace di sparare a uno di essi. Il mio vicino aveva circa tremila pecore che spesso pascolavano sul mio terreno e una quantità indeterminata di bestiame. Allora io, d’accordo con lui, comprai un centinaio di capre di angora e due costosi montoni di pura razza di angora con l’idea che lui badasse a far crescere le mie bestie in cambio dei pascoli che io gli cedevo gratuitamente.

Purtroppo anche questo signore si dimostrò tutt’altro che affidabile e onesto. Quando gli chiesi, dopo un paio d’anni, quanti erano le mie capre mi disse: “Forse una trentina!”.

“Ma come” dico io, “due anni fa erano più di cento!” “Si” mi rispose, “ma tante sono morte”.

Indignato, non parlai più con questo individuo e pochi mesi dopo son venuto in Italia per restarci. Avevo regalato la proprietà in parti uguali ai miei due nipoti maschi ma loro non sono mai andati nemmeno a vederla e parecchi anni fa la proprietà è stata venduta dalle mie figliole a mia insaputa.

5/12/2013


XLV - L’adorabile Timmy

Timmy era un piccolo cane di un nero quasi lucido. Credo di averne già parlato. Dei tanti cani che ho avuto nella mia vita, è stato l’unico al quale mi sono veramente affezionato.

In inglese li chiamano cani salsiccia perché, se ci pensi bene, hanno un corpo lungo e rotondo come un pezzo di salsiccia e quattro gambette che sembrano appena accennate, ma si muovono con una velocità inimmaginabile.

Timmy aveva un’intelligenza assolutamente straordinaria. A volte mi faceva pensare che potesse leggere i miei pensieri o almeno questa era l’impressione che mi dava poiché riusciva a percepire un ordine che gli davo anche a bassissima voce. La sua cuccia era al piano terra della casa al livello del giardino e trascorreva laggiù la maggior parte del suo tempo. Aveva anche scelto un angolo del giardino, dove faceva i suoi bisognini che copriva sempre con della terra circostante.

Quando abitavo in Portland street, di solito tornavo a casa dall’ufficio verso le cinque e dopo aver bevuto il mio quotidiano bicchier d’acqua, allungato con un dito di whisky, mormoravo appena: “You ready boss”? (Pronto, capo?). Arrivava come un fulmine su per le scale scodinzolando furiosamente e pronto alla nostra passeggiata pomeridiana. Se mia moglie o qualcuno mi chiedeva qualcosa e perdevo un po’ di tempo, mi toccava la gamba e con la testa mi faceva segno di andar via.

Quando era fuori, aveva la cattiva abitudine di inseguire le auto, e un giorno avvenne la prevedibile sciagura. Una macchina gli fracassò la gamba anteriore destra. L’ho portai immediatamente dal veterinario che l’ho sedò e dopo aver applicato due piccole stecche di legno, gli fasciò la gambetta. Mentre lo riportavo a casa, mi guardava con un’aria cosi addolorata e contrita… Poverino... era tanto infelice e voleva dirmelo. Dopo qualche giorno cominciò a camminare con tre gambe senza dimenticare di mostrare a chi gli capitava vicino la sua gambetta ingessata.

Quando si guarì perfettamente e dopo che il veterinario rimosse le sue fasciature ricominciò a correre allegramente come faceva sempre. Se, qualche rara volta, volevo rimproverarlo per qualche cosa, metteva su la sua gambetta nella posizione di quando era ingessata e mi guardava in maniera tanto addolorata da indurmi a prenderlo in braccio e accarezzarlo. Non inseguiva più le macchine ma un triste giorno, mentre attraversava la strada, una macchina lo investì uccidendolo.

Si può piangere per la morte di un cane? Io piansi e le mie figliole erano inconsolabili. Lo seppellii vicino a casa mia e non ci ho messo una croce perché non era cattolico, ma ci ho messo un’insegna con la scritta: Qui giace Timmy, un cane quasi umano.

Lunedì, 16 Dicembre 2013


XLVI – La casa di Wallangra Road

Dopo aver venduto la mia casa di Dover Heights, ero andato ad abitare in una nuova casa che avevo costruito in un sobborgo chiamato South Coogee. Era un buon posto e la casa era molto bella ma mi mancavano le vedute e l’ambiente di Dover Heights. Un agente immobiliare della zona m’informò che c’era una casa in vendita all’angolo di Dover Road e Wallangra Road che apparteneva a un professore universitario che si era ritirato in un paese a circa cento km da Sydney.

Andai a vederla ed era una buona casa, in un’eccellente posizione e con grandiose vedute della baia di Sydney. La comprai senza pensarci molto, però, pur essendo in condizioni più che ragionevoli, non era quello che io volevo e, piuttosto che una ristrutturazione, pensai di demolirla e ricostruire una casa come la desideravo io. All’angolo opposto ci abitava un costruttore polacco che, quando vide il bulldozer che demoliva la casa, diceva a tutti i vicini: “Qualcuno ha detto che questo nuovo padrone sia un costruttore ma io penso che debba essere completamente pazzo!”.

Disegnai e costruii per quel sito una casa a due piani che era molto bella. L’entrata era da Wallangra road attraverso un piccolo ma affascinante giardino che finiva con tre scalini che immettevano al portico. Conteneva tre camere, tre bagni, una grande cucina con spazio per prima colazione, salotto, sala da pranzo e una grande veranda accessibile dal salotto e dalla cucina. Nel piano sottostante c’era la lavanderia, un enorme rumpus room per le feste, un doppio garage accessibile da Dover road e dal rumpus room e un’adeguata piscina che occupava il resto del terreno.

Quanti ricordi collegati a questa casa mi vengono in mente. Ricordo che quando la casa era stata completata abbiamo invitato tutti i vicini come si usa in Australia. C’era pure quel costruttore polacco che dopo aver visto la nuova casa, venne a dirmi: “Quando tu demolivi la vecchia casa io, dicevo a tutti che eri pazzo, ma il pazzo sono stato io che ho speso tanti soldi per ristrutturare la mia casa e adesso quello che ho è sempre una vecchia casa.”

Nel periodo che vi ho abitato, ho conosciuto anche tanti italiani che avevano la residenza nella zona. Ho conosciuto Roberto Palumbo, un aviatore di Alitalia che abitava, con la moglie Carla e la figlioletta Robertina, nella mia stessa strada. Ricordo il giorno in cui Carla faceva il bagno nella mia piscina tenendo la sua figlioletta per mano, e quando la ha lasciata sola, cominciò a piangere e appena uscita dall’acqua andò a nascondersi dietro una grande giara di terracotta dicendo: “Non voglio parlare più con nessuno”.

21/12/2013


XLVII - La confusione

Non so proprio di che parlare oggi. Forse anche la mia mente si è sintonizzata con la generale confusione che invade quasi tutte le trasmissioni televisive che si occupano di politica. Le cose che si sentono, da commentatori di destra o di sinistra, sia giornalisti, parlamentari, guru economici o addirittura filosofi, cominciano a diventare confuse o incomprensibili, assolutamente cieche della reale situazione italiana, europea o mondiale.

La globalizzazione ci ha portato a dover competere con i paesi cosiddetti emergenti. Non è umanamente possibile riportare i nostri lavoratori alle stesse condizioni in cui si lavora in paesi come India, Cina, Korea e tanti altri. Le nostre leggi, i sindacati, la miriade di lacci e laccioli che inceppano le nostre produzioni e di quelle di tanti altri paesi europei non potranno mai competere con quei paesi. Si fa un bel dire: Qualità e Made in Italy! Ma quante sono le persone che possono permettersi i firmati e i made in Italy? Ormai fanno tutto le macchine e i loro bottoni possono essere premuti da italiani, tedeschi, marocchini, indiani o chiunque altro.

Per le macchine non fa alcuna differenza. E con l’avanzare della tecnologia presto non ci sarà sicuramente più bisogno neanche di premere bottoni. Allora come si farà a sostenere l’enorme e sempre crescente massa di disoccupati non solo dell’Italia ma di tutto il mondo?

Secondo le leggi della natura, la crescita sproporzionata degli uomini, animali e insetti era controllata dalle guerre, malattie e disastri naturali. Noi abbiamo giustamente ridotto gran parte delle guerre, abbiamo inventato una miriade di medicine per combattere le malattie, ci stiamo dando da fare per prevenire terremoti e inondazioni, ma non pensiamo mai a prevenire un numero di nascite sproporzionato, specialmente nei paesi meno evoluti.

Riflettete, amici miei, riflettete.

Martedì, 24 Dicembre 2013


XLVIII - Esami di Diritto Privato

Tornato a casa dopo la guerra, non vedevo l’ora di ritornare a Milano, ma mio padre mi disse in maniera piuttosto perentoria: “Se prima non ti laurei tu non vai in nessun posto!”

Quando mio padre parlava in questo modo, non c’era verso di contraddirlo e così decisi di laurearmi nel più breve tempo possibile. Avevo quasi sei mesi di tempo, prima degli esami di ben diciotto materie per laurearmi e mi misi a studiare seriamente ed ininterrottamente per tutta quell’estate del 1946. Studiavo principalmente sui compendi delle varie materie di cui dovevo sostenere esami.

Ho sostenuto diciotto esami in una sola sessione e sono stato promosso in tutte, naturalmente con molti diciotto ma anche con un trenta, un ventisette, un ventiquattro, quattro ventitré e tre ventuno.

La materia più difficile era Istituzioni di Diritto Privato. Mi si diceva che il professore di questa materia all’Università di Catania era spietato. Il libro di testo di questa materia era grosso da spaventare ed io avevo letto solo l’introduzione di questo volume e un minimo compendio del resto. Un mio amico, laureando in legge, che doveva sostenere lo stesso esame, mi chiese di ripassare insieme la materia e mi fece delle domande per me assolutamente incomprensibili. Lui aveva studiato su questo enorme libro per circa due anni e a me è sembrava veramente preparato.

Nella prefazione avevo notato che c’erano due correnti di pensiero su quest’argomento: quella del professor Romano e quella di un altro luminare di cui non ricordo il nome. Mi chiamarono agli esami e il professore mi chiese se avessi studiato bene la materia. Dissi che avevo cercato di fare del mio meglio, “Però, - aggiunsi - mi farebbe piacere se lei mi dicesse se segue la scuola Romano o l’altra”.

Il professore, sorpreso, mi chiese: “Perché mi chiedi questo?”

“Perché io sarei più d’accordo con Romano ma non sono del tutto sicuro…”

Allora cominciò una lunga disquisizione sulle teorie del Romano, che lui stesso seguiva, mentre io mi limitavo ad assentire di tanto in tanto e a dargli l’impressione che capissi perfettamente ciò di cui parlava. Passò in questo modo circa un quarto d’ora, quando infine mi chiese qualcosa sui beni reali, a cui ho risposto in maniera un po’ confusa. Mi disse: “Mi aspettavo una risposta più precisa. Comunque si vede che qualcosa l’hai capita!” E mi diede un ventiquattro.

Il mio amico che aspettava fuori non poteva crederci e pensava che il professore fosse impazzito e che se aveva dato a me ventiquattro, lui sicuramente avrebbe preso un trenta e il bacio accademico. Decisi di aspettare il risultato dei suoi esami e dopo circa mezz’ora si sentì il professore gridare: ”Non so quanto tempo hai sgobbato su questo libro ma non hai capito un accidente”.

E gli ha dato diciotto. Il mio povero amico è uscito nel corridoio con le orecchie più rosse dei pomodorini di Pachino.

27/12/2013


XLIX - Mio cugino, il barone

Quando ero al primo anno di Università, frequentava con me un figlio illegittimo di un cugino di mio padre che si chiamava, come me, e che tutti conoscevano a Catania come il cavaliere. Non credo che fosse veramente un cavaliere, ma piuttosto un faccendiere diventato tante volte milionario e altrettante volte fallito.

Suo figlio portava il cognome della mamma e aveva la mania della nobiltà. Aveva addirittura inventato un casato nobiliare dei Baroni di Valasquo, al quale lui diceva di appartenere e nei suoi biglietti da visita e carta intestata aveva questa dicitura con cinque palle. Ricordo che un giorno andammo insieme all’ufficio postale, gestito allora da un mio lontano parente, Tano Di Bella. Quando questi vide le cinque palle sulla busta, disse: “Perbacco, cinque palle!” E mio cugino di rimando: “E due sette. Tutte a sua disposizione.” Il povero Tano non aggiunse altro.

Allora io dipingevo molto e mio cugino mi aveva chiesto di dipingergli uno stemma di famiglia con scudo crociato e leone rampante, come emblema del casato dei baroni di Valasquo. Mentre facevamo questo lavoro, entrò un giorno il padre di mio cugino e disse a suo figlio:

- “Invece dello scudo crociato e del leone io ci metterei una fuscella di ricotta e un cane da mandria. Noi pecorai siamo!”

Questo mio cugino, frequentava tutta la nobiltà catanese e mi aveva presentato a tanti di loro, come il figlio del più grande proprietario terriero di Bronte. Sapeva raccontare balle con una naturalezza inaudita e riusciva a far credere alla gente cose impossibili. Anche se illegittimo era un vero figlio di suo padre.

Lo persi di vista durante la guerra. Non so se sia ancora vivo, ma qualcuno mi diceva che durante la guerra si era sposato in un paesino della Toscana e, tornato a Catania, aveva sposato la vedova di un barone catanese, per cui pare sia stato condannato per bigamia. Non so se tutto questo sia vero o falso. Mi è stato riferito come un si dice. Non giurerei sulla veridicità dei fatti.

Lunedì, 30 Dicembre 2013

(segue)


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