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Nunzio Calì di Roberto Cannata Nunzio Calì (foto a destra) era un personaggio strano, per molti aspetti controverso e lineare allo stesso tempo, compassato e vulcanico, razionale e passionale, eccezionale nella normalità ed imprevedibile nelle esternazioni. Era colui a cui noi ragazzi, inebriati dalla passione calcistica, consegnavamo le nostre aspirazioni, affidavamo le piccole e pur modeste ambizioni. Era, come si suole dire, un personaggio che se non ci fosse stato sarebbe stato opportuno inventare. Adesso vive serenamente la sua età, come ognuno di noi, felice di avere vissuto il suo tempo e noi felici di averlo condiviso con lui. Fin dagli anni 1960 il gioco del calcio a Bronte, quello che era contato veramente, depurato dai successivi tentativi di emulazione, si identificava in Lui che ne era il simbolo e la simbiosi. Nuovo team manager della Polisportiva Bronte, venne ad osservare alcuni di noi, durante le partitelle che si disputavano dai monaci, per una selezione ed un probabile inserimento nella squadra juniores. Essendo un convinto ed accanito tifoso della squadra del Milan, “esortò” chi non lo fosse ad abiurare la propria fede calcistica, un vero e proprio “auto da fè” da Santa Inquisizione che avrebbe permesso ad ognuno di noi di indossare le mitiche magliette rosso-nere cioè i colori sociali della Società Polisportiva Bronte. Però non era, è ovvio, una cosa seria (e anche Lui lo sapeva). Nunzio Calì ha contribuito alla “crescita” di diverse generazioni di giovani, facendo sì che s'integrassero e che esprimessero compiutamente una personalità chiara e trasparente. Quante passeggiate lungo il Corso Umberto hanno visto noi ragazzi e Nunzio accompagnarci in discorsi che non riguardavano solo il calcio ma che, partendo da esso, si dipanavano in problematiche esistenziali e non! Si disquisiva, ricordo, anche dell’opportunità o meno di avere rapporti sessuali alla vigilia di una partita. Il Calì sosteneva che era necessario astenersi, poiché non si faceva in tempo a recuperare le energie fisiche; io sostenevo, invece, che era importante scaricare la tensione, confortato in questo anche dalle nuove teorie dei calciatori olandesi che, a quel tempo, primi fra tutti, portarono con loro in ritiro mogli e fidanzate. Quelle passeggiate erano il prologo di un coinvolgimento più profondo, di una spiritualità che non andava disconosciuta, il cui fine sarebbe stato un'esaltazione o un ridimensionamento sportivo che rispecchiava la vita, la nostra vita. Il gioco del calcio ci trasmetteva tutto ciò e noi avevamo l’obbligo di apprendere per diventare protagonisti di noi stessi, per capire quanto è necessario sapere filtrare le emozioni e le sensazioni. Il Nunzio Calì di allora era, come detto, un personaggio dalla personalità complessa e, per certi aspetti, controversa: tesseva i rapporti umani con notevole intuito psicologico, distruggeva a volte la trama in un impeto d’ira e poi ne raccordava l’ordito con le scuse del caso, significative di un gesto nobile e mai di debolezza o sottomissione. Ricordo un episodio accaduto a Canicattì. Campionato di Prima Categoria, anno 1968/69, la squadra del Bronte giocava contro la Morandi. Dominavamo la partita in lungo e in largo sprecando però molte occasioni da rete. Il risultato non si schiodava dall’1 a 1 e, per colmo di sfortuna, s’infortunò seriamente un nostro difensore che costrinse il Calì a lasciare la panchina per accompagnarlo in ospedale. Naturalmente si trattò di una coincidenza che favorì un ripensamento del Calì sul suo operato ed a chiedere scusa per quanto successo. Al che, da persone sagge, convenimmo che era meglio per tutti dare retta al buon senso anziché trincerarci in un ottuso, sterile orgoglio. All’inizio della settimana che precedeva una partita, mister Calì era una persona affabile e lucida nella disamina comportamentale di ogni singolo. Ne rilevava gli errori precedenti e suggeriva gli accorgimenti per non rifarli, in modo pacato, quasi paternalistico, tenendo a sottolineare che una prestazione agonistica non può prescindere da un approccio mentale equilibrato. Il pensare in modo assillante ad un avvenimento agonistico conduce, inevitabilmente, ad uno svuotamento delle energie psico-fisiche e quindi ad un risultato mediocre se non addirittura negativo. Questo è stato uno dei tanti grandi insegnamenti che ho appreso da Lui durante la mia quasi ventennale attività sportiva e che mi ha sempre accompagnato e guidato nei meandri della vita di relazione. Dicevo che all’inizio della settimana mister Calì era una persona affabile, ma dall’antivigilia di una partita non era più lo stesso, lo si vedeva come caduto in “trance”, assumeva caratteristiche somatiche che non gli appartenevano. Con la fronte aggrottata ed una ritrosia inconsueta, immergeva il suo pensiero nelle soluzioni da adottare che lo proiettavano in una dimensione quasi surreale. Questo modo di comportarsi, evidentemente, era l’antitesi dei suoi insegnamenti che, se pure in apparente stridente contrasto, rimarcavano la sua personalità pregna di caparbietà ed ostinata a tal punto da essere capace d’immolare affetti ed interessi per un fine nobile, parallelo ma non secondario all’attività sportiva, quale l’educazione morale di tantissimi giovani i quali avranno senz’altro sentito, in un momento della loro vita, il dovere di ringraziarlo “con le ginocchia della mente genuflesse”.
Seconda foto (a colori): la squadra del Bronte vincitrice del Campionato di Prima Categoria (anno 1971/72). Da sinistra, in alto: Romolo Cannata (medico sociale), Saro Trombetta (secondo portiere), Turi Bella, Gianni Cannata, Roberto Cannata, Mario Tamà, Pino Masuzzo, Toni Carbone, Nino Pace, Tano Scala, Nino Castiglione (Presidente Polisportiva Bronte); in basso, da sinistra: Nunzio Calì (allenatore), Petronilla (accompagnatore), due piccoli tifosi, Orazio Marino, Venero Rapisarda (capitano), Luigi Pace, Saro Signorello, Enzo Magnanti (portiere). Nella foto a destra, alcuni giocatori della Polisportiva tornati a Bronte a trovare Nunzio Calì (primo a sinistra), fotografati due anni fa nella terrazza del Circolo di Cultura E. Cimbali. | ||||||||||
Enrico Greco Un chimico brontese in viaggio nel tempo tra tre continenti di Maria Ausilia Boemi Un chimico brontese, conteso tra 3 continenti, con le sue ricerche viaggia pure nel tempo: Enrico Greco, 30 anni, sposato, laureato in Scienze chimiche all’università di Catania, dottorato sempre a Catania, si divide oggi tra Cina, Usa e Francia, spaziando dall’archeologia ai materiali del futuro come il “magico” grafene. Contemporaneamente, con l’università della South Florida, è iniziata «una collaborazione per analizzare residui solidi da scavi archeologici per identificare olio, vino, cibi cotti o residui rimasti in giare votive in siti archeologici. Sempre nel campo dell’archeofood, l’anno scorso, invece, «in una collaborazione tra università di Catania e del Cairo (di cui ero primo autore, coordinata dai prof. Enrico Ciliberto e Salvatore Foti e portata avanti coi colleghi Rosaria Saletti e Vincenzo Cunsolo) e sviluppando un protocollo di proteomica specifico, abbiamo scoperto il residuo solido di formaggio più antico del mondo: risale a 3.200 anni fa, era un mix da latte bovino e ovino e vi abbiamo trovato la prima evidenza biomolecolare del batterio della brucellosi in Egitto». Dalla preistoria al futuro spinto: non viaggia infatti solo nello spazio tra tre continenti il chimico brontese, ma anche nel tempo. «All’università di Pechino mi occupo dello sviluppo di uno dei materiali più innovativi attuali: un aerogel di grafene. Il grafene è un foglietto dello spessore di un atomo (il materiale quindi più sottile immaginabile) composto solo di atomi di carbonio. Io unisco questi foglietti in strutture tridimensionali spugnose molto grandi, per ottenere campioni solidi di dimensioni di centimetri o decimetri di materiale estremamente poroso e leggero (il più leggero ottenibile oggi) Una spiegazione in parole povere di concetti e ricerche estremamente complicati, i cui utilizzi sono i più disparati: «Dall’industria automobilistica a quella aerospaziale e ambientale. Io lavoro per il College di scienze e ingegneria ambientale, quindi le applicazioni che progettiamo sono vocate alla creazione di materiali rispettosi dell’ambiente in fase produttiva e che anche nell’utilizzo possano migliorare l’inquinamento atmosferico e delle acque». E finora siamo a due continenti (America e Asia): ma con il post-doc a Marsiglia entra in scena l’Europa. «Il prof. Stéphane Viel dell’università di Marsiglia ha vinto un grant per un progetto del cui team faccio parte perché mi conoscevano dai tempi del dottorato e serviva loro una figura con competenze specifiche proprio sulle tecniche che uso a Pechino. Ho dovuto quindi anticipare i tempi perché il mio contratto di post-doc a Pechino finirà il 15 marzo 2020, mentre quello (pure per post-doc) a Marsiglia inizia il prossimo 1 aprile. Un cervello etneo, quindi, conteso tra 3 continenti: «La mia grande fortuna - sottolinea Enrico Greco – è il background estremamente solido che mi ha fornito l’università di Catania. Gli studi in Italia sono di altissima qualità e mi ritengo molto fortunato di avere studiato a Catania che, pur con tutte le difficoltà tecniche per carenza di fondi, ha una qualità dell’insegnamento e delle conoscenze elevatissime. Il background che ho ricevuto a Catania mi ha permesso di avere una flessibilità mentale per risolvere problemi specifici utilizzando una solida multidisciplinarietà». Un motivo per il quale gli italiani sono molto richiesti. E l’Italia se li fa sfuggire, dopo avere investito tanti soldi per prepararli in maniera così eccellente: «Ci vorrebbe una politica diversa, si dovrebbe spendere molto di più in ricerca. Riusciamo a rimanere al top mondiale pur non avendo la stessa quantità di investimenti di altre nazioni, riusciamo a competere con gli Usa pur avendo forse un centesimo dei finanziamenti che hanno gli atenei americani, a competere con la Cina che ha tantissimi soldi ma non ha sviluppato una solida cultura nella ricerca. Ed è quella che i cinesi cercano in tutti i ricercatori europei ed americani che attraggono qui. Tutti all’estero, ma disponibili a tornare «alle giuste condizioni», perché per il dott. Greco c’è il cruccio umano della lontananza della famiglia, ma soprattutto «vorrei fare ricerca nel mio Paese e aiutare l’Italia. Io lavoro qui su tecnologie all’avanguardia, applicazioni sensibili per il futuro, però lo sto facendo per un altro Paese. Altro mondo, altra mentalità, altre opportunità in una Cina diversa da quella che noi occidentali immaginiamo: «Pechino o Shanghai sono città estremamente cosmopolite. Il mondo sta passando da qua, ci sono persone di tutti i continenti, si trova di tutto: non il pistacchio di Bronte (quello me lo porto da casa), però se voglio la ricotta fresca ragusana, le mozzarelle o il parmigiano li trovo senza problemi. Se voglio la pizza, ci sono ottime pizzerie napoletane di grandissima tradizione. Una “preistoria” per la quale però è forte la nostalgia «di famiglia, amici, colleghi, dell’Etna, del mio pistacchieto, del mangiare all’aperto», mentre non manca al dott. Greco «l’inefficienza, il modo in cui non sappiamo gestire i nostri patrimoni umani e le risorse, la burocrazia. Non mi manca il clientelarismo: qui, come in Francia e negli Usa, importa solo quello che so fare, è veramente tutto basato sul merito. In Sicilia no. Ho trovato persone eccezionali, come il prof. Enrico Ciliberto e il prof. Roberto Purrello che non smetterò mai di ringraziare, però ho avuto anche difficoltà in altri casi e questo non mi manca per niente». Nessun rimpianto, ovviamente - «Faccio in realtà quello che mi piace, cioè ricerca a ottimi livelli» - anche se «andare via dalla Sicilia è difficile, è complesso staccarsi da un ambiente confortevole. Però credo che per la mia generazione fare delle esperienze, soprattutto in questa parte del mondo, è fondamentale». E un giramondo che ha visitato più di 35 Paesi negli ultimi 10 anni non può che consigliare ai giovani coetanei «di viaggiare il più possibile e di scoprire la diversità. Senza mai dimenticare le proprie radici o la propria identità: io sono fieramente italiano, fieramente siciliano, catanese, brontese, non lo rinnego e lo porto sempre con me. Certo, «l’adattabilità è fondamentale. Tre anni fa quando venni qui durante il mio dottorato presi un appartamento veramente fatiscente, poi però mi sono adattato e questa esperienza mi ha temprato. La flessibilità e l’adattamento sono fondamentali per capire come funzionano le cose in altri posti e comprendere che il proprio orticello non è il mondo». |