Il pistacchio che risveglia gli appetiti venerei
Un brano tratto dal capitolo dedicato al “Pistacchio” del libro “Tuttifrutti” di Giuseppe Barbera (Editore Mondadori, 2007, collana Oscar Saggi, serie Scienze, pp. 216, prezzo 9,40 euro). Il libro è un viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei, fra scienza e letteratura. Albero per albero, dall'albicocco al susino, dal mandorlo al pistacchio, descrive di ogni pianta da frutto il ruolo produttivo e ambientale ma anche la presenza nelle arti figurative e nella letteratura. Tocca alcuni degli ambienti più belli del nostro paese, dalle limonaie del Garda ai giardini rinascimentali, dalla Conca d'Oro alle pendici dell'Etna. L'autore è professore ordinario di Colture Arboree all'Università di Palermo. Autore di numerose pubblicazioni in materia, si occupa di sistemi e paesaggi della tradizione agricola mediterranea. Le illustrazioni del libro sono di M. Bianca. Il titolo è tratto da "La Sicilia" del 7 Marzo 2006 che ha anche pubblicato lo stesso brano.. «Nell’Arabia felix era privilegio esclusivo della regina di Saba. Cresceva nei giardini di Assurbanipal e i suoi frutti erano tra i doni di Giacobbe al faraone «Gli eventi forman tutti una catena nel migliore dei mondi possibili, perchè, finalmente, quando voi non foste stato cacciato a furia di calci nel deretano da un bel castello per amore di madamigella Cunegonda - conclude Pangloss nel “Candide” di Voltaire - Quando non foste stato sottomesso dall'Inquisizione, quando non aveste fatta a piedi l'America, quando non aveste dato un bel colpo di spada al barone, non aveste perso tutti i vostri montoni del bel paese d'Eldorado; non mangereste qui cedri canditi e pistacchi». Anche nel mondo comune tutto appare più sopportabile se alla fine arriva un morbido gelato al pistacchio, il piccolo seme del Pistacia vera, ricco di olio e di sapore e inconfondibile, tra i frutti secchi, per il colore verde. Del resto nell'Arabia felix, l'odierno Yemen, era privilegio esclusivo della regina di Saba. Nella pianura del Tigri l'albero cresceva nei giardini di Assurbanipal e i suoi frutti erano parte dei doni che, nella “Genesi” (43,11), Giacobbe invia al faraone: «Mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti del paese e portateli in dono a quell'uomo: un po' di balsamo, un po' di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle». Erano tenuti in grande considerazione, lo ripetono i vecchi trattati di fitoterapia, soprattutto perché «meravigliosi nel risvegliare gli appetiti venerei» e in quanto efficaci afrodisiaci entravano nella composizione di piatti particolari come la salsa del “Cuoco Galante” del 1773 di Vincenzo Corrado: «Pestansi bottariche, acciughe, pistacchi, menta e tartufi e sciolti con sugo di limone, oli e aceto di targone e con spezia condita di salsa, si servirà nei pasticci freddi di pesce». Tanto preziosi sono i pistacchi - ancora oggi costano tre volte più delle mandorle o delle nocciole - che il più importante trattato arabo-andaluso di agricoltura, il “Kitab al Filaha” (Libro di Agricoltura) di Ibn al Awwam, per produrne in abbondanza, suggeriva di interrare al piede degli alberi nelle quattro posizioni cardinali una «quantità di oro pari al peso di sette, otto semi di orzo». Eccezionale attenzione agronomica che non deriva solo dalla preziosità del prodotto ma anche dalle difficoltà nell'ottenere frutti in quanto la specie ha individui maschili, che solitamente fioriscono prima. Ciò rende impossibile la fecondazione degli alberi femmina e la produzione ad anni alterni. I coltivatori mediterranei di pistacchio, non potendo imitare i loro colleghi andalusi, per aumentare la produttività si sono limitati a innestare maschi e femmine insieme, ad affidarsi al polline del terebinto, una specie affine, inseminando i pistacchi femmine con fiori raccolti in sacchetti o appesi in corona attorno ai rami e, negli impianti moderni, a selezionare maschi a fioritura tardiva. L'agricoltura italiana conoscerà tardi il pistacchio, a Roma sarà coltivato per la prima volta intorno al 35 a.C. in un podere presso il lago del Fucino di proprietà del censore Lucio Vitellio, che fu ambasciatore in Siria negli ultimi anni dell'impero di Tiberio e che lo introdusse insieme con una pregiata varietà di fico. I romani conoscevano già i suoi semi dai commerci orientali, apprezzavano soprattutto quelli siriani che ritenevano anche un buon rimedio contro i serpenti. Adottarono il nome greco pistakios che originava dall'antico persiano pistah che significa “'resinoso” e indica il carattere distintivo non solo della forma “gentile” ma anche di due specie selvatiche, il terebinto e il lentisco, molto rappresentate nella macchia mediterranea. Dal terebinto, incidendo periodicamente la corteccia, si ottiene la trementina di Chio, la celebre resina naturale che l'isola greca produce tradizionalmente. Il lentisco, il balsamo della Bibbia, predecessore della gomma da masticare molto noto nella medicina orientale e utilizzato, scriveva Duhamel de Monceau il più illustre rappresentante dell'illuminismo agronomico, da «i turchi e le signore del serraglio che lo masticano in continuazione per rendere il loro alito gradevole, fortificare le gengive e sbiancare i denti». Ma i pistacchi di Damasco e quelli persiani di Kerman superavano per apprezzamento ogni altra produzione. Molto considerati anche quelli di Smirne in Turchia con cui si fanno i deliziosi baklava, ai quali Rumi il poeta mistico del XII secolo fondatore dei dervisci rotanti, dopo aver danzato in tondo fino ad avvicinarsi al cielo, rinunciava a una sola condizione: «Posa la tua gota un istante su questa guancia ebbra / fammi dimenticare la guerra e la ferocia in me / ... / non chiedo dolci di pistacchio / ma il tuo amore eterno». Ma nulla a che vedere, in quanto a qualità, con i pistacchi di Bronte alle falde dell'Etna, che iniziarono a essere coltivati solo nel XIX secolo ma che subito risultarono i migliori e i più pagati come dimostrano, ancora oggi, i prezzi sui mercati e, inconfondibile, il colore verde brillante.» [Giuseppe Barbera] 190 ricette con l'oro di Bronte: il pistacchio |