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Vincenzo Schilirò

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Vincenzo Schilirò, Educatore e Letterato

(Bronte 1883 - Catania 1950)

di Nicola Lupo

6 . L'arte di Gabriele D'annunzio

Sull'arte di Gabriele D'Annunzio lo Schilirò pubblicò, come si vede dalla bibliografia, due edizioni: una nel 1918 e una nel '38; noi abbiamo scelto cinque delle numerose e lusinghiere recensioni alla seconda edizione del 1938.
La più completa e prima in ordine cronologico, è quella di E. Fenu, sull'«Avvenire d'Italia» del 18.8.1938 il quale così scrive:

Il saggio di Vincenzo Schilirò è uno dei più ricchi di potenza persuasiva: non solo perché ha saputo servirsi, con mirabile larghezza di mezzi critici e profondità di cognizioni, di una liberalità e oggettività di indagine che raramente s'incontra, ma perché in noi già saturi di critica post-dannunziana ha saputo risvegliare, con forme induzioni e deduzioni di nuova e palpitante freschezza, i motivi più veri, più violenti, più pecu­liari dell'arte dannunziana. Questo saggio è una delle revisioni più forti, e aggiungiamo, più utili di questa complessa materia e, secondo noi, oltrepassa nettamente i noti e pur profondi studi del Borgese, del Gargiulo e del Flora.

E la ragione è luminosamente chiara: lo Schilirò ha superato con decisione quel criterio estetico, che, spiritualmente agnostico, si indugia al di qua dell'anima da cui l'opera è nata: e per tal motivo i tre criteri surriferiti, valentissimi nello scandaglio formale, si fermano a constatare l'espres­sione sensuale del D'Annunzio (senza risalire alla vera genesi di tali manifestazioni letterarie, e senza quindi penetrare nel reale impasto della personalità del Poeta.
E ciò che soprattutto ha fatto Vincenzo Schilirò, con un apporto di indagini psicologiche e spirituali che non sono affatto estranee al giudizio artistico, quando il criterio estetico non si esaurisca unilateralmente in un lusso verbale.

Da questo excursus la figura e l'opera del D'Annunzio escono obiettivamente tratteggiate nelle loro più sottili contraddizioni: c'è un fondo unitario nel Poeta che sempre si afferma ed emerge, ed è il suo ben noto egotismo, e questa passione egocentrica è, a sua volta, sempre e onninamente intrisa di un fondamentale, esasperato e insuperabile erotismo.

Ma lo Schilirò riesce a dimostrare compiutamente come questo stesso egotismo sensuale abbia assunto via via varie e contrapposte incar­na­zioni, appunto perché nell'anima dannunziana non esistevano né fermentavano principii, leggi, credenze: era una sorta di tabula rasa su cui il Poeta poteva indifferentemente trascrivere suggestioni contingenti, obbedienti all'imperativo della parola che in ogni manifestazione dannunziana è vittoriosa fino all'annientamento del concetto. È così che il D'Annunzio è passato dai suoi inizi carducciani al verismo, al simbolismo, al superomismo, fino al pretto estetismo, in cui la parola è fine a se stessa. Via via che in Europa si affermavano determinate correnti estetiche o filosofiche, il Poeta, che in fatto di idee e concetti era estremamente empirico, si cimentava nei novelli esperimenti: così dai romanzi di una sedicente autopsicologia è passato a un teatro simbolistico, dalla teoria dell'annullamento di sé a quella dell'orgoglio superumano, sulle orme del Nietzsche, all'affermazione dei sensi in tutta la loro trista parabola, al di fuori di norme e concezioni morali.

Tutto questo era possibile perché nel Poeta non c'era realmente un credo; e qui l'analisi di Schilirò tocca il suo vertice severo e originale, in cui sono riconosciute le parti veramente artistiche, ma in cui il giudizio complessivo non può essere che sostanzialmente negativo, quale del resto gli stessi critici estetici hanno già lasciato intendere in parte, nello stesso coro innalzatosi dopo la morte del Poeta, non potendo anch'essi disconoscere non solo il soverchiante artificio della parola, ma la eccessiva intrusione dei sensi, eretti a polo indicatore e dispotico di tutte le trasformazioni dannunziane.

Quei critici però non hanno intuito, come lo Schilirò, che questa capacità prometeica di rivestimenti verbali e sensuali, i più diversi e inusi­tati, i più «immaginifici» come fu detto, è precisamente frutto di una carenza basilare: carenza di fede, la sola che può dare unità, che può alimentare grandi concezioni, pensieri immortali.






I motivi estetici dell'arte d'nunziana,
Giannotta, Catania 1918, ristampato co­me L'arte di Gabriele D'Annunzio, SEI, Torino 1938.

E’ naturale che il virtuosismo tecnico prendesse allora la mano al Poeta: virtuosismo che restava frammentario, perché la stessa arte spriz­zava a bagliori, ma raramente in tutta un'opera. Unità che non poteva davvero germinare dall'erotismo invadente, e che invece è la tara fin troppo ma­nifesta di ogni lavoro del Poeta: tanto più che l' erotismo si complicava con l'estetismo del superuomo che non indietreggiò di fronte al più nefa­sto arbitrio, come Corrado Brando e altri protagonisti dannunziani insegnano.

Ciò spiega perché il Poeta non si sia mai messo innanzi i massimi problemi dell'uomo: il suo dolore, il valore della rinuncia, la bellezza del sacrificio, e come, al più, questi elementi fossero materia di esercizi estetici poco sentiti e sofferti. Quale meraviglia che la Chiesa abbia riprovato un'opera che disconosce gli stessi vincoli di una società eticamente ordinata?
La stessa guerra, che D'Annunzio ha vissuto con calore e con eccezionale vigore, non ha risvegliato in lui che qualche bella intuizione del Notturno, e dopo quest'opera non s'è avuto non solo alcun serio ripensamento del fenomeno bellico, ma s'è assistito a una ripetizione di motivi dannunziani ormai superati.

Su questo lato della attività del Poeta lo Schilirò ha pagine molto serene e umanissime e, contrariamente a molti che pensano alla guerra vis­suta dal D'Annunzio come avventura personale, egli fa larghi e generosi riconoscimenti, apprezzando al giusto valore l'ardire e l'ardore del Poeta: ma questa stessa oggettività gli consente poi di dare all'artista quel che è dell'artista e al soldato quel che è del soldato. In definitiva un libro tempestivo che, soddisfacendo alle esigenze letterarie più forti, ristabilisce al tempo stesso la gerarchia pedagogica e spirituale in cui l'opera del D'Annunzio va collocata: e sarà dunque una preziosa indicazione estetica ed etica per le nuove generazioni. (E. Fenu) [«L'Avvenire d'Italia», 18.8.1938]

Segue la recensione del «Meridiano di Roma» dell'ottobre 1938 che recita:

Vincenzo Schilirò è uno dei critici che si sono più tenacemente battuti contro la corrente estetica crociana a favore di un concetto integrale dell'arte, che non solo scinde la forma dal contenuto, ma considera l'arte come elemento educativo ed elevatore dello spirito.

Egli, che al lume di tale concezione organica dell'arte ha dato importanti saggi su Carducci, su Pirandello, su Marinetti e il futurismo, riesamina ora l'opera letteraria e poetica di Gabriele D'Annunzio, per determinarne «fuori dell'alone bellico e politico» il valore umano e il grado di efficacia civilizzatrice.

Se l'arte non è un vano passatempo né un aristocratico privilegio che autorizza a vilipendere o a misconoscere le esigenze e i valori dello spirito, giustamente lo Schilirò si preoccupa di porre a base del suo giudizio critico, oltre che l'originalità delle forme, quel complesso di elementi che precisano e realizzano l'orientamento etico e spirituale dell'artista.

Per ciò egli in questo libro rivede l'attività poetica dannunziana sotto la luce dei moventi culturali e pratici da cui essa venne gradualmente ispi­rata o assistita. Comincia difatti col delineare il carattere e l'agnosticismo morale del giovane abruzzese, passa ad esaminare i romanzi dell'au­to­psicologia [Il piacere, Giovanni Episcopo, L'Innocente e Trionfo della morte] signoreggiati da un violento sensualismo, per poi definire l'este­tismo e il nietzscheianesimo del d'Annunzio.

Tratteggiata cosi la personalità del Poeta, coi suoi meriti c con le sue manchevolezze, torna facile allo Schilirò stabilire il valore delle Laudi, se­guire fino alla sommità la parabola ascendente dannunziana (Alcyone, La figlia di Jorio) e denunziarne il declino, nella Fiaccola sotto il moggio, in Più che l'amore e nelle altre opere, poetiche e teatrali, che esaltano la «virtù prometea» del delitto.
Il conseguente prevalere del preziosismo linguistico e il meccanizzarsi del sensualismo concettivo ed espressivo caratterizzano, a giudizio dello Schilirò, le opere che il D'Annunzio compose durante il suo esilio in Francia: riflesso naturale dello scadimento etico ed estetico in cui lo scrit­tore era sceso, e del culto fanatico della parola come elemento pittorico e musicale. Era il peggiore dannunzianesimo che violentava il suo stesso genitore.
La guerra europea ricondusse il Poeta alla realtà e agli ideali più alti della vita civile; e a codesta seconda ed eroica giovinezza dannunziana, lo Schilirò dedica pagine di calda ammirazione. Ma fu una giovinezza breve. Dopo l'impresa di Fiume, il Poeta, segregatosi nella villa di Cargnacco, venne ripreso dalle antiche abitudini, che documentano, oltre il vuoto morale e spirituale dell'uomo, la fanatica adorazione dell'artista per la bella parola.

La conclusione di Vincenzo Schilirò è che «Gabriele D'Annunzio, nato veramente poeta, abbia, per difetto più etico che estetico, intorbidata, falsata e dissipata la vena della sua ispirazione. Egli si cacciò da sé in un vicolo di errori (più di vita che di pensiero) il quale gli tolse, purtroppo definitivamente, la possibilità - non solo di sentire e di condividere quella somma di valori tradizionali e civili che fanno così grande la nostra arte e la nostra patria - ma anche di adeguarsi alla più normale ed immutabile umanità.

Eccettuata la parentesi bellica, che, malgrado gli ostacoli e le impeciature di carattere libresco, lo restituì all'Italia degli Italiani, egli non visse che per riflettere nelle sue opere la indisciplinabile e morbosa licenza del suo costume, e per coltivare un'arte che, come lui, sapesse fare a meno d'ogni contenuto umano e vitale. A servizio di codesta arte egli profuse le sue migliori ricchezze: la stupefacente signoria della parola, la grande limpidezza visiva, la sontuosità pittorica delle immagini, l'avvincente musicalità del periodo».

Per conto nostro riteniamo che il saggio dello Schilirò, i cui apprezzamenti combaciano spesso coi giudizi estetici del Borgese, del Flora e del Gargiulo, abbia, su tutta l'altra critica dannunziana, il vantaggio di avere seguito un processo più organico e convincente, perché la sua valuta­zione estetica si integra unificandosi con le ragioni che disciplinano la inscindibile vita interiore dell'uomo. E siamo convinti ch'esso resterà fra i saggi più notevoli e definitivi della vasta bibliografia dannunziana. [«Il Meridiano di Roma», 9.10.1938]

Sempre dell'ottobre del 1938 è il saggio del Magrì, già amico del Nostro:

V. Schilirò non è nuovo alla critica dannunziana: esattamente venti anni fa, egli affrontava i motivi estetici dell'arte dell'lmmaginifico con uno studio saldamente impostato, che suscitò larghi ed autorevoli consensi.

Ora, di fronte all'inevitabile clamore di voci levatosi all'improvvisa scomparsa del Poeta, e soprattutto di fronte al pericolo che le nuove generazioni possano esser tentate «di raffigurarsi la sagoma spirituale e la virtù educativa dell'artista ricalcando il profilo del combattente» e che la simpatia di natura estetica possa a sua volta importare «gravi e assai delicate conseguenze di mimetismo etico-spirituale», egli ha sentito il dovere di tornare sull'argomento, e lo ha fatto con uno studio sereno e severo, in cui il giudizio estetico scaturisce non solo da una completa e profonda conoscenza dell'opera dello scrittore, ma altresì da una chiara e netta visione dei (problemi teorici dell'arte, già dallo stesso Schilirò affrontati e risolti in altre sede col coraggioso riconoscimento dei legami innegabili, e pur tanto spesso negati, che avvincono l'arte alla vita.

I sostenitori della cosi detta poesia pura soffocano «la poesia con le proprie mani, nell'atto stesso che si illudono di vivificarla allontanandola dalla vita»; l'esteticità di quello che l'artista esprime o comunica «non può sottrarsi mai completamente al giudizio (che è come dire alle condi­zioni e alle aspirazioni) di coloro ai quali l'opera d'arte si offre»; «un popolo forte ed illuminato non commetterà mai la stoltezza di buttare la sua civiltà come ostia inutile sopra l'altare dell'arte, ignota dea»: sono questi i punti fermi intorno ai quali il saggio critico dello Schilirò si sviluppa organico, serrato, rigidamente coerente, denudando senza pietosi eufemismi le miserie pretenziosamente ammantate di porpora, riportando alla più semplice espressione i complicati enigmi di un ermetismo, che si sforza di nascondere la più desolante povertà spirituale.

[...] Ogni uomo, come ogni campana, ha il suo particolare timbro; e glielo conferisce la misteriosa lega nativa, il temperamento, la costituzio­nalità psichica: lega che è regalo gratuito del sommo Distributore dei beni... Ma l'uomo non vale soltanto per ciò che dalla natura ha avuto in regalo, ma anche e principalmente per quello che da sé e col faticare diuturno diventa [...].
Per noi, che nel poeta vediamo innanzitutto un'anima, dotata di volontà libera e cosciente, il suo canto rientra fra le attività passabili di merito e di demerito. [...]

Su queste salde basi il saggio dello Schilirò si sviluppa, seguendo i due aspetti fondamentali dell'arte - e della vita - dannunziana, nei quali tem­peramento e formazione spirituale confluiscono e si fondono: preziosismo formale e spirito eversivo e ribelle. Preziosismo formale, che accom­pagna tutta l'opera dannunziana, talora meno evidente, talora ostentatamente dominante, talora presuntuosamente forzato a sostenere il vano tentativo di una evasione dal sensualismo e di un rinnovamento spirituale, talora nel calore dell'ispirazione fuso col soggetto sì da formare quell'unità organica e vitale che è la forma desanctisiana, talora infine tedio­samente volto a mascherare il vuoto interiore sotto una minuziosa nomenclatura da inventario e uno smaccato esibizionismo linguaiolo, o divenuto puro fine a se stesso nell'adorazione della parola arcaicizzante e incartapecorita, per sfoggio inutile di rarità.

Spirito eversivo e ribelle, fallito il tentativo di evasione si drappeggia nella giustificazione teoretica mutuata dalla aforistica dottrina nietzschia­na del superuomo, infine si estingue in una lussuria cerebrale, avvolta e sopraffatta dagli enigmi del preziosismo linguaiolo.

Sui riflessi della dottrina nietzschiana, priva per se stessa di compattezza logica e accolta dal D'Annunzio solo nelle sue forme più compren­sibili e più vivide, lo Schilirò ha pagine chiare e penetranti, specialmente là dove dimostra come da tale dottrina, che tenderebbe all'esalta­zione morbosa della personalità stessa, senza che per altro sia menomata la responsabilità morale, dato che l'annullamento predetto scaturisce da un energico atto volitivo. In particolare nel D'Annunzio sotto l'irreale miraggio del superuomo si nasconde l'effettivo fallimento del libero arbitrio. [...]

Dopo queste premesse non ci meraviglierà più la demolizione delle più ambiziose costruzioni superumanistiche. [...] Non si tratta della reazione di una coscienza morale, che ignora o vuole ignorare le esigenze e i diritti della libertà creativa dell'arte: è in nome di una dottrina estetica che sa e dice che la fiacchezza spirituale, il ripiegamento della volontà, la deformazione di quello che l'umanità ha di più nobile, di più sacro e di più geloso, non potranno mai - per quanto gabellati sotto pomposi nomi - sorreggere l'arte, che non raggiunge le vette eccelse se non a prezzo di una catarsi, che la sollevi dalla animalità ai cieli dello spirito, è in nome di questa dottrina che qui si pronunzia la condanna di tanta parte dell'opera dannunziana.

La conclusione del libro è quale un po' tutti sentiamo nell'anima: di tanta mole di opere si salveranno alcune novelle, pagine di romanzi, alcune liriche e in buona parte l'Alcyone; dei drammi, in qualche modo, la Francesca e La figlia di Jorio: voci della sua terra, un moderato panismo, una sensualità aristocratica e raffinata. (D. Magrì) [«Studium», ottobre 1938]

G. Petralia, che collaborava con Vincenzo Schilirò ne «La Tradizione», così scrisse nel dicembre del 1938:

Chi ha sentito strepitare la fanfara delle lodi alla morte del poeta alcionio, può finalmente riconfrontarsi nel saggio, così ricco di umanità, che Vincenzo Schilirò ha dedicato all'opera dannunziana. L'albero luminoso della poesia dell'Immaginifico è sfrondato una buona volta delle sue stagnole, dei suoi nastri di carta variopinta, per rivelare la sua essenza, poca ed esigua.

Schilirò non ha voluto scrivere una biografia. Alcuni rapidi cenni sulla vita di Gabriele vogliono solo indicare una via da battere per comprendere l'uomo (che fu soprattutto un ribelle, ma un ribelle da ribalta, ostinato a far l'attore sino alla morte) e, più, il poeta così spesso deformato e soffocato dai gesti e dai toni falsi del retore.

Forse a qualche lettore o critico emunctae naris sembrerà, tuttavia, che Schilirò si sia lasciato, nel suo bellissimo saggio, dominare da preoc­cupazioni moralistiche, tale è la sua insistenza nel riprovare tutta la disumana immoralità della maggior parte degli eroi dannunziani (che sono poi un solo eroe: lui, D'Annunzio), protesi a superare qualsiasi limite etico, onde affermare il proprio «io» volante sulla «imperiale quadriga» della Volontà e della Voluttà, dell'Orgoglio e dell'Istinto. E questo c'è davvero nel libro dello Schilirò. Ma è bello che ci sia: poiché nessuna estetica per quanto raffinata potrà farci mai dimenticare che il poeta prima che artista è uomo, e la sua grandezza si misura non dalla sua ribellione ai limiti della legge e dell'ordine, ma dalla sua cosciente obbedienza ad essi.

Ma anche da un punto di vista veramente estetico è valida la critica umana e cristiana di Schilirò, giacché viene a dimostrare come quegli atteg­giamenti del d'Annunzio, pomposamente vani e tremendamente malsani, furono le vere ragioni della falsità della maggior parte della sue opere. Tra arte e vita - e qui è utile rifarci a un aureo libretto dello stesso critico - le interferenze sono più continue e intrinseche che non si creda. [...]

Fatto il bilancio, sulla scorta intelligentissima dello Schilirò, ci troviamo dinanzi a un enorme passivo e a un esiguo attivo. Di tutta quell'immensa produzione narrativa e drammatica, viziata di sensualità e di prometeismo, non si salvano che episodi e scene. E intera, forse, non rimarrà che La Figlia di Jorio, non perché salga alle altezze del capolavoro, ma perché riesce a vivere quasi interamente in un'atmo­sfera di fiaba e d'idillio, dove anche l'orrido e il brutto della colpa sembra purificarsi per non so quale luce e grazia di poesia. Tuttavia la vita vi è falsata e svuotata. «Chi comanda fra le quinte è l'artificio; chi sta a suggerire è un melodista maniaco; chi rappresenta non ha che arie e gesti da melodramma». La parola dannunziana con la sua luccicante ricchezza, con le sue ondate di ritmi dove verso e prosa si confondono, non riesce quasi mai a creare una persuasione. La sua poesia si sente e non si afferra; «meglio si gusta se distratti e smemorati».

Ecco una intuizione felicissima; ecco un criterio che investe direttamente tutta la poesia dell'Immaginifico. Conformemente alle sue doti native, quando riesce ad essere veramente lui, il d'Annunzio esprime una sua poesia sensitiva [...] bisogna riconoscere con lo Schilirò che «non sono pochi i momenti alcionici in cui [...] la natura è guardata con occhi limpidi e la musicalità dell'espressione è tutt'uno con un panismo moderatamente sensuale che non ha nulla da vedere con le noiose fintaggini prometee». E anche il mito acquista spesso vita e movimento innestandosi come parte integrante e come sua palpitante incarnazione nella natura, mentre la forma raggiunge la sua com­piutezza espressiva. [...]

Certo il poeta aspirò a una grande poesia umana e spesso si atteggiò a vate di nostra gente; ma, tolti forse alcuni momenti di caldo senti­mento patrio, in genere fallì la meta. E il sentimento di umanità - che solo è per noi anima di una grande arte - non fu da lui conquistato ed esteticamente rivissuto se non in questo periodo bellico nel quale egli visse una seconda giovinezza, e forse l'unica giovinezza della sua vita. La guerra rivelò nel D'Annunzio una tempra di soldato non comune; e il soldato, salvando l'uomo, salvò l'artista.

Le orazioni, i messaggi, le rievocazioni di quegli anni, [...] recano certo con sé gli antichi vezzi, gli antichi vizi e, peggiore di tutti, quello di usur­pare alla Chiesa il linguaggio per tradurre il suo sentimento patrio. Ma v'è pure, sotto la prosa, un'ammirazione così schietta per tanto sacrificio oscuro degli umili fanti d'Italia che anche la forma ne rimane come bruciata e purificata, sin quasi ad acquistare un accento virilmen­te cristiano. E quando infine il sacrificio scava nelle sue stesse carni, allora nasce il libro suo più pensoso e meno impuro, il Notturno.

Tali le conclusioni di questo saggio, per il cui merito vediamo sbarazzata la atmosfera dalla troppa retorica - e, stavo per dire, dal troppo dan­nunzianesimo - che ha fatto alone al D'Annunzio. Per un giudizio definitivo sul Pescarese non potrà farsi a meno - lo dico con la convinzione più profonda -di questa opera sapiente mente chiarificatrice. (G. Petralia) [«Vita e Pensiero», dicembre 1938]

Nel settembre del 1939, poi, giunse il breve commento dell' «Osservatore Romano»:

Nel giro di una ventina di capitoletti, scritti con chiarezza e precisione rare, dove con difficoltà si cercherebbe una parola di troppo o qualche deviazione dal tema linearmente seguito, con una vigilanza che fa tesoro dei particolari rappresentativi e simbolici ma non perde di vista l'in­sie­me, sempre attento a cogliere gli elementi unitari nel vasto aggrovigliato e sconcertante mondo dell'artista abruzzese, lo Schilirò ci offre, più che un volume sull'argomento, il libro desiderato, che si poteva attendere più tardi, passate le plausibili esaltazioni dell'immediata posterità, determinatosi un clima psicologico più favorevole ad esami obiettivi e sopravvenuta la fatale necessaria inquadratura prospettica. In questo senso lo studio dello Schilirò è audacemente anticipatore e non certo possiamo ora prevedere se e fino a che punto gli darà ragione.
Quello che ci interessa è, per il momento, di dargliela noi. (Red.) [«L'Osservatore Romano», 17.9.1939]

Manca la recensione de «La Civiltà Cattolica» la quale, pur avendo in biblioteca l'opera, non ha creduto opportuno par­larne. Come, del resto, ha fatto per Arte = Vita, Santo Francesco, Gioventù in cammino, Libertà e Democrazja, Note Dantesche, Nozioni di Letteratura e Papà Ottocento e il suo rampollo, senza dame alcuna spiegazione.

In proposito io azzarderei una ipotesi: «La Civiltà Cattolica», forse, non condivideva l'estetica dello Schilirò e non inten­deva parlare del vuoto estetismo del D'Annunzio? Gli scrittori di oggi della prestigiosa rivista non hanno una risposta storica o possono formulare una loro ipotesi?

Le altre opere dello Schilirò: Il Romanticismo e gli amici pedanti, F. T. Marinetti e il Futurismo, Il colpevole, Schemi di concezioni storiche, Il Paradiso e Libertà e Democrazia non figurano in quella ricca biblioteca.
 

 

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