L'EMIGRAZIONE

 

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Cenni storici sulla Città di Bronte

Gli anni 1950-1960

Antonio Antonuzzo, l'emigrato

La breve vicenda di Antonio Antonuzzo, nato nel 1938, secondo di cinque figli d'una famiglia contadina di Bronte, descritta da Paul Ginsborg nel suo libro “Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi” (Einaudi Scuola, Milano Febbraio 1996, pp. 370), può benissimo rappresentare il simbolo di un periodo della nostra storia.

Può essere l’emblema degli anni che vanno dal 1950 al 1955, che videro migliaia di brontesi lasciare il proprio paese, costretti a cambiare vita ed abitudini, alla ricerca di un qualsiasi lavoro e di un futuro migliore.

Si ripeteva ancora una volta in quegli anni, ma in scala più grande, l’emigra­zione degli anni 1904-1905 quando lasciarono Bronte verso altri continenti oltre 400 persone. Le attività agricole che fino all’immediato dopoguerra erano state l’unico soste­gno delle famiglie, non consentivano più nessuna tranquillità economica nè una vita decente, non riuscivano più a soddisfare le necessità e le nuove esigenze della famiglie o il futuro dei figli.

E la popolazione brontese in quegli anni aveva raggiunto il top: alla fine del 1950, quando erano emigrati in 317, contava 22.119 abitanti; un anno dopo, alla fine del 1951, la popolazione era scesa a 20.791 abitanti (oltre 1.300 avevano lasciato il paese alla ricerca di un lavoro).

Furono anni di emigrazione, di distacco di tanti padri e figli dagli affetti più cari e di privazioni e sacrifici inimmaginabili, ma rappresentarono anche con le rimesse che giungevano mensilmente dall’estero, un toccasana per la magra economia e per le condizioni di vita di moltissime famiglie brontesi.

Gli anni successivi han visto anche da noi un risveglio economico grazie proprio alle rimesse di denaro che gli emigrati facevano mensilmente.

I risparmi depositati nel “libretto” alla posta o alla Banca Mutua rappresen­ta­vano il riscatto, il sogno del ritorno, della nuova casa e di una vita migliore. Molti (in genere i padri) furono quelli che negli anni successivi ritornarono a ricongiun­gersi con le loro famiglie; tanti (i giovani) riuscirono invece ad adattarsi nelle nuove comunità, trovarono migliori condizioni di vita e vivono tutt’ora perfettamente integrati in altri luoghi.

 

PAUL GINSBORG, nato a Londra nel 1945, già professore all'Università di Cam­bridge dove ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Sociali e Politiche, dal 1992 inse­gna Storia del­l'Euro­pa contem­pora­nea nella Facoltà di Lettere di Firenze.
E' autore, tra l'altro, di Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988 (Einaudi, Torino 1989), Storia d'Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato (Einaudi, Torino 1998), L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile Stato. 1980-1996 (Einaudi, Torino 1998), e Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49 (Feltrinelli, Milano 1978). Nel 2003 ha pubblicato per Einaudi negli «Struzzi» il saggio Berlusconi, nel 2004 Il tempo di cambiare («ET Saggi», 2005) e nel 2006 La democrazia che non c'è («Vele»).


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Vito Palermo, l'emigrato con la nostalgia

Leggendo nei brani di Ginsborg l’accoglienza ed il trattamento riservati nel Nord o all’estero ai nostri emigrati, oggi ci accorgiamo che da allora non è cambiato nulla: cinquant’anni dopo, li rivediamo in casa nostra nei panni dei nuovi arrivati, “gli extra comunitari”.

«Da Paese agricolo - scrive l’editore nella premessa del libro di Ginsburg - a Paese industriale avanzato: è questo il cammino dell'Italia nei cin­quant'an­ni dalla fine della guerra a oggi attraverso un ampio, spesso convulso processo di modernizzazione che ha radicalmente trasformato il nostro Paese, da un lato diffondendo benessere, dinamismo e multiformi opportunità, dall'altro confer­mando (quando non accentuando) antichi mali e problemi dello Stato e della società italiana».

Il saggio di Paul Ginsborg, - continua - «ricostruisce forme e linee evolutive del nostro recente passato, offrendo un quadro puntuale di quel complesso intreccio di novità e persistenze che ha accompagnato lo sviluppo dell'Italia repubblicana…».

Le vicende di Antonio Antonuzzo sono narrate nel capitolo settimo, dedicato al periodo tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, quello del «miracolo econo­mico» e della fuga dalle campagne.

Paul Ginsborg descrive «il grande fenomeno dell’emigrazione soprattutto dalla campagna alla città, dalle regioni del Sud verso il “triangolo indu­striale” (ma anche verso l’Europa nord-occidentale), coi suoi effetti drammatici di sradicamento, di difficile integrazione, di precarie condizioni di vita nelle nuove sedi.

E prende ad esempio il caso di «Antonio Antonuzzo, nato nel 1938, secondo di cinque figli d'una famiglia contadina di Bronte.»


Il «miracolo economico», la fuga dalle campagne

L'emigrazione

di Paul Ginsoborg

«Antonio Antonuzzo, nato nel 1938, era il secondo dei cinque figli d'una famiglia contadina di Bronte, un paese della Sicilia orientale.

La famiglia Antonuzzo non era povera come altre del villaggio: possedeva infatti un certo numero di animali da allevamento e coltivava a mezzadria un piccolo appezzamento di terra.

Quando Antonio era ancora molto giovane, il padre, «spinto dallo spirito girovago dei siciliani»(1), parti per l'Argentina in cerca di fortuna. Li lavorò come mozzo di stalla e lustrascarpe, prima di tornare a Bronte, due anni dopo, più povero di quando era partito.

Successivamente, nel 1950, quando Antonio aveva dodici anni, l'intera famiglia emigrò a Montino, vicino a Massa Marittima in Toscana.

Tre proprietari terrieri di Bronte avevano acquistato lì una tenuta, promet­tendo ai contadini che li avessero seguiti dalla Sicilia di vendere loro quella terra, che essi assicuravano fertile, suddivisa in piccoli poderi. La possibilità di divenire proprietario fu determinante per il padre di Antonio, mentre la madre era fortemente restia all'idea di lasciare Bronte.

Il 28 settembre 1950 la famiglia Antonuzzo e quella dello zio di Antonio par­tirono per la Toscana, ventuno persone in tutto. Antonio ricorda che alla stazione di Grosseto «La gente si fermava a guardarci... non con commiserazione, indifferenza, ma con disprezzo verso la nostra caro­vana con l'aspetto di zingari»(2).

Il trasferimento a Montino si rivelò un assoluto disastro. La terra era arida e i cinque ettari che la famiglia di Antonio riuscì a comprare erano prevalentemente di terreno boscoso. Gli Antonuzzo divennero pratica­mente indigenti e sbarcarono il lunario come carbonai. Appena fu grande abbastanza, Antonio andò a lavorare nelle miniere di Massa.

Nello stesso periodo la famiglia, che aveva provato l'ostilità dei contadini toscani, tutti comunisti, decise di iscriversi alla Democrazia cristiana.»

Nell'aprile 1962, dopo aver completato il servizio militare, Antonio Antonuzzo decise di abbandonare la campagna toscana e di spostarsi in una città del Nord. Si recò dapprima a Legnano, dove aveva dei cugini, poi, dopo poche settimane, a Milano.

Un altro cugino, Vincenzo, viveva lì in una stanza, in corso Garibaldi, e offrì ad Antonio di sistemarsi con lui: «Una piccola stanza con una sola finestra, i vetri rotti, sostituiti da cartone. Accesa la luce, la lampadina era cosi piccola che la stanza restava in penombra»(3).

I due cugini si dividevano l'unico letto esistente. Antonio, per la prima volta a Milano, si sentì completamente abbandonato: «Mi sentivo solo come in una foresta dove non abitava anima viva»(4).

Grazie a una lettera di raccomandazione della Democrazia cristiana di Massa, Antonio trovò presto lavoro nello stabilimento della Coca Cola a piazza Precotto. Dopo dodici giorni si licenziò. Subito dopo, sempre con l'aiuto della Dc, trovò un lavoro migliore all'Alfa Romeo.

Alla fine del 1962, con i pochi risparmi che aveva, Antonio chiamò la famiglia da Montino a Milano, sistemandola in un appartamento di due stanze, trovato in piazza Lega Lombarda: Il 29-30 dicembre di quell'anno arrivarono i miei, andammo a incontrarli a Melegnano, all'uscita dell’Autostrada del Sole. Quando arrivammo io e mio fratello Giuseppe vedemmo un camion targato Grosseto.
Subito andammo dove era fermo e dentro la cabina trovammo mia madre, mio padre e mio fratello Giovannino. Avevano viaggiato tutta la notte in quattro dentro la cabina del camion. C'era la neve molto alta e faceva freddo maledettamente, erano intirizziti, perché poco coperti. Sul camion c'erano tutti i nostri beni: 6 sedie, un letto grande, uno a una piazza e mezza, un armadio molto vecchio
(5).

Per i cinque anni successivi Antonio rimase all'Alfa Romeo, diventando uno dei militanti più in vista della fabbrica. Poi se ne andò ed entrò nella Cisl come sindacalista a tempo pieno.

Nella storia d'Italia il «miracolo economico» ha significato assai di più che un aumento improvviso dello sviluppo economico o un miglioramento del livello di vita. Esso rappresentò anche l'occasione per un rimescolamento senza prece­denti della popolazione italiana.

Centinaia di migliaia di italiani, come la famiglia Antonuzzo, partirono dai luoghi di origine, lasciarono i paesi dove le loro famiglie avevano vissuto per generazioni, abbandonarono il mondo immutabile dell'Italia contadina e iniziarono nuove vite nelle dinamiche città dell'Italia industrializzata.


Note
:
(1) A. Antonuzzo, Boschi, miniera, catena di montaggio, Roma 1976, p. 42.
(2) Ibid., p. 52.
(3) Ibid., pp. 150-51.
(4) Ibid., p. 158
(5) Ibid., p. 157
(6) A. Ribaldi, I miei 18 anni nel Belice, Assisi 1997,pp. 27-28

 

 

Partenze e arrivi

«I giovani, generalmente scapoli, erano i primi a partire. Erano i più scontenti, i più duri, i più determinati. I rapporti di parentela erano sfruttati al massimo, per offrire loro una base una volta arrivati al Nord. Abbiamo visto come Antonio Antonuzzo si recò dai suoi cugini, prima a Legnano e poi a Milano.

Si otteneva aiuto anche dai compari, da quei padrini che spesso appar­tenevano a una classe sociale più elevata, oppure dai parenti acquisiti e dai vicini.

Gli emigranti meridionali partivano sul famoso treno del sole, stipan­dosi con pacchi e valige nei suoi vagoni; lasciate le stazioni di par­tenza di Palermo e Siracusa, ci si congiungeva a Messina e poi si viaggiava lentamente verso nord attraverso la Calabria, la Basilicata, la Campania, il Lazio, la Toscana e la Liguria. (…) Il treno del sole arrivava alla stazione di T orino ogni mattina alle 9,50 e nei periodi di punta dell'emigrazione era seguito da un convoglio supplementare dieci minuti più tardi.

La prima impressione delle città settentrionali era, per gli immigrati dal Mezzogiorno contadino, sconcertante e spesso paralizzante. Quello che li colpiva di più erano le ampie strade piene di traffico, le luci al neon e i cartelloni pubblicitari, il modo di vestire dei settentrio­nali.

Per quelli che arrivavano d'inverno, la cosa peggiore era la neb­bia gelata che avviluppava Torino e Milano e le faceva sembrare città di un altro paese, meglio ancora di un altro pianeta.

Coloro che potevano si recavano, appena giunti, da parenti, amici, conoscenti. Chi non poteva, ed erano parecchi nei primi anni, trovava un letto in qualche piccola locanda vicino alla stazione, quattro o cin­que per stanza e qualche volta anche dieci o quindici. Queste locande ospitavano in genere anche una trattoria, dove i nuo­vi arrivati potevano mangiare, malamente, per 250-350 lire.

Chi non poteva permettersi queste locande non aveva che scegliere tra le sale d'aspetto delle stazioni o gli scompartimenti vuoti dei treni. Un biglietto da 50 lire per una stazione vicina era in genere suffi­ciente per essere lasciati in pace, per tutta la notte, dalla polizia ferroviaria.»

(Paul Ginsborg, op. cit. pag. 173)

  

Casa e servizi sociali nelle città del Nord

«Appena si sentiva pronto, e dopo aver risparmiato un po' di dena­ro, l'immigrato chiamava la famiglia a raggiungerlo. Spesso lascia­va a casa, in campagna, i propri genitori, soprattutto se anziani, ma invia­va loro denaro e li andava a trovare d'estate. Per la famiglia arrivata al Nord iniziava subito il dramma di trovare una casa dove sistemarsi.

Le città settentrionali erano assoluta­mente impreparate per un afflusso così massiccio, e le famiglie immigrate erano per­tanto costrette a vivere, proprio negli anni del «miracolo», in condi­zioni estremamente precarie.

A Torino, i nuovi abitanti della città trovarono alloggio negli scan­tinati e nei solai del centro, negli edifici destinati a demoli­zione, in cascine abbandonate all'estrema periferia. Ovunque si verificarono atteggiamenti razzisti, e spesso gli apparta­menti non venivano dati in affitto ai meridionali. «La Stampa», il quo­tidiano di Torino, non fece nulla per combattere questo razzismo, ma scelse anzi di esaltare le «virtù civilizzatrici» dei torinesi.

Il maggior sovraf­folla­mento era nelle soffitte del centro, dove vive­vano alme­no quat­tro o cinque persone per stanza. Le stesse «stan­ze», spes­so, al­tro non erano che un'unica camera divisa da tende e vecchie coper­te. Gabinetti e lavandini si trovavano nei corridoi ed erano in comu­ne per una decina di famiglie, almeno quaranta o cin­quanta persone.

Nelle cittadine alla periferia di Milano gli immigrati trovarono una di­versa soluzione al problema della casa, la costruzione delle co­sid­dette «coree»: gruppi di case edificate di notte dagli stessi im­mi­grati, senza alcun permesso urbanistico, su terreni agricoli com­prati coi loro risparmi. Il nome «coree» sembra derivare dal fatto che que­ste costru­zioni apparvero per la prima volta ai tempi della guerra di Corea.

(…) Le scuole divennero il filtro attraverso il quale una generazione di bambini meridionali imparò l'italiano e divenne settentrionale. I mae­stri dovettero fronteggiare migliaia di problemi, mentre il nume­ro insuf­ficiente delle classi costringeva spesso ai doppi e qualche volta anche ai tripli turni. I bambini dei nuovi immigrati si iscrivevano a scuola durante tutto l'anno scolastico: all'inizio capivano ben po­co di quello che veniva loro detto, molti parlavano solo in dialetto stret­tissimo e spesso rispon­devano con muta ostilità ai tentativi di inte­grazione.

La differenza di livello tra Nord e Sud era così grande che perfino i ragaz­zi che avevano regolarmente frequentato la scuo­la in Meri­dione, una volta giunti in Settentrione dovevano retroce­dere di una o due classi.»

(Paul Ginsborg, op. cit. pag. 175)

 

Germania e Svizzera

«Nessun capitolo sull'emigrazione italiana negli anni del «miraco­lo» può fare a meno di una sezione, anche se breve, sugli emigrati italiani nell'Eu­ropa del nord. La Germania occidentale, con i suoi tassi di crescita economica ancor più marcati di quelli dell'Italia, divenne assai rapidamente il paese con il maggior flusso di immi­grati italiani.

Nel giugno del 1963 su 800.000 operai stranieri che vivevano nella Repub­blica Fede­rale, 297.000 erano italiani, 114.000 spagnoli, 103.000 greci e 26.000 turchi. Il 37 per cento degli italiani lavorava nell'edilizia, il 25 per cento in fab­briche metalmeccaniche, il 18 per cento in aziende di altro genere.

A differenza dell'emigrazione nel Nord d'Italia, la maggior parte degli italiani in Germania e Svizzera considerava la loro presenza tempo­ranea. Raramente essi vi rimanevano per più di un anno, né lascia­vano che le loro famiglie li raggiungessero. Gli imprenditori tedeschi, infatti, che lodavano senza riserve l'adat­tabilità dei meri­dionali italiani alla vita di fabbrica e il loro modo di risparmiare, non ne apprezzavano affatto, invece, la frequenza con cui cambiavano posto di lavoro e tornavano ai loro paesi, «per le elezioni, per i ter­remoti, per i santi patroni».

Gli emigranti italiani nell'Europa del nord furono senz'altro quelli che soffrirono di più. Per dieci mesi all'anno non facevano quasi altro che lavorare duramente per molte ore e vivere in isolamento lontano dalle loro case e dalle persone amate. Le tensioni imposte da que­sta situazione agli uomini sposati e alle loro mogli erano enormi, e i padri dovevano accettare che i figli crescessero senza di loro.

Nel 1964 e nel 1965 don Antonio Riboldi, di Santa Ninfa nel Belice, si recò in visita ai suoi oltre 500 parrocchiani emigrati in Svizzera. All'entrata di un parco pubblico in una città svizzera egli lesse que­sto avviso: «Vietato l'ingresso ai cani e agli italiani».

Don Riboldi ag­giunse: «in quegli incontri con i nostri emigrati, rac­co­glievo tutta la nostalgia della propria terra e della propria famiglia; molte volte espres­sa in scene strazianti, tante volte detta solo con le più cocenti lacrime»(6).

Tutti i resoconti confermano l’amara vita degli italiani nell’Europa del nord; per loro il «miracolo» fu una tragedia piuttosto che una liberazione.»

(Paul Ginsborg, op. cit. pag. 177)

Cenni di storia su Bronte


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